La piccola Biblioteca di Ubitennis. Spazio Clerici: il contrario di Pasolini

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La piccola Biblioteca di Ubitennis. Spazio Clerici: il contrario di Pasolini

Piccola biblioteca. Dopo aver ospitato la recensione dell’ultimo romanzo di Clerici da parte di Antonio De Florio, ci permettiamo un approfondimento (in due parti) della sua ultima fatica letteraria. Una strana biografia fatta di tennis, ricordi, incontri con uomini straordinari e scrittura. Soprattutto scrittura

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Clerici G., Quello del tennis. Storia della mia vita e di uomini più noti di me, Mondadori, 2015.

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Quando riemergo dall’ultimo libro di Clerici ho davanti agli occhi un rosario di delicati acquarelli narrativi che raccontano un secolo incredibile e i dubbi esistenziali di un suo testimone privilegiato. Una casa di Como. Nonni imprenditori. Zii mascalzoni. Donne pie. Africa e (anti)fascismo. Tennis e scrittura. Goliardia, eleganza e una catena d’incontri con una serie di uomini, a detta di chi scrive, più importanti di lui. Rino Tommasi, Gianni Brera, Hermann Hesse, Missoni, Hemingway, Giorgio Mondadori, il Barone Von Cramm, Gianni Rivera.

C’è molto tennis nell’ultimo libro di Clerici ma c’è soprattutto la sua ombra: la scrittura. La scialuppa di salvataggio che ha permesso a un signore ricco e lieve di attraversare il Novecento da testimone privilegiato dopo aver rinunciato al sogno di diventare un grande tennista. C’è a metà della narrazione un passaggio, a mio parere, emblematico. Un Clerici con la racchetta in mano e ambizioni tennistiche ancora vive, incontra un ragazzino riccio e scanzonato che gli amici romani chiamano “er Francia”. Il futuro scriba affonda un attacco sul rovescio avversario e si presenta a rete per chiudere agevolmente il punto. Quella traiettoria pulita, perfetta, inimmaginabile che ritorna indietro ha qualcosa di epifanico. In cuor suo Clerici capisce che nel gran palcoscenico della vita il suo vero ruolo è già quello dello spettatore. Il gusto dell’ammirazione davanti a un’opera d’arte, e il rovescio dell’ancora acerbo Nicola Pietrangeli è un’autentica opera d’arte, è superiore all’adrenalina di chi vuole affrontare la vita da attore protagonista. Clerici vincerà la partita sapendo che non succederà mai più perché il tennis è lo sport del diavolo ed è profondamente ingiusto nel suo essere perfettamente meritocratico. Non importa quanto ami quello sport importa solo come colpisci la pallina. Vincere poi è un’altra questione che chiama in causa demoni interiori. È sempre contro se stessi che si gioca e l’avversario dall’altra parte della rete è solo un pretesto per una crudele seduta psicanalitica danzata.

Con questa consapevolezza parte la second live di Clerici nella quale non sarà più il tennis il diaframma interiore tra sé e il mondo ma la scrittura. L’anomalo cocktail produrrà uno strano paradosso. L’ex tennista verrà idolatrato dagli abitanti di quel mondo ma non verrà mai veramente riconosciuto da quell’altro, quello della scrittura, se non in funzione del primo. Poco importa se dai suoi polpastrelli usciranno migliaia di cronache squisite, 8 romanzi, un numero imprecisato di racconti,  libri sul tennis, due biografie, 4 pezzi teatrali e due libri di poesie. Lui rimarrà per sempre “Quello del Tennis” come recita con divertita rassegnazione il titolo della sua ultima fatica letteraria. Una prigione dorata accettata con infinita gratitudine. Pochi scrittori in Italia possono permettersi il suo seguito, il suo successo e la sua libertà editoriale, ma sono sicuro che Clerici avrebbe voglia di essere, anche, giudicato come scrittore e non solo idolatrato acriticamente come scriba al servizio del dio tennis. Emblematica è la lettera di ringraziamento inviata a Ubitennis in seguito alla recensione di 500 anni di Tennis, il suo libro più celebrato e tradotto, in cui afferma, con la sua consueta delicatezza, “mi permetto di ritenere che non sia il migliore dei 22 libri che ho pubblicato”[1].

