(S)punti non solo tecnici della settimana: da McEnroe a Djokovic, dobbiamo davvero rassegnarci?

(S)punti Tecnici

(S)punti non solo tecnici della settimana: da McEnroe a Djokovic, dobbiamo davvero rassegnarci?

Una partita finita a fischi, una finale del Roland Garros in cui il terraiolo viene sovrastato. È l’inizio di una nuova era, dieci anni dopo si vince a Wimbledon senza fare le volée. Indietro non si torna, ma se lavorassimo sulle palline?

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La vittoria di Novak Djokovic al torneo di Miami, contro Kei Nishikori, è stata accolta con legittima soddisfazione da tutti i tifosi del Djoker e con qualche preoccupazione da tutti gli altri. Come raccontato qui, l’incontro ha prodotto appena 9 (nove) discese a rete e nessuno dei due giocatori si è azzardato a giocare due colpi al volo consecutivi. È terribilmente complicato far comprendere ai tifosi di Novak che il sottolineare questo aspetto del gioco non significa sminuire un giocatore che sta dominando come forse solo Federer era riuscito a fare (ma almeno lui aveva Nadal a contrastarlo); e che anzi le stesse preoccupazioni sono in fondo la lode definitiva al suo gioco, visto che non sembrano esistere contromisure adeguate (anche se Nole dice di conoscerle) non tanto per batterlo quanto per almeno infastidirlo.

Torna dunque terribilmente d’attualità lo “scandalo” dei puristi o dei “nostalgici”, già scorati dall’idea che Djokovic abbia vinto più Wimbledon di Edberg e tanti quanti Boris Becker ma soprattutto John McEnroe, che era un tizio capace di provocare brividi orgasmici anche a distanza di quasi 40 anni. Cosa che volente o NOLEnte (scusate….) Djokovic non è in grado di replicare. E per quanto non abbiano tutti i torti i tifosi di Djokovic a dire che in fondo c’era poco da divertirsi guardando Federer nel 2006 hanno in fondo anche ragione i tifosi dello svizzero a dire che se proprio devono guardare un’esibizione, beh, che almeno questa sia condotta in bello stile. Ora, è difficile stabilire cosa sia il “bello stile”. Se vogliamo possiamo identificarlo con una specie di “varietà” nel modo di concludere o di giocare i punti. Non solo l’asfissiante pressing da fondo campo, non solo il continuo S&V, non solo la difesa ad oltranza. Ma un mix di tutto questo in grado di far divertire il pubblico anche senza il pathos del risultato finale. C’è qualche dubbio comunque che questo basti.

Di Federer ad esempio impressionano l’assoluta compostezza dei movimenti, il non sembrare mai in affanno, forse (probabilmente) anche quelle caratteristiche extratennistiche che sembra si intuiscano nel porgere un asciugamano o nella semplice attesa ai cambi di campo. Un miscuglio di gesti, appunto, classicamente eleganti, che hanno proiettato Federer al di fuori di una dimensione da tifo, fino a sconfinare addirittura in ambiti mistico-religiosi (inutile citare il riferimento). Se quindi nel caso di McEnroe era la genialità a impressionare, nel caso di Edberg (forse l’unico che possa paragonarsi a Federer come eleganza dei movimenti) la compostezza e nel caso di Becker lo straordinario gioco di volo, nel caso di Nadal prima e di Djokovic adesso invece di godersi lo show sembra che sia diventato di capitale importanza, oltre all’armarsi di pazienza, la ricerca di una contromossa. Addirittura il dominio di Nole ha finito con l’estendere il giudizio estetico, per così dire, negativo all’intero movimento tennistico contemporaneo, che oggi non sarebbe (condizionale quanto mai d’obbligo) all’altezza di quello passato.

