Il caso delle wild card al Forte Village: quelle scelte misteriose

Editoriali del Direttore

Il caso delle wild card al Forte Village: quelle scelte misteriose

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TENNIS EDITORIALI – Un’altra wild card per Binaghi junior (per le “quali”): la n.13 fra “quali” e “main draw”! La disinvolta discrezionalità nella loro assegnazione. A Mazzella, miglior tennista sardo da 4 anni, mai neppure una. Rifiutate 11 richieste

Al penultimo Future del circuito ormai in via d’estinzione al Forte Village, Binaghi junior ha chiesto la settimana scorsa l’ennesima wild card per le “quali”, naturalmente ottenendola. Manuel Mazzella, per questo penultimo torneo non l’ha più nemmeno chiesta. Lui, il miglior ragazzo sardo da 4 anni, non l’ha mai ottenuta per il “main-draw” – sia in singolare sia in doppio – pur avendo una classifica migliore di diversi altri tennisti che al main-draw hanno avuto accesso (italiani e stranieri, sardi e non sardi, chi con wild card e chi senza).

Non era per lui difficile immaginare che la sua richiesta sarebbe finita nel cestino, come tutte le altre undici chieste invano per i Futures F8-9-10-11-12-13-14-31-32-33-34.

 

L’ultima sua richiesta di wild card Manuel l’aveva inoltrata il 4 settembre scorso. Il circuito Futures del Forte Village, aveva da poco cambiato il direttore dei suoi tornei. Manuel aveva scritto questa mail al neo direttore Alessandro Porcu: “Gentile direttore, chiedo una wild card in main draw singolare ai tornei F32 (15-21 sett) F33 (22-28 sett) e F34 (29 sett-5 ott) che si disputeranno a S.Margherita di Pula. Le vorrei far presente che sono l’unico giocatore sardo che non ha mai avuto wild card ai precedenti tornei nonostante le richieste effettuate nei tempi e nelle modalità corrette. Ho visto che atleti sardi nei precedenti tornei ne hanno usufruito sia in singolare sia in doppio. Le chiedo di potermi accontentare. Firmato Manuel Mazzella”.

Risposta: picche.

Chissà se Manuel era proprio l’unico, lui pensava di esserlo ma non poteva saperlo al cento per cento. Ma innegabilmente lui è il campione regionale sardo e aveva chiesto le wild card anche per il main draw del doppio senza mai ottenerle. Altri giocatori sardi le hanno invece ottenute, una anche per il singolare nel main draw, altri in doppio, fra i quali Roberto Binaghi, il figlio del Presidente. Fra “quali” e main draw in doppio Binaghi junior, salvo errori od omissioni sempre possibili, ne ha avute 13.

Da una breve ricerchina infatti, fra gli atleti sardi “accontentati” con una wild card nel main draw del doppio ho trovato questi otto tennisti: Piredda-Porcu nel F6 e F7, Asara-Porcu nel F8 e nel F9, Asara-Zucca nel F11, Binaghi-Mocci nel F12-F13-F25-F26-F27, e poi negli ultimi tornei F31 fino a F37, la coppia tutta sarda Mocci-Binaghi più Asara (che ha giocato con un non sardo, Galli) nel torneo F31, la coppia tutta sarda Binaghi-Caddeo nel F32, ancora la coppia Binaghi-Caddeo nel F33, il sardo Marco Porcu (con Moncagatto non sardo) nel F36.

Mentre wild card alle gare di qualificazione di singolare erano state date nel 2013 a Coiana e Fois nel F7, a Mocci e Binaghi nel F26 e nel F27. Poi nel 2014 a Fois nel F5, a Fois, Morelli e Porcu nel F6, a Morelli nel F7, F8 e F9, a Binaghi nel F10, F11, F12, F13, a Fois nel F32, a Porcu nel F33, a Binaghi nel F36.

Per partecipare ai più recenti tornei di doppio Mazzella non avrebbe più avuto la necessità di una wild card (ora ha punti Atp). Quando quella necessità l’aveva avuta (11 volte) l’aveva richiesta (sempre per scritto) ma non l’aveva mai ottenuta.

Insomma Binaghi junior, sia per una wild card per le “quali” di diversi tornei di singolare nonché per il main draw del doppio, non ha davvero avuto i suoi stessi problemi.