Ritengo che una spiegazione di tale paradosso vada ricercata principalmente in due direzioni, tra esse intimamente collegate. La prima risiede nel fatto che Clerici è un Signor Scrittore ma non è un Romanziere in senso classico. È in qualche maniera schiavo di quello che vede. Non è un inventore di Mondi ma un raffinato descrittore del mondo in cui è immerso. E il mondo in cui è immerso è un contesto alto borghese con uno strano sport nato d’élite e diventato un fenomeno di massa. La sua scrittura assomiglia a un collage di acquarelli in grado di restituire le sfumature psicologiche degli ambienti e dei personaggi indagati con l’io narrante sempre “visceralmente coinvolto e divinamente equidistante[2] dalla vicenda in cui è immerso. La seconda direzione è di origine, diciamo, geografico-culturale. Anche se scrive in italiano i suoi modelli letterari sono più anglofoni se non cosmopoliti. In Italia la letteratura generalmente si prende troppo sul serio e costruisce miopi steccati disciplinari nel vano tentativo di separare ciò che è Letteratura da ciò che non lo è. O sei questo o sei quell’altro. Clerici in questo contesto è troppo anomalo per essere chiuso in una definizione, prima tennista, poi giornalista, infine testimone disincantato di un secolo irripetibile con l’incancellabile colpa esistenziale di essere ricco, poliglotta e non ideologicamente schierato. Aggiungeteci una laurea in storia delle religioni, un successo inaspettato grazie alla televisione, un vero bau bau per l’intellighenzia impegnata, e il gioco è fatto. Forse, fosse nato povero sarebbe stato paradossalmente tutto più facile, anche se sarebbe stato incredibilmente depotenziato il suo punto di vista che non saprei chiamare diversamente da “il contrario di Pasolini”, o forse “Pasolini al contrario”. Così come Pasolini cercò le radici culturali dell’arroganza del secolo nuovo dentro i luoghi in cui il carroarmato della modernità ha fatto terra bruciata del passato (le borgate romane, la poesia, i dialetti) così Clerici compie un’operazione simile ma dall’altra parte della barricata. Assiste all’emergere di una società sempre più volgare e predatoria da quei luoghi, spesso alto\issimi borghesi che le persone normali possono solo sognarsi. Il lussuosissimo yatch di Missoni, la poltrona d’onore del Centrale di Wimbledon, club esclusivi, le redazioni dei giornali che hanno fatto la cronaca del Novecento, il tutto condito da incontri con personalità eccezionali da lui definite “uomini più noti di me” che spesso il Novecento lo hanno raccontato. “Quello del tennis” è anche una finestra aperta sui lati meno conosciuti di questi personaggi, molti dei quali sono il pretesto per celebrare il sentimento dell’amicizia, uno sport al quale Clerici si dichiara più incline rispetto a quello dell’amore.

L’assenza di drammaturgia del testo è sostituita da una necessità tutta (micro)storica di raccontare vicende umane, prima ancora che sportive, col dono di un’osservazione quadridimensionale. Il lettore viene catapultato dentro le trame imperscrutabili di un fato che sembra divertirsi a giocare a scacchi con le vite reali dei protagonisti. La scrittura in Clerici è un medium in grado di indagare sia i destini psicologici delle persone che il DNA dei luoghi. I luoghi, come in tutta la scrittura da viaggio, sono le pietre focaie del ricordo e le vere cornici di senso delle vicende. Il tutto sempre condito da una genuina gratitudine rispetto alla vita e da una sincera messa in scena delle proprie debolezze esistenziali. Ipnotizzati dal cosa (il tennis) non ci si sofferma abbastanza sul come. E il come è una prosa fluida sempre in grado di incorporare una costante tensione poetica che è la vera cifra stilistica.

Con una sintesi forse eccessiva il buon Gianni ha editorialmente il grande problema di scrivere in italiano, pensare in comasco e guardare il mondo con sguardo anglosassone. Se aggiungete un certo privilegio esistenziale fuso con una grande popolarità è facile tirare le somme. L’Italia è un paese sorprendente che ti perdona tante cose ma difficilmente il successo.

[1] https://www.ubitennis.com/blog/2014/09/24/500-anni-tennis-bibbia-ogni-appassionato-tennis-dovrebbe/
[2] Rubo l’espressione virgolettata da una splendida autodescrizione di Aldo Busi che così si definisce nel suo rapporto privilegiato, lui (ex)omosessuale, con le donne (Busi A., Sentire le donne, Bompiani, 1991). Anche se molto diversi tra loro Busi e Clerici condividono alcuni orizzonti letterari, il più importante dei quali è un italiano perfetto sempre in dialogo e mai in opposizione col proprio dialetto di origine che sembra costituire una delle sorgenti costanti della loro scrittura. Non credo sia un caso che entrambi siano entrambi siano relativamente poliglotti, e caso eccezionale per gli scrittori italiani, sono stati ripetutamente tradotti in altre lingue.

Pier Paolo Zampieri 

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