Madrid, Fognini avanti e Tomic usa il manico (Cocchi). Quella Davis vinta tra gesti bianchi e compromessi (Garimberti)

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Madrid, Fognini avanti e Tomic usa il manico (Cocchi). Quella Davis vinta tra gesti bianchi e compromessi (Garimberti)

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Madrid, Fognini avanti e Tomic usa il manico (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)

Lo scontro coi missili terra-aria di Bernard Tomic si è chiuso facilmente in due set per Fabio Fognini. L’azzurro ha piegato l’australiano in due set grazie anche alla complicità dell’avversario, che sembrava assai poco interessato alla vittoria. Per chiudere in bellezza, Tomic ha cercato di rispondere al match point con il manico della racchetta. Oggi per il ligure c’è il numero sei al mondo Kei Nishikori. Agli ottavi approdano Milosa Raonic e Rafa Nadal. Lo spagnolo, dopo aver vinto Montecarlo e Barcellona punta anche a Madrid e al sorpasso di Djokovic nel numero di Masters 1000 conquistati in carriera. Rafa ha sconfitto in due set il russo Andrey Kuznetsov. La sorpresa di giornata è Del Potro, ex numero 4 del mondo (ora 274) si è qualificato per il secondo turno eliminando Dominic Thiem, testa di serie e numero 14 al mondo in odore di rapida salita nei primi 10.

Nulla da fare per Karin Knapp nel secondo turno del tabellone femminile. La 28enne di Brunico, numero 75 del mondo, che domenica aveva centrato la sua prima vittoria della stagione 2016 contro la Gasparyan, ha ceduto a Simona Halep. Forfait, invece, il primo in carriera, di Camila Giorgi: dopo essersi aggiudicata sabato il derby tricolore contro Sara Errani, avrebbe dovuto affrontare oggi la russa Anastasia Pavlyuchenkova, ma si è ritirata per un problema alla schiena e salterà anche gli Internazionali (…)

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Quella Davis vinta tra gesti bianchi e compromessi (Paolo Garimberti, La Repubblica)

Il libro di Dario Cresto-Dina ci porta indietro a un’era in cui il tennis conservava alcune vestigia dei ‘gesti bianchi’, casi ben narrati da Gianni Clerici; e la politica italiana coltivava l’arte di quel compromesso, che sarebbe poi diventato storico. Correva l’anno 1976: un anno di svolta, ma anche di paure per un terrorismo che cominciava a mostrare il suo voi- to feroce e vigliacco. Alla vigilia di elezioni che secondo alcuni aruspici avrebbero portato al sorpasso del Pci sulla Dc, Enrico Berlinguer aveva detto in un’intervista a Giampaolo Pansa di sentirsi più sicuro “di qua (cioè nella Nato), che “di là” ( dove c’era il Patto di Varsavia ). E centinaia di giornalisti di tutto il mondo si erano riversati in Italia in attesa dell’evento. Che non ci fu, ma per poco. Lo psicodramma tennistico e politico sarebbe arrivato qualche mese dopo. “Sei chiodi storti’ ( quelli che Adriano Panatta portava sempre con sé per scaramanzia) è infatti la storta di una finale di Coppa Davis, l’unica vinta dall’Italia, per la quale il Paese si spaccò tra i fautori del si e i sostenitori del no: andare o non andare a giocare nel Cile del sanguinario dittatore Augusto Pinochet, dopo che l’Urss aveva rifiutato di giocare la semifinale anche in campo neutro? Erano gli anni della guaina fredda sport e politica non si potevano dividere con un taglio netto.

Da noi, con Andreotti a Palazzo Chigi, Forlani alla Farnesina, Berlinguer a Botteghe Oscure e Craxi in via del Corso, fini all’italiana. La squadra parti addirittura con la benedizione dei Pci, espressa con sibillina abilità dal senatore Pirastu, delegato allo sport in direzione. Noi cl abbiamo provato a non mandarvi ma ora saremo i primi a fare il tifo per voi. Vincemmo anche se non fu un’impresa sportivamente gloriosa contro una squadra mediocre. “Con quelle pippe posso giocarci pure io”, aveva detto con romanesca sincerità Nicola Pietrangeli, capitano non giocatore che aveva da poco compiuto 43 anni I fautori del sì festeggiarono con moderazione tradendo l’imbarazzo per aver fornito uno strumento di propaganda al regime (a Fiumicino non c’era un solo tifoso ad accogliere la squadra al ritorno ). E sostenitori del no finsero indifferenza, vergognandosi di ammettere una certa soddisfazione perla prima (e unica) Davis vinta dall’Italia. Il solo che non mostrò mai imbarazzo, anche perché era stato coerente dal principio alla fine, fu Nicola Pietrangeli, che quella Coppa se la portò per una notte nel suo lotto, abituato ad accogliere ospiti ben più avvenenti.

Personalmente mi trovai coinvolto, e schierato, per una serie di circostanze un po’ casuali. Un anno prima, quando ero ancora corrispondente da Mosca, era arrivato da Santiago Roberto Toscano, uno di quel coraggioso manipolo di diplomatici che, tra il ’73 e il ’75, avevano dato asilo nella nostra ambasciata a oltre 700 cileni perseguitati dal regime di Pinochet. Toscano ( che oggi scrive per questo giornale) abitava nel mio palazzo e la sera parlavamo spesso della tragedia cilena. Ma non era questo il motivo per cui, nel settembre del 1976, tornato da poco in Italia, avevo chiesto al mio giornale, ‘La Stampa”, di seguire la semifinale di Davis contro l’Australia di Newcombe e Roche. Volevo salvare di tennis per passione, specie per il doppio (e Panatta-Bertolucci schiantarono i cinque volte campioni di Wimbledon Newcombe-Roche ). Ma dopo la vittoria sull’Australia che ci portava dritti alla finale contro il Cile, mi ritrovai a scrivere di politica. Ripensando ai racconti tragici di Roberto Toscano, mi schierai nel campo del no, di cui la neonata “Repubblica” di Scalfari era la punta di lancia. Quell’Italia spaccata in due Dario Cresto-Dina la racconta con una tecnica narrativa che ml ha ricordato quella dei bellissimo “Tennis” di John Mc-Phee, grande giornalista del “New Yorker”. L’evento sportivo (in ‘Tennis” è la semifinale del primo US Open della storia, tra Arthur Ashe e Clark Graebner) resta sullo sfondo, quasi sfuocato, per lasciare il primo piano alle tante storie che gli ruotano attorno, professionali, umane politiche, sociali, perfino economiche (…)

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