Brengle, causa da 10 milioni: "L'antidoping mi ha bullizzata"

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Brengle, causa da 10 milioni: “L’antidoping mi ha bullizzata”

La statunitense vuole portare in tribunale WTA, ITF e la società incaricata dei controlli per danni fisici e psicologici. “I giocatori non sono merce, devono avere voce in capitolo su salute e sicurezza”

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Sembra un paradosso, ma l’antidoping può far passare brutti momenti anche a chi è perfettamente pulito. L’ha scoperto a sue spese Madison Brengle, la statunitense ex numero 35 del mondo, che dopo più di una stagione anonima è tornata a far parlare di sé nelle ultime ore per una temeraria causa legale, basata su dei presunti danni riportati nel corso dei controlli di routine ai quali si è sottoposta nel corso degli anni.

A finire trascinate sul banco degli imputati nulla di meno che WTA e ITF, oltre alla International Doping Test & Management (l’agenzia svedese che si occupa dei prelievi e delle analisi del sangue per conto della associazione del tennis femminile). L’accusa, invero piuttosto grave, sarebbe quella di aver deliberatamente ignorato la condizione medica – ufficialmente diagnosticata – di cui Brengle soffre, la Complex Regional Pain Syndrome Type I, nel corso di numerosi test antidoping svolti tra il 2009 e il 2016.

Tale sindrome causerebbe in coloro che ne sono affetti “estremo dolore, gonfiore, intorpidimento e lividi nella zona circostante quella dell’iniezione”, come accertato lo scorso anno dalla stessa ITF. L’impossibilità di accogliere un ago in vena non dovrebbe comunque essere un ostacolo al prelievo del sangue, che per gli atleti è obbligatorio (il rifiuto o l’irreperibilità possono generare squalifiche anche pesanti, come capitato a Viktor Troicki e come rischia ora Alizé Cornet). Basta optare per un metodo altrettanto semplice, la puntura sul polpastrello di un dito della mano.

Tuttavia, tramite un comunicato stampa, Brengle e lo studio legale che la assiste hanno reso noto che le autorità “si sono rifiutate di fornire un sistema alternativo o un sostegno medico”, e che i test svolti con la procedura canonica “l’hanno costretta a ritirarsi dai tornei, e le hanno causato gonfiore e debolezza permanenti nella mano e nel braccio dominante”. Nello specifico viene citato l’episodio degli US Open 2016, quando i test avrebbero costretto la tennista statunitense al ritiro durante l’incontro di primo turno contro la connazionale Kayla Day.

La ITF garantisce che il controllo non avrà alcun effetto fisico sulla prestazione dei giocatori, i quali saranno in grado di competere subito dopo. Così non dev’essere stato nel caso della tennista del Delaware, che sostiene di soffrire oggi di dolori cronici e di non riuscire più a imprimere alla pallina la stessa forza di un tempo, ma diretta correlazione tra i postumi dei brutali controlli e l’incapacità di performare al massimo livello nel corso delle ultime annate viene intesa in senso più esteso rispetto ai semplici danni fisici.

Per descrivere l’atteggiamento tenuto dalle organizzazioni che controllano il tennis, Brengle ha utilizzato un termine forte come “bullismo” e sostiene di aver riportato anche dei traumi di tipo emotivo. Nel corso di un check antidoping durante Wimbledon 2016, ad esempio, il responsabile IDTM John Snowball si sarebbe comportato in modo “verbalmente aggressivo” nei suoi confronti. “Porto avanti questa battaglia per far capire a chi controlla lo sport che amo che i giocatori non sono merce, e vanno trattati con rispetto e dignità. Devono avere voce in capitolo su argomenti come salute e sicurezza”.

Non si tratta della prima volta che una giocatrice di secondo piano fa causa alla WTA per ragioni mediche, eppure il gesto di Brengle, mai risultata positiva o assente ad alcuno dei controlli antidoping, è destinato ad avere una risonanza maggiore. Anche a causa della cifra chiesta per il risarcimento: l’accusa stima per eccesso i danni a 10 milioni di dollari, cioè quasi cinque volte il montepremi totale ottenuto in dieci anni di carriera dalla ventottenne di Dover, che ha avuto come picco massimo il gennaio 2015 dell’unico ottavo Slam e dell’unica finale WTA a Hobart.

Nessuna risposta da WTA e ITF, le quali non hanno finora dichiarato nulla a riguardo del caso. Ma tra incontri truccati, incidenti e sanità le battaglie del tennis si stanno sempre più spesso spostando dal campo al foro (e non quello italico). E l’immagine dello sport, di certo, non ne trae giovamento.

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