#TennisDiPeriferia: Rompere la racchetta, quando il tennis è malato

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#TennisDiPeriferia: Rompere la racchetta, quando il tennis è malato

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Tennis di periferia, la racchetta rotta
 

TENNIS DI PERIFERIA – Di racchette spaccate senza motivo, di circoli di Roma Nord dove si gioca nel verde e nella quiete, di storie passate che tornano a galla e di come uno sport già egocentrico possa diventarlo ancora di più

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Frustrato dalla quarta sconfitta in altrettante partite di allenamento, oggi il mio avversario in campo ha sfasciato la racchetta al termine del match
. Gioco con Giulio da molto tempo, fin da quando rispose a un mio annuncio su un forum di tennisti. Avevo scritto un messaggio dove chiedevo per l’appunto se ci fosse qualcuno del mio livello – classifica FIT – con cui allenarmi. Lui rispose subito, a testimonianza – lo capirò successivamente – che quel forum era frequentato da giocatori molto scarsi, super esperti per quanto riguarda materiali: racchette, palline, incordature e anche gripping gel, la novità del momento, ma molto meno capaci in quanto a giocare a tennis. Ecco quindi che l’occasione di giocare con uno bravino era da cogliere al volo. Abbiamo giocato quindi per un intero inverno, diventando amici. Lui, studente fuori sede più giovane di dieci anni rispetto a me, ha beneficiato maggiormente di questi allenamenti, ma questa è un’altra storia.

Durante questo periodo abbiamo giocato parecchio, ci siamo rimessi in palla, e lui nel frattempo ha anche frequentato il corso da istruttore FIT, superandolo con successo, per poi iniziare a lavorare presso un circolo di Roma nord, in un posto molto bello e circondato dal verde, frequentato da pensionati che nuotano al mattino, commercialisti dal pettorale tonificato durante la pausa pranzo e da bambine dai nomi altisonanti (“Elettra, Allegra: andate incontro alla pallina quando colpite”), vestite di bianco mentre prendono lezioni individuali senza mire di agonismo.

Ultimamente Giulio era un po’ fuori palla. Era consapevole del perché: era passato dall’allenarsi con le usuali arrotate per tenere la palla in campo a colpire in maniera piatta per far palleggiare gli adolescenti pigri della scuola tennis. Abbiamo giocato quattro giorni di fila, sempre illuminati e riscaldati dal sole ottobrino di Roma, e ho vinto tutte e quattro le volte. Nettamente. Giulio aveva preso molto male la terza sconfitta, maturata fra l’altro senza la sua racchetta, una Head Radical di qualche modello fa. Non aveva quindi più scuse valide all’indomani della quarta partita, quando si è presentato al campo sorridendo, felice di aver ripreso dall’incordatore la sua fida Head.

Ha iniziato a giocare con più fiducia delle altre volte, forte anche dei miei suggerimenti a non abbattersi e a limitare gli errori, ma non c’è stato nulla da fare: ha perso anche questa volta. E nettamente, ancora. Sul 6-1 5-2 per me, io al servizio, lo sbatto fuori dal campo con un diritto incrociato. Lui ci arriva, colpisce ma sbaglia di metri una facile rimessa in campo. Perde la brocca: urla qualcosa di incomprensibile e sbatte la racchetta con violenza sulla terra rossa del campo numero due. Ho udito subito distintamente lo “scrack”, quel rumore che definitivamente certifica la morte di una racchetta. Lui, al riparo da occhi indiscreti, visto che abitualmente giochiamo in pausa pranzo, quando i bambini sono a pranzo e gli altri avventori del circolo nuotano in piscina o sudano in palestra, ha ripetuto il gesto per altre due volte: voleva essere sicuro di averla fracassata.

La racchetta si è storta a dovere, facendo cadere a terra le pagliuzze di grafite argentee. Lui non ha fatto una piega: ha estratto la gemella dal borsone e si è riposizionato in campo, pronto a ribattere il mio servizio. Ha buttato via gli ultimi due punti, concludendo la partita, di fatto mai iniziata. Nel breve tragitto che mi separava dalla rete, dove ci stringiamo sempre la mano per poi iniziare a commentare le nostre prestazioni, ho avuto dei flashback sul tema: le altre volte in cui avevo visto dal vivo sfasciare una racchetta.

