TENNIS INTERVISTE – Il periodico spagnolo MARCA ha incontrato Gustavo Kuerten per una lunga intervista, in cui il brasiliano ha ricordato il più grande successo della sua carriera tennistica, il Masters di Lisbona del 2000
Gustavo Kuerten raggiunse il sogno della sua vita quando, nel 2000 a Lisbona, divenne il primo ed unico tennista brasiliano a conquistare un Masters, un titolo che si unì ai tre Roland Garros, in una carriera che fu molestata dai problemi alle anche. Quattordici anni dopo, ‘Guga’ ha visto Novak Djokovic vincere il suo quarto titolo a Londra. Il tennista di Florianópolis racconta a MARCA di come quel titolo ottenuto a Lisbona per lui ‘valse più di uno Slam’, e di ciò che provò allora, quando riuscì a battere Pete Sampras, il suo idolo, di fronte al quale era terrorizzato, e poi ad Andre Agassi, ottenendo quei punti sufficienti per sorpassare il russo Marat Safin ‘per un pelo’, che lo fecero diventare numero uno del mondo alla fine di quella stagione. Ricorda la ‘necessità di abbracciare la sua famiglia e i suoi affetti’, la durezza di un circuito dove crede i giocatori ‘fossero delle cavie’. Ammette il suo stupore ‘perché i grandi tennisti oggi riescono a giocare ad una velocità estrema’ e riconosce l’ammirazione per Rafael Nadal, ‘frutto della scuola spagnola’, dal quale è sempre stato affascinato, e sul quale scherza dicendo che ‘ancora non sono riuscito a scoprire dove abbia parcheggiato la navicella spaziale’.
Cosa significa per lei un Masters e cosa ha provato nel vincerlo?
In un Masters un giocatore ha la possibilità di dare tutto ciò che ha. L’unica complicazione è che si gioca alla fine della stagione, anche se ai miei tempi era peggio, era devastante. A volte non riuscivamo a reggere ed eravamo distrutti dal numero di partite che giocavamo durante l’anno. È un torneo speciale, perché nonostante si tratti di un grandissimo torneo, le cose erano molto semplici, quasi casalinghe. Nel mio caso valse ancora di più perché avevo già vinto uno Slam e inoltre vincerlo mi fece diventare per la prima volta numero uno del mondo, e conclusi l’anno in quella posizione. Inoltre riuscii a battere Sampras e Agassi negli ultimi due match. Io ero quel bambino cresciuto a Florianópolis che vinceva il titolo battendo i suoi due idoli in due giorni. Dopo, si realizzarono tutte le aspettative, e riuscii a superare Safin per un pelo nell’ultima partita per essere numero uno, e dopo il 2000 non si è più ripetuta una cosa del genere, che l’ultima partita della stagione servisse a definire il numero uno del mondo nel circuito. Tutto quello fece aumentare la drammaticità dell’evento e fu il momento migliore della mia carriera, anche se quella soddisfazione non riuscii ad assaporarla se non alcuni mesi dopo.
Come si sente un campione del Masters quando lo vince?
Quando un tennista assapora quel sentimento di diventare campione, non smette di pensarci. La mia vita era sempre la stessa, mangiare, andare in campo, riposare. Il tennis è semplice ma non è facile, non è un mistero, ma è molto difficile essere numero 1. Ci sono necessità uguali per tutti ed essere in quella posizione costa. Normalmente ne gioisci più che dei titoli. Io sentivo la necessità di abbracciare la mia famiglia, Larry (il suo allenatore), il mio gruppo. Lo sforzo che ho dovuto fare nella mia carriera è stato maggiore di quello dei tennisti americani o europei. Era impensabile che un brasiliano riuscisse a fare ciò che ho fatto io. Mi resta il sapore di quella vittoria, l’allegria, la felicità che arrivarono dieci anni dopo. Quando la mia carriera era all’apice arrivarono gli infortuni seri, e a 28, 30, avevo delle sensazioni molto differenti. Tutto quello che ho passato è stato fugace ma imponente.
Quale giocatore del passato lo ha impressionato di più?
Sampras, per la distanza che mi separava da lui e perché aveva delle caratteristiche speciali. Ricordo quella partita a Lisbona e come riuscii a batterlo, soffrendo come un pazzo e approfittando di ogni piccola opportunità che mi si presentò. Le decisioni erano fuori dalla mia portata e questo mi spaventava molto, perché ho sempre desiderato avere la possibilità di comandare il gioco e lui mi faceva impazzire. Ricordo quando lo affrontai, ero molto nervoso perché giocavo contro una stella del tennis, ero nervoso al punto da dimenticare di provare il servizio durante il riscaldamento, ed ero già il numero 5 del mondo. Credo sia stata la più grande vittoria della mia vita, combinata con il miglior gioco in campo e alla finale con Agassi.
