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Riflettori su: Anastasia Pavlyuchenkova, la ragazza è capace ma non si applica

Anastasia Pavlyuchenkova ha recentemente alzato a Linz l'ottavo titolo di una carriera che si preannunciava brillante, e per il momento ha disatteso le aspettative. A ventiquattro anni è già passato l'ultimo treno?

Last updated: 22/10/2015 13:10
By Carlo Carnevale Published 22/10/2015
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7 Min Read

Otto titoli vinti in carriera, due quarti di finale Slam, miglior classifica al numero 13 WTA. Possibile che con questi numeri si parli di una delusione, a soli ventiquattro anni? Anastasia Pavlyuchenkova potrebbe rivelarsi una meteora, o affermarsi nel firmamento delle migliori, ma finora è rimasta nel limbo; una golden teenager che non ha tenuto fede alla parola data.

Il 2006 è l’anno dell’esplosione: prima di compiere quindici anni vince gli Australian Open Juniores (superando in finale Caroline Wozniacki), poi prosegue l’anno tra le ragazzine vincendo a New York, prima di confermarsi a Melbourne l’anno successivo. Inutile dirlo, è campionessa under 18 già due anni prima di prendere la patente. Anastasia è un rullo, il suo dritto schiocca con facilità disarmante e i titolisti cominciano a dedicarsi a lei. Sempre nel 2006 la prima wildcard nel circuito maggiore, a Mosca (dove attualmente risiede, lei nativa di Samara, ex città chiusa del Sud Est russo), seguita da un periodo di assestamento tra gli ITF che la portano a riaffacciarsi tra le grandi soltanto nella stagione successiva, in ambito Slam e sempre grazie a wildcard. Il battesimo è durissimo, con un 6-0 6-1 in quaranta minuti subìto a Wimbledon dalla allora top 10 Daniela Hantuchova, e conseguente pianto in spogliatoio tra le braccia di papà Sergey, ex canoista olimpico, che assieme al fratello Alexs la segue, in qualità di coach, da sempre.

Il corpo di Nastija non è mai stato amico: assieme ai flash delle fotografie, già da piccola la russa si accompagnava a problemi di peso che le hanno poi impedito di colmare il gap con le più grandi, negli anni successivi. Il dominio assoluto a livello Juniores lasciava presagire risultati ben più altisonanti di un quarto di finale Slam come miglior piazzamento (colto a Parigi e New York nel 2011), e la psiche della Pavlyuchenkova ne ha risentito da sempre, come per sua stessa ammissione: “Se penso al clamore con cui sono arrivata nel circuito, a volte ho la sensazione di aver fallito, anche se sono ancora molto giovane”. L’atteggiamento in campo è lo specchio della sua insicurezza: non forzati improponibili si alternano a vibranti accelerazioni da fondo, da entrambi i lati del campo, e troppo spesso il suo body language denota instabilità e insofferenza, con delle movenze da “è capace, ma non si applica”. A ventiquattro anni sembra assurdo parlare di carriera finita, ovviamente, ma la sensazione è quella di un’eterna promessa che difficilmente riuscirà a mantenersi.

Sembrava non essere così, nel 2009, quando Anastasia colse la sua prima semifinale in un Mandatory, ad Indian Wells: in riga Domachowska, Jankovic (allora numero 2 del ranking e finalista agli US Open di pochi mesi prima) Knapp, Llagostera-Vives e Radwanska (già in top 10), prima di arrendersi alla Ivanovic deluxe di quegli anni, che era anche campionessa in carica. Sbriciolato il muro della top30 e debutto in Fed Cup, neanche diciottenne, sebbene amaro contro l’esperienza della nostra Francesca Schiavone. La definitiva consacrazione appariva dietro l’angolo, il 2010 le permette di inaugurare la bacheca personale. Monterrey (che diventerà la sua seconda casa, avendolo vinto finora per ben tre volte) e Istanbul sono i suoi primi trofei, e l’anno successivo si raggiunge il picco: un solo titolo (Monterrey, claramente), ma i già citati quarti di finale Slam e una impressionante serie di piazzamenti di qualità, che le valgono l’ingresso tra le prime 20 e la possibilità di gettare l’ancora sul suo best ranking, al numero 13, appena un giorno dopo il suo ventesimo compleanno.

E poi? È qui che l’ingranaggio cigola, che la sua carriera inizia a prendere la stessa forma e lo stesso andamento dei suoi incontri: un bel vincente con il dritto lungolinea (come i due Premier vinti nel 2014, a Parigi indoor e Mosca) si rincorre con palle corte senza senso a metà rete, o lanci di palla svogliati che moltiplicano i doppi falli (come le due vittorie in sei mesi da Gennaio 2012, quando perse al primo turno in Australia, a Madrid e Roma, prima di vincere due incontri in fila al Roland Garros). Fino ad oggi, otto tornei vinti (l’ultimo a Linz la scorsa domenica) sembrano essere quasi il minimo ottenibile con il talento di Pavlyuchenkova, che in maniera velata, nelle sue prime conferenze stampa, confessò anche la pressione sofferta in famiglia: “Mia nonna ha giocato nella Nazionale di pallacanestro della URSS, mio nonno era arbitro internazionale. Mio padre è stato addirittura atleta olimpico, e mia madre ha vinto, nel nuoto, competizioni a livello statale. A volte mi sono sentita a disagio, pensando a loro”. Nessun altro acuto a livello Major, poca sostanza anche nelle presenze in tornei importanti: i successi arrivano, certo, ma incostanti e soprattutto minori, non certo in competizioni di prima fascia. Anastasia sembra accontentarsi, chissà se consapevole fino in fondo dei suoi enormi mezzi: la sua corsa a Mosca in questi giorni potrebbe essere l’unico ostacolo per la qualificazione di Carla Suarez Navarro (e l’esclusione di Flavia Pennetta, salvo wildcard) alle Finals di Singapore.

Il paragone più ovvio sarebbe quello con Grigor Dimitrov, che però a rilento sta appoggiando il naso alla vetrina dei più forti: la bellezza dei colpi di Nastija non sta ancora corrispondendo ai risultati che le sarebbero senz’altro più propri, e la sua tenuta mentale di cristallo spesso cede. Il brillante sorriso di cui il suo profilo Twitter è colmo, tra le foto con il trofeo del torneo di Linz, si sostituisce troppo spesso alle ombre che colorano il suo viso dopo un gratuito o una sconfitta in opinata. Non è un caso che il suo libro preferito sia Mangia, prega, ama di Elizabeth Gilbert: forse solo una volta trovata se stessa, potrà esplodere definitivamente.


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