È chiaro che Binaghi junior, in tutta questa storia, non ha la benché minima colpa. È un bravissimo ragazzo. E poi è giovane, pare anche giusto incoraggiarlo (sebbene subire tante pesanti sconfitte potrebbe risultare alla fine controproducente: ma questi non sono affari miei). Ed è una colpa lieve, lievissima direi, anche (per lui e Mocci) il non aver rispettato la regola ITF che obbliga i partner di doppio ad indossare magliette dello stesso colore. Si tratta infatti di una regola che trovo francamente esagerata per questi livelli. Ma al Forte Village a più di un giocatore è stato cortesemente invitato a sostituire la maglietta non regolamentare. A lui e Mocci no. Le regole, nel nostro Paese, non sono quasi mai uguali per tutti.

Il circuito organizzato al Forte Village di Santa Margherita di Pula, fortemente sponsorizzato dalla FIT (che vi ha organizzato anche una riunione di consiglio in alta stagione dopo che il Forte Village aveva gestito il servizio di catering al Foro Italico durante gli Internazionali d’Italia) non è stato un successo. Tutt’altro, a giudicare dai risultati. Non solo gli ultimi Futures dell’anno sono stati cancellati, ma l’anno prossimo il circuito non ci sarà più. D’altra parte era folle pensare che giocatori di Futures, tornei dai premi inevitabilmente modesti, potessero alloggiare al Forte Village che pure praticava prezzi “stracciati” (80 euro al giorno) rispetto a quelli consueti da resort a 7 stelle. I giocatori optavano per camere a pagamento in famiglie abitanti nei pressi. L’eco mediatico di questi tornei è stato vicino allo zero, com’era facilmente prevedibile. Così come per la Serie A, altro fallimento in termini di comunicazione sui media.

Lorenzo Giannuzzi, direttore generale del Forte Village – sempre riconfermato dalle diverse proprietà succedutesi in 15 anni – con il business “Fit – Circuito Futures” non ha ottenuto i risultati di altre brillanti operazioni e ha deciso di lasciar perdere.

Considerazioni economiche a parte intanto il presidente FIT Binaghi ha chiesto ancora per il penultimo torneo del circuito, ottenendola, una wild card per il figlio.

Non lo ha dissuaso dal farlo neppure l’articolo pubblicato l’altro giorno su questo sito, dal titolo “Quei silenzi sul presidente delle banane. Senza ritegno anche il tennis“. Al suo posto non l’avrei fatto, ma d’altra parte io non avrei mai neppure nominato mio zio presidente di Supertennis, la tv nella quale la FIT riversa milioni e milioni di euro ogni anno – oltre 5 nel 2013 – neppure se mio zio fosse stato un genio nella gestione delle tv e l’avesse fatto gratis o a pagamento. Questione di opportunità e di stile.

Binaghi junior sabato ha perso da tal Andrea Sonato – un ragazzo del ’95 – 6-2 6-2. Nel precedente torneo, F36, aveva perso da Francesco Ferrari, classe ’97, 6-1, 6-1.

Perchè “aiuta” ottenere una wild card, al di là dell’esperienza che si fa? Perchè si risparmia tempo e denaro (per l’alloggio e/o i trasferimenti). Chi abita a Cagliari evita come minimo un viaggetto di 35 km avanti e indietro da Cagliari a Santa Margherita (70 km in tutto circa) per presenziare all’obbligatorio “check-in” necessario ad iscriversi al venerdì, vigilia delle “quali” che cominciano il sabato. Chi sta più lontano, ad esempio Mazzella (Dorgali-Cala Gonone, 230 km circa da Santa Margherita) risparmia di più, soprattutto se ottiene la wild card del main-draw (torneo che inizia il lunedì), perchè non ha bisogno di dormire fuori casa dal venerdì per disputare le “quali”.

Il punto è che se Binaghi junior la chiede, per un tabellone come per un altro, la ottiene. E così, almeno per il doppio, la ottengono anche altri giocatori sardi peggio classificati di Mazzella, che invece non la ottiene mai.

Papà Mazzella, maestro di tennis del Sardinia Tennis ha evidentemente qualche imperdonabile “colpa” agli occhi di Angelo Binaghi, sebbene non ci abbia mai avuto rapporti personali diretti.

