La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Filosofia e controcultura nell’NBA

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La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Filosofia e controcultura nell’NBA

Sconfinamenti. Per la consueta recensione del venerdì, ci spostiamo dal tennis ed entriamo dentro la Golden Age dell’NBA. “Più di un gioco” è il testamento sportivo di un uomo che ha innalzato il basket a filosofia di vita e ha trasformato Michael Jordan nel più grande di sempre

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Jackson P. e Rosen C., Più di un gioco, Baldini Castoldi Dalai editore spa, 2003

“Il basket non è l’ingegneria atomica; bisogna mettere dentro la palla da una parte del campo e difendere il canestro dall’altra; e bisogna giocare di squadra” (Red Holzman)

Phil avrebbe bisogno di tre mani per portare tutti gli anelli di campione NBA che ha vinto.
Charley è un affermato scrittore che utilizza lo sport come metafora dell’esistenza.

Tutti sanno chi è Phil Jackson, pochi conoscono Charley Rosen. Quasi nessuno è al corrente del fatto che i due sono amici da più di quarant’anni e ancora disputano disperati uno contro uno a tutto campo ovunque trovino un anello di ferro con retina.

Questo libro racconta il loro viaggio congiunto alla ricerca del vero basket e del sistema perfetto per giocarlo, che in qualche modo diventa anche un modo per affrontare il grande gioco della vita.
Fra massime Zen, cazziatoni in spogliatoio, citazioni bibliche e un sano anticonformismo ripercorriamo la strada che ha portato i due alla scoperta del sacro Graal del gioco, il modo dei modi, ovvero l’attacco triangolo, detto anche triangolo laterale o attacco delle pari opportunità.
Ed è proprio questo il punto, che è un po’ il dilemma di ogni sport di squadra. Affidarsi al talento dei singoli o agire in base ad un sistema? La NBA secondo Jackson aveva scelto la prima opzione, col risultato di creare star strapagate, egoiste e con una limitata comprensione del gioco.
Gustatevi al proposito l’opinione di Tex Winter su Elvin Hayes, “The Big E”, capocannoniere della lega nei primi ’70:  “…Elvin semplicemente non era in grado di effettuare i più semplici esercizi”.

Le vite di Phil e Charley si incrociano nel 1973 a New York, nel corso di un party nel loft di Jackson, allora sesto uomo di lusso dei Knicks, al quale il giornalista alle prime armi Rosen è un imbucato.
Un sacchetto di noci aperto sul tavolo, una bottiglia di vino alla quale tirare il collo, un poster del repubblicano Spiro Agnew come bersaglio per le freccette e un disco dei Grateful Dead sul piatto fanno da sfondo ad una lunga chiacchierata (“I Knicks sono l’unica squadra in cui si possono usare i jeans. Se non fossi un Knick, non potrei vestirmi e comportarmi come faccio e rimanere al tempo stesso nella lega”). Charley decide di inserire anche il suo nuovo amico nell’articolo che sta scrivendo intitolato “Soul Brothers”, che descrive i profili di alcuni dei giocatori più singolari della lega.
Billy Paultz (“un vero animale da party, gran bevitore di birra”), Stan Love (“il figlio dei fiori di Laguna Beach”) ed ora anche Phil (“…i suoi capelli incolti, i suoi baffi e il suo fisico da Ichabod Crane sono conosciuti da qualunque tifoso di basket tanto quanto il naso di Jerry West”).

Jackson era entrato nella lega nel 1968, scelto dai New York Knickerbockers, ma il gioco dei professionisti, individualista e disarmonico, fu una gran delusione per lui“Dov’era la disciplina? Dov’era il gioco di squadra? Dov’era il cuore del basket fra i pro?”
Dopo poco sulla panca arriva Red Holzman, ed è un’ispirazione.
“L’ego di Red si metteva sempre in secondo piano quando si trattava del bene della squadra… C’era un livello talmente alto di fiducia e altruismo che qualsiasi partita diventava una specie di celebrazione della gioia del basket”.

Jackson gioca da sesto uomo, passa dal soprannome di “bones”, ossa, a quello di “mop”, strofinaccio, perché è sempre in terra alla ricerca di palle vaganti e arrivano due titoli, nel 1970 e nel 1973. Smette nel 1980 ed è già un allenatore in pectore. Ma è anche un uomo scomodo, colto, con le sue idee sul gioco e sulla vita, appassionato di filosofie orientali e dotato di un naturale carisma che esercita attraverso la parola e il convincimento razionale. Queste caratteristiche ne avevano fatto un ribelle rispetto al mondo standardizzato dello sport professionistico americano e questa nomea non gli renderà certo facile il passaggio in panchina. Si adatta ad allenare nella CBA, la lega minore americana, dove vince un titolo con gli Albany Patroons con Charley come secondo. E persino a Portorico, dove si gioca all’aperto, i cronometristi girano armati di coltello e se vinci in trasferta ti bucano le gomme e torni a casa a piedi. E dove il sindaco di Quebradillas deve assistere alle partite in gabbia controllato a vista dalla polizia perché ha provato a sparare all’arbitro.

Ma si dice che tutto arriva per chi sa aspettare ed ecco che nel 1987 giunge la chiamata del GM dei Chicago Bulls, Jerry “briciola” Krause, che lo vuole come assistente di Doug Collins, al quale subentrerà come Head Coach nel 1989. E nella windy city Phil conosce un signore che ha già passato la sessantina e regge nella mani il libro magico.
È Morice Frederick Winter, detto “Tex”, che ha appreso il sistema dall’originario ideatore Sam Barry e lo ha sviluppato, perfezionato e descritto nel suo testo “The triple post offense” pubblicato nel 1962. Al proposito leggete bene il capitolo firmato da Rosen e intitolato “T per due, Tex e il triangolo”.

Jackson vede la luce e mette in mano a Winter l’attacco della squadra ma inizialmente Jordan non è d’accordo, è scettico e non si fida abbastanza dei compagni, lo chiama “l’attacco dell’uomo bianco”.
Tex interviene seccamente nella discussione: “Mike, there’s no ‘I’ in team!” ma Jordan lo fulmina: “There’s not, but there’s an ‘I’ in win!”.
Butta male ma Phil non si arrende, insiste, spiega e alla fine convince la sua stella chiedendogli se gli interessa di più vincere o segnare sessanta punti a partita.

La domanda è retorica e il dado è finalmente tratto, perché come insegna coach Zen:
“…Il basket è un gioco di azione che si svolge istante dopo istante, ed il giocatore deve sempre ricondurre se stesso all’istante presente: così come un respiro porta al respiro successivo, un passaggio a quello che ne segue, e così via… Abbiamo detto che nel basket si tratta di giocare una singola azione: dopo si giocherà quella successiva. I giocatori imparano a essere autonomi quando diventano capaci di entrare nell’istante, nel qui e ora, e riescono a perdersi in esso. Stanno semplicemente respirando e giocando a basket, e tutto viene naturale come dovrebbe essere: non c’è conflitto con se stessi né con i compagni e la porta del gioco è ora spalancata davanti a loro”.

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