Al netto dell’ottimismo mnemonico e detto che ad un occhio esperto  il gioco di Djokovic tutto può apparire tranne che ripetitivo in effetti si dovrà pur riconoscere che questi giovani virgulti sanno fare benissimo tantissime cose ma divertire il pubblico ampio dei semplici appassionati proprio no.  È come se ci trovassimo sempre di fronte a perfette esecuzioni tecniche, in grado di esaltare il critico più raffinato ma non arrivare al cuore delle persone. Esistono film, drammi, romanzi, quadri, che passano alla storia come dei meravigliosi capolavori esaltati dalla critica ma incapaci di smuovere un pubblico magari meno smaliziato. Senza che questo sia necessariamente un male è questo il destino a cui dobbiamo rassegnarci? Grande e cieca abilità tecnica senza concessione ad un briciolo di “locura”? Posto che indietro non si torna – e che quindi dagli attrezzi alle metodologi e di allenamento tutto è iperprofessionalizzato – è possibile immaginare un mondo diverso, in cui le partite non sia soltanto degli sgretolamenti del muro avversario, ma che, insieme a questo, ci sia anche la possibilità di far partita frequentando zone del campo che rimangono intonse?

Se è vero che racchette e preparazione fisico-psichica sono impossibili da modificare e non sono sotto il controllo del’ATP o degli organizzatori di Wimbledon o US Open, cosa invece è possibile fare?

Per capire da dove è partito tutto, è necessario fare due salti indietro nel tempo. Il primo è di 23 anni. Con l’inimitabile classe che lo contraddistingue, lo “scriba” Gianni Clerici, nel novembre del 1993, raccontava la finale del torneo indoor di Parigi Bercy, tra il croato Goran Ivanisevic (a quei tempi numero 9 ATP, e attuale coach di Marin Cilic) e il russo Andrei Mervedev (8 ATP). Il match fu vinto dal ventiduenne di Spalato in tre set, 6-4 6-2 7-6(2), ma il motivo per cui quella partita divenne memorabile è un altro. In dirittura d’arrivo verso il successo, durante il terzo parziale, l’incolpevole Goran, che stava procedendo a colpi di due ace a game, grazie a una fantastica percentuale del 94% di prime palle in campo, iniziò a essere fischiato dal pubblico parigino ogni volta che andava alla battuta. Per la prima volta, gli spettatori mostravano di non gradire l’esibizione di un tennista che, come magistralmente scrisse Clerici, semplicemente stava giocando troppo bene: perché il giocare troppo bene di un “big server” mancino dell’epoca, che esplodeva traiettorie imprendibili sopra i 200 kmh sul rapidissimo carpet utilizzato in quel periodo, impediva addirittura che il gioco iniziasse. Negli anni successivi, il problema del tennis che si stava trasformando in un tiro al piccione divenne sempre più evidente, in particolare a Wimbledon e come detto sui campi sintetici indoor.

Il secondo salto nel passato ci porta a giugno del 1997, quando il brasiliano Gustavo Kuerten, numero 66 ATP al tempo, trionfa in finale al Roland Garros contro il due volte campione di Parigi Sergi Bruguera, in tre set senza storia (6-3 6-4 6-2, e il buon vecchio Sergi all’epoca era un “cagnaccio” da terra rossa terribile), utilizzando per la prima volta le corde in monofilamento prodotte dalla Luxilon. Tali materiali consentivano, attraverso lo stesso principio delle cosiddette “spaghetti strings” messe al bando nel 1977, ma rimanendo nei confini del regolamento, di produrre quantità di top-spin mai viste prima, e un controllo dei colpi impensabile anche quando la palla non veniva perfettamente centrata nello sweet-spot, cosa evidente soprattutto nei recuperi in allungo e nei passanti. L’opinione, unanime, degli addetti ai lavori – fossero giocatori, coach o giornalisti – fu che quel tipo di corde rappresentasse una rivoluzione tecnica pari al passaggio dalle racchette di legno a quelle in materiali compositi e fibre.

Il nuovo millennio si apre quindi con due novità che hanno avuto un impatto imprevisto sul gioco, e che non è azzardato definire come l’origine dei problemi richiamati all’inizio dell’articolo. Considerato che non era un bello spettacolo un match con oltre la metà dei punti risolti dagli ace o dalle battute vincenti, ecco la prima novità: erba più alta e terreno più secco a Wimbledon e resine più abrasive sui campi duri; l’effetto era quello di “rallentare” i campi. La seconda novità fu meno voluta e riguardò appunto il diffondersi delle corde in monofilamento. Campi lenti dai rimbalzi più alti insieme a materiali che esaltano le rotazioni e la spinta da fondo: certamente la palla rimaneva in gioco più a lungo, e i ribattitori vedevano enormemente aumentate le loro possibilità di entrare nello scambio, ma il “vaso di coccio” che rimase frantumato in mezzo è stato il gioco di volo.