Molti anni fa ero seduto su una panchina davanti il campo centrale del circolo dove giocavo. Era un torneo Open, in campo c’era un mio amico, un tennista scarso molto felice del fatto che l’organizzatore del torneo gli avesse concesso il campo centrale, l’unico provvisto di tribuna costruita ad hoc, con i tubi Innocenti, pronta per ospitare il pubblico che nelle fasi finali avrebbe popolato il circolo. Andrea era un tipo un po’ bizzoso, un non classificato famoso per i suoi soliloqui in mezzo al campo con i quali cercava di attirare l’attenzione. Ero sicuro, però, che non avrebbe mai rotto una racchetta. Quando uno vuole rompere una racchetta, infatti, te ne accorgi immediatamente. Altrettanto rapidamente ti accorgi di chi “bleffa” quando vedi questi giocatori lanciare la racchetta contro i teloni, accompagnando il distacco con pollice e indice che lasciano la presa sul cuore dell’attrezzo, oppure quando la lanciano  a terra di traverso, con il piatto che si adagia sulla terra rossa scivolando a qualche metro di distanza. Andrea invece tirò la racchetta verso i teloni facendola roteare, un gesto molto comune fra i lanciatori di racchetta. Sfortuna volle che l’attrezzo colpì uno dei pali che sorreggevano i teloni verdi marchiati Penn, talmente tesi che non si capiva bene dove fossero posizionati i pali. Si udì anche lì quel rumore inconfondibile della grafite che si spezza. Lui, dopo aver realizzato di aver fatto un danno di parecchi euro, mise sul volto lo sguardo duro e fiero di colui che aveva rotto apposta la racchetta. Noi che lo conoscevamo, sapevamo che era stato solamente stolto, a limite sfortunato.

Tutt’altra storia quella che vide protagonista un altro tennista, Daniele, giocatore di serie C vecchie classifiche tutto genio e sregolatezza. Era un match di torneo e c’erano molti suoi tifosi a seguirlo, assiepati in piedi lungo la recinzione del campo. Il match era combattuto, e Daniele era sotto di un set e anche di un break nel terzo nonostante avesse più talento del suo avversario, un onesto arrotino che da fondo campo non concedeva né errori né distrazioni. Ero lì a tifare Daniele anche io; lo guardavo mentre cercava di addomesticare quei pallettoni in top spin che gli indirizzava il suo avversario. Di certo, la sua impugnatura Continental con la quale eseguiva colpi praticamente di piatto da ambo i lati non lo aiutava. Aveva già invocato i santi del caso e anche di più, ma non era riuscito a tirarsi fuori da quella situazione. Non aveva mai spaccato una racchetta prima d’ora. Non si era mai trovato però di fronte a una pressione del genere: un match di torneo nel suo circolo, la presenza dei suoi amici non tennisti, e il suo maestro a guardarlo mentre perdeva contro un avversario ampiamente alla sua portata. Al termine di un punto che ricordo benissimo, una volée stoppata troppo lunga che l’avversario gli recuperò vincendo il punto, non ebbe dubbi: senza lasciare la racchetta colpì il palo di sostegno della rete, a un paio di metri da lui. La sua Prince si piegò in due. Lui in silenzio non fece una piega. La depositò nel grande cesto circolare dei rifiuti  vicino al cancelletto d’ingresso in campo, prese l’altra racchetta da uno degli scompartimenti del suo grande borsone, bevve un sorso d’acqua e tornò a giocare. Vinse in rimonta quel match. Con quel gesto aveva espulso tutta la negatività mentale che aveva preso il sopravvento, liberando quindi i suoi colpi dall’aggravio di tensione che non gli consentiva di esprimersi come sapeva.

Non ho mai amato i lancia o spaccaracchette. Ho sempre bollato questo gesto come un eccesso,  qualcosa che si compie più per gli altri che per sé stessi. Nel tennis professionistico è all’ordine del giorno ammirare il Fognini o il Gulbis di turno –  giusto per citare i primi due venuti in mente –  spaccare una racchetta dopo qualcosa che è andato storto.  Con le loro centinaia di racchette a disposizione, romperne una non è un dramma. Nel nostro immaginario collettivo ci colpisce molto di più quando a spaccare la racchetta è un giocatore di club, quello che paga con i propri soldi i suoi attrezzi di gioco.

Arrivato a rete ho stretto la mano a Giulio. Era rabbuiato in volto e si aspettava magari le solite parole di consolazione per la sua scarsa prestazione, aggravata dal gesto fatale. Invece gli ho detto: “E ora che hai risolto?”. Una domanda retorica ovviamente, cui sono seguite le sue spiegazioni, astruse e confuse. Stava già maturando il rimorso. Ne ho avuto conferma poco dopo quando mi ha salutato dicendo: “Speriamo di trovarne una usata ad un buon prezzo sul forum”. Ho riposto le mie Wilson delicatamente nel borsone, come se avessero un’anima da rispettare. Sono state compagne di vittorie e sconfitte, ma non ho mai voluto farle diventare protagoniste dei miei match. Forse un comportamento ancora più egocentrico del tennis stesso.

Indice della rubrica:
#TennisDiPeriferia: Ritorno al passato, torneo di tennis col solito finale

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