Caso scommesse: l'avvocato Massimo Rossi analizza la sentenza d'appello

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Caso scommesse: l’avvocato Massimo Rossi analizza la sentenza d’appello

Dopo la scandalosa sentenza del tribunale di primo grado la Corte d’Appello rimette le cose a posto. La Giustizia Federale ne esce un po’ ammaccata ma almeno non del tutto screditata

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Mi verrebbe naturalmente da dire… io l’avevo detto! Ma non lo dico sia perché non è elegante sia perché anche altri lo avevano detto. Sta di fatto che, così come io e altri avevamo scritto, la sentenza “Starace – Bracciali” non ha retto alla verifica dell’appello ed è stata completamente stravolta, più che riformata come invece si dovrebbe dire in giuridichese.
Lasciatemi dire subito che il bello della sentenza della Corte d’appello sta soprattutto nel fatto che questi Giudici ci fanno tornare a credere nella Giustizia federale, di cui, personalmente, avevo cominciato da tempo a dubitare. Un breve commento deve necessariamente partire dal merito della decisione, lasciando un po’ da parte le questioni preliminari che pure sono state affrontate e risolte – in modo in parte discutibile – ma che rivestono interesse più che altro per gli addetti ai lavori. Ci tornerò però fra poco.
Nel merito si può parlare di una assoluzione completa e totale. È vero che Bracciali ha avuto una sospensione di 12 mesi (scadrà a febbraio), ma di fronte all’ergastolo inflittogli con la prima sentenza sotto forma di radiazione, questi 12 mesi sembrano quasi il frutto di una forse inconscia volontà, da un lato di non riportare proprio sullo stesso piano la posizione dei due giocatori e dall’altro lato di non mandare proprio completamente a vuoto (ma quasi) il lavoro immane svolto dalla procura federale in fase di indagini e dal tribunale di primo grado. Insomma, probabilmente non si è voluto infierire fino in fondo, anche se, ribadisco, la prima sentenza è stata di fatto presa e buttata (giustamente) nel cestino della carta straccia.

Bene. Parliamo di Starace. A proposito di Potito i Giudici di appello arrivano a scrivere che per quanto lo riguarda non è neanche il caso di mettersi a discutere della rilevanza o meno del materiale “probatorio” di natura informatica, posto che non esistono intercettazioni telefoniche, mail, sms o chat che possano in qualunque modo essere a lui ricondotte. Così come del tutto campati per aria appaiono indiscutibilmente i presunti “indizi” che i primi giudici avevano ritenuto di ricavare da una disamina astrusa dell’ andamento e del risultato di alcuni match giocati e persi da Potito stesso. Stigmatizzata dunque, ancorché con eleganza stilistica, dai giudici d’appello la totale mancanza di rigore nella valutazione degli (inesistenti) elementi a carico di Starace da parte della prima sentenza, adagiatasi su un discutibilissimo principio cosiddetto “è più probabile che non, e dunque….. condanno!” si può passare senza esitazioni a esaminare la posizione di Bracciali.
Al proposito la Corte esordisce affermando senza riserve che il consulente tecnico di parte, Generale Rapetto, ha completamente smontato senza rimedio l’attendibilità del quadro probatorio fondato sulle pretese risultanze delle comunicazioni informatiche, aggiungendo che né i consulenti della procura federale né quelli della procura nazionale dello sport sono stati in grado di controbattere efficacemente. Caduto l’intero castello di carta sono rimaste solo le suggestive quanto soggettive valutazioni in ordine alla cattiva abitudine di Bracciali di frequentare cattive compagnie e di lasciarsi andare a qualche millanteria di troppo.
La mia è ovviamente una sintesi (fedele, però, credetemi!) di una bella e ben scritta sentenza di 54 pagine, ma il succo è questo. D’altra parte ben 34 di queste 54 pagine sono dedicate, all’inizio, alle questioni formali eccepite in via preliminare dai difensori. Tutte questioni molto interessanti ma che rischiano di annoiare, come detto, i non addetti ai lavori. Intendiamoci, sono aspetti basilari di una giustizia giusta (scusate il bisticcio), pilastri a garanzia della libertà delle persone, anche di poter lavorare giocando a tennis, ma sono anche questioni che, nel caso di specie, sono state rese irrilevanti (o quasi) dalla sostanziale assoluzione nel merito.

Solo su una vorrei dunque spendere qualche parola, ed è quella relativa alle ritenuta ammissibilità dell’intervento nel procedimento disciplinare, attraverso un proprio difensore, della stessa Federtennis, in un ruolo che potremmo assimilare a quello di una parte offesa che si costituisce parte civile in un processo penale.
Non condivido la decisione di ammissibilità adottata dalla Corte. Ed infatti appare evidente a mio parere che nell’ambito di un procedimento disciplinare celebrato secondo le regole di appartenenza a una federazione, deciso da organi giudicanti di nomina federale, con la partecipazione assorbente di una procura federale che è lì a muovere accuse proprio in rappresentanza di una federazione che ha scritto le norme che si pretendono violate da incolpati che sono, anzitutto e soprattutto tesserati di quella federazione e che quindi ne fanno parte e anzi concorrono a costituirne il corpo, appare evidente, dicevo, che ammettere alla discussione un avvocato per la federazione vuol dire duplicare (illegittimamente) un ruolo che già appartiene al procuratore federale. Aggiungasi, per essere ancora più chiari, che le ammende rifilate ai condannati finiscono già e comunque nelle tasche della federazione, senza bisogno che si……… costituisca parte civile. Una costituzione che rischia soltanto, come è successo in questo caso, di pesare sul bilancio federale (e dunque su affiliati e tesserati, compreso Starace!) in relazione agli onorari che comunque andranno pagati all’avvocato o agli avvocati incaricati dalla Fit di rappresentarla. Onorari non sempre esigui e che si aggiungono comunque, in un caso come questo, alle già non indifferenti spese sostenute per un procedimento conclusosi con un sostanziale nulla di fatto ma dopo lunghe indagini e ben due gradi di giudizio.

Massimo Rossi

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