Nessuno sa, tantomeno il padre che anzi amerebbe venirne a conoscenza, se il “peccato originale” sia in qualche modo collegato a contatti un tempo intercorsi fra il TC Cagliari – club nel quali la famiglia Binaghi non figura ufficialmente nella dirigenza, tuttavia ha indiscutibilmente un importante “peso politico” – e il giovane Mazzella quando avrebbe potuto tesserarvisi e non lo fece. O se tale “peccato” possa invece essere collegato a quando Manuel si allenava da Alberto Castellani in Umbria, coach internazionale ATP e presidente della GPTCA ma non più maestro Fit per aver scelto polemicamente tanti anni fa di rinunciare alla tessera FIT. Qui si entra però nel campo delle ipotesi che non potranno mai essere provate e anche l’amicizia di Mazzella con un “contestatore” storico di Binaghi, Claudio Pistolesi, forse è un altro “peccato”, ma sono soltanto vox populi. È un fatto certificato invece che il Sardinia Club (club affiliato Fit da 20 anni) ha subito una multa di 400 euro, e il maestro Alberto Mazzella di 200 euro, per aver tenuto nel 2010 e nel 2011 due corsi di tecnica tennistica con Alberto Castellani. La motivazione? Castellani non è maestro FIT.

Che sia per un motivo o per l’altro, o per tutti insieme, o per altri ancora, fatto sta che – obbligato dalle mancate wild card a giocare sempre le qualificazioni (3 notti in più di spese) – il miglior giocatore sardo è costretto a scegliere (a maggio come a giugno) fra due opzioni: giocare per il suo circolo, il Margine Rosso di Quartu S.Elena, le gare del campionato a squadre di serie B oppure trasferirsi a Santa Margherita per le “quali”. Sceglie la prima opzione, c’è un rapporto economico con il circolo di Quartu S.Elena, lui è il n.1, se non giocasse tutti gli altri “scalerebbero”, tutti i risultati della squadra ne verrebbero compromessi. Ah, verrebbe da pensare a noi maligni di professione: chissà se sarebbe accaduta la stessa cosa se Mazzella avesse giocato per il Tennis Cagliari? Ma non lo sapremo mai.

A lungo, comunque, Manuel Mazzella non si è dato per vinto, anche se ha capito l’antifona, ed ha insistito per avere le wild card. Era arrivato a sollecitare anche il presidente del comitato regionale sardo, Antonello Montaldo, fedelissimo del presidente Binaghi. Ma senza risultato.

Le wild card sono quattro per i Futures. In genere, ma non sempre, due vengono gestite dalla Fit e le altre due dagli organizzatori (che hanno fatto sapere di voler dare priorità a stranieri e a chi prenota l’alloggio al Forte Village). C’è assoluta ed illimitata discrezionalità. Tant’è che la wild card la ottengono giocatori peggio classificati di Mazzella, anche alcuni che non alloggiano a Forte Village, anche non stranieri, anche classificati meno bene di Mazzella. La ottengono da Fit come dagli organizzatori, senza spiegazioni di sorta. C’è chi ha più influenza e chi non ne ha alcuna.

Così Mazzella, che pure la wild card al torneo di Piombino 2013 l’aveva avuta quando Eduardo Infantino era il responsabile FIT anche di questo settore – ed aveva passato anche un turno o due -, non riuscirà mai a “ri-conquistarla” nella sua Sardegna.

Mentre Binaghi junior per il doppio l’ha avuta anche per il main-draw, lui no. Ha superato più volte le “quali”, dimostrando così di avere un livello tecnico sufficiente a partecipare al main-draw. Non c’è dunque una ragione tecnica. Non sarà mica una questione politica o semi-personale per qualche misterioso motivo?

Nessuno sarà mai così fesso da ammetterlo. Ma chi non è fesso intuirà certamente che chi potrebbe intervenire, per qualche motivo ad oggi misterioso, preferisce non farlo. Qualcuno dei silenziosi consiglieri FIT oserà mai aprir bocca, dire la sua, per suggerire al presidente che certe figure sarebbe molto meglio non farle?

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Editoriali del Direttore

È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis

Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

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Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.

Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.

Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive –  non avrebbe mai sopportato i refusi.

 

Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.

Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più  disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.

Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.

Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia.  Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.

Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.

Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.

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Australian Open

Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT

I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

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Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.

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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.

Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.

 

Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.

Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre  qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.

Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?

A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.

Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.

Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.

Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.

Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.

Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.

Quelle ultime due lettere, A e T,  stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.

Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.

Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.

Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set-  a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizioMai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.

Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.

Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.

Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas. 

Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.

Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.

I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.

Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.

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Australian Open

Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?

Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

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La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.

Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi  chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.

Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche  a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.

 

E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori. 

Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.

 Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata  al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift –  perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.

Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi  che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.

Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.

D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.

I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.

Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.

Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.

Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…

Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).

Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.

Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.

 Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.  

La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini

Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita”  (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.

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