E lo spagnolo più speciale?
Rafa senza dubbio. Lui rappresenta il frutto della scuola spagnola. Unisce la lotta ad una determinazione spettacolare, inspiegabile. Ha una forza di reazione ed una capacità tattica che gli permettono di vincere anche quando gioca male. È un tennista che dimostra la qualità del tennis spagnolo, uno disposto ad apprendere sempre. Mi affascina la sua testa perché quando solleva il trofeo del Roland Garros ogni anno, sembra sempre che stia pensando a come vincerlo l’anno seguente. Io lo vedo e sembra sereno nel farlo. È un grandissimo competitore e una persona spettacolare, unisce la personalità di Corretja, di Moyá, di Manolo (Santana), le capacità da guerriero di Emilio ( Sánchez Vicario) e di Berasategui. Osserva tutto e poi lo usa. Il mio era un caso diverso, non avevo tutte quelle opzioni. Lui riesce a prendere vantaggio da qualunque cosa e poi la trasforma per essere un giocatore migliore, e quindi trasmette tutte queste caratteristiche che simbolizzano il successo del tennis spagnolo.
Nadal tornerà ad essere di nuovo grande nel 2015?
Non ne ho il minimo dubbio. Lui riesce a fare cose che nessun altro è in grado di fare. Io mi chiedo sempre, “Dove avrà parcheggiato la sua navicella spaziale?”. Ha vinto così tante volte il Roland Garros, un torneo nel quale si deve sudare e sudare ancora. E lo ha anche vinto da infortunato, quando era stanco, e lo ha fatto nove volte su dieci. Cos’altro si può dire? Puoi operarlo dieci volte ma lo vince. Puoi vedere l’ultima volta com’è riuscito a ritornare, se non ci riesce, allora quella sarà una sorpresa, e tuttavia con le operazioni e le lesioni è sempre riuscito a rimanere numero due o tre del mondo. L’anno passato è rientrato ed è tornato numero uno del mondo, forse una cosa impossibile nel tennis. Si è infortunato ed è tornato a giocare contro due dei migliori tennisti della storia, Federer e Djokovic, ed è stato in grado di riprendersi il numero uno del mondo. Per questo su di lui non ho alcun dubbio e sto con gli occhi ben aperti per le sorprese che verranno.
Non si annoia che siano sempre gli stessi a vincere?
C’è un grande divario fra i migliori e gli ‘eccellenti’, e non dovrebbe esserci così tanta differenza, e questo divario è presente già da dieci anni. Mi manca il fatto che ci siano più campioni. Quanti hanno vinto gli Slam in questi dieci anni? Esclusa questa stagione, sono in quattro. Con questa sei, e in questo Masters e nei 1000 è la stessa storia. Questa mancanza di coraggio per battere i campione fa si che si convincano di non poterli battere. Sembra come se al terzo gioco già si stiano stringendo la mano. Noi facevamo di tutto, parlavamo con i tifosi, l’allenatore, la racchetta… Bisogna dimostrare più voglia di lottare e arriveranno i successi, e oggi questo non lo vedo. Vedo le partite e le persone stanno.. (russando). La mancanza di Rafa si sente molto, è un fuoco artificiale, una dinamite che è sul punto di esplodere.
E quali differenze riscontra con la sua epoca?
Ricordo tutto quello che facevamo noi, e la differenza è che oggi fanno tutto questo, tutto il tempo, alla massima velocità che avevamo noi. Per loro è una cosa costante e sotto controllo. Ed è spettacolare. Il tennis è arrivato ad una bellezza tale che puoi vedere una partita di cinque ore e in quel momento stanno giocando meglio che all’inizio.
Qual è stata la sua delusione più grande a livello professionale?
La mia più grande delusione, che è stato anche un aspetto chiave, è stato il mio infortunio. Mi ha tolto i cinque o sei anni migliori della mia vita. Rispetto al circuito, la competizione è così alta che a volte disumanizza i tennisti. Adesso il circuito è più imano, ma noi siamo stati delle cavie, con partite al quinto set, l’obbligo di giocare tutti i tornei per essere numero uno, così ci ammazzavamo. Ricordo di aver giocato con Ferrero cinque set a Roma e il martedì ero già in campo per giocare di nuovo, e non avevo altra possibilità. Questo livello di competenza mi ha deluso molto.