Le superfici rapide, e i rimbalzi bassi e sfuggenti, infatti, non consentivano solo gli ace, ma rendevano straordinariamente efficaci anche e soprattutto le volée giocate con il taglio sotto la palla. Per limitare i primi (gli ace), sono state mortificate, fino a scomparire o quasi, le seconde (le volée). Un classico caso di impossibilità di avere la proverbiale botte piena e la moglie ubriaca. È così che siamo arrivati alle finali di Wimbledon giocate nello stesso identico modo di quelle del Roland Garros, e a interi match su campi duri in cui i colpi al volo praticamente non vengono nemmeno presi in considerazione.

Torniamo dunque  alla domanda di partenza: esiste una via d’uscita, un compromesso che possa riportare una accettabile varietà nel tennis? Lasciando da parte modifiche al regolamento, al punteggio o alle dimensioni del campo, come è stato fatto nella pallavolo e nel basket?

Sui materiali non sembra possibile tornare indietro, per motivi soprattutto economici. Le racchette e le corde moderne facilitano enormemente il “tennista da club”, come e più dei pro di alto livello, che sono un traino pubblicitario e di immagine insostituibile. Se un dirigente ATP o ITF andasse dalla Babolat, dalla Wilson e dalla Head, e dicesse “ragazzi, da ora in poi vietati i monofilamenti e gli ovali sopra gli 85 pollici”, verrebbe comprensibilmente defenestrato. L’altro fattore determinante sono le superfici, e specificamente l’angolo di restituzione del rimbalzo. Come fare però a riavere terreni di gioco dove uno slice, o una volée ben piazzata, giustamente schizzano via come è sempre stato fino a 15 anni fa e risultano efficacissimi, evitando nel contempo che i ragazzoni super-atletici di oggi, alti e preparatissimi muscolarmente, si sparino in faccia a vicenda 50 ace a match?

Forse l’unica strada percorribile è intervenire su un terzo elemento, spesso sottovalutato che però è già stato modificato e regolamentato negli anni: le palle da tennis. Rimanendo nei parametri di peso, dimensioni e pressione è possibile, magari mediante modifiche sul rivestimento sintetico, “peletti” più o meno lunghi o più o meno rigidi per esempio, ottenere delle palle che non possano essere spinte oltre determinate velocità. Senza esagerare, s’intende: una palla che impedisca di servire sopra i 190-195 kmh potrebbe essere un buon compromesso. Sullo scambio la cosa non avrebbe influenza, date le velocità enormemente inferiori, e sarebbe perfettamente possibile realizzare anche parecchi ace, perché una battuta vicino alla riga, che sia a 190 o 210 all’ora cambia poco, difficile che ritorni. Ovviamente, si potrebbero – e dovrebbero – produrre palle specifiche per le diverse superfici, da erba, da terra, esattamente come le scarpe.

Allo stesso tempo, si potrebbe ritornare a terreni di gioco veloci, in particolare erba e sintetico: certo bisognerebbe fare qualche esperimento, verificare e valutare diverse combinazioni e accorgimenti tecnologici, ma la strada è percorribile e non eccessivamente rivoluzionaria. Un rapporto di proporzionalità inversa tra coefficiente di restituzione del rimbalzo e qualità aerodinamica delle palle: più veloce è il campo, più lenta deve essere la palla che si usa, insomma. Potremmo così avere, per esempio, un Wimbledon con erba rapida dove però per fare punto diretto col servizio devi tirare veramente preciso al centro o a uscire, non semplicemente sparare la bomba ovunque nel rettangolo di battuta che tanto risulta incontrollabile lo stesso (come succedeva negli anni ’90), e dove al contempo se piazzi una volée profonda con il taglio sotto per il difensore diventa un’impresa uncinarla con il top-spin e passarti in scioltezza (come succede adesso).

Chiaramente questa è solo una proposta, un’ipotesi, potranno esserci soluzioni migliori e più praticabili, ma quantomeno sarebbe importante cominciare a parlare del problema. Oppure, rassegnarsi all’impoverimento tecnico sempre più evidente di quello che era lo sport più complesso e vario del mondo.

 

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