In una giornata ancora a singhiozzo, fra match giocati ed interrotti, con l’incubo della pioggia ad aleggiare perennemente, sono accadute comunque tante cose: l’uscita di scena dell’ultimo italiano in gara nel maschile, Fabio Fognini, a dispetto di una leadership di 2 set con Feliciano Lopez; le sofferenze delle due Williams alla fine vittoriose; l’incredibile parziale di 0-2 di Djokovic con Querrey – come andrà a finire? – e il più credibile 7-5 patito dalla Kvitova con la Makarova – idem come sopra; i cinque set necessari a Kyrgios per liberarsi dell’ultimo giustiziere ‘wimbledoniano’ di Nadal, Dustin Brown; la notizia che i Doherty Gates si apriranno anche nella domenica di mezzo, com’era accaduto soltanto nel ’91 (ricordate Connors-Rostagno?), nel ’97 e nel 2004.
Ma forse la storia del giorno è quella di Juan Martin del Potro. perché per la prima volta di ritorno a Wimbledon dal 2013, quando aveva perduto soltanto al quinto set una splendida semifinale contro Djokovic (la più lunga della storia di Wimbledon: 4 ore e 43 minuti, che Djokovic avrebbe pagato cedendo in finale a Murray), dopo tre anni e tre operazioni ai polsi non ha battuto un giocatore qualsiasi ma Stan Wawrinka, il n.5 del mondo e il favorito n.4. Pochi avrebbero potuto immaginarlo. Io non ho ricordi di un altro giocatore che, nato e cresciuto giocando il rovescio a due mani e impostando quasi tutto il proprio gioco su servizio e dritto senza quasi mai venire a rete, sia stato capace di improvvisarsi tennista con il rovescio ad una mano. E, sia pur senza esser diventato un vero attaccante… molto più attaccante di quanto lo fosse mai stato. Se andiamo a scomporre i 123 punti che del Potro ha vinto contro lo svizzero, vediamo che ha fatto 9 aces e 47 servizi vincenti, 23 vincenti nell’arco dei 60 punti fatti bombardando da fondo campo, ma è anche sceso 16 volte a rete facendo 11 punti. Una metamorfosi pazzesca, per un giocatore che il 23 settembre compierà 28 ed è stato fermo per quasi tutto il 2014 e tutto il 2015.
Sono passati quasi sette anni di quasi ininterrotto calvario da quando la “torre di Tandil” vinse nel settembre 2009 l’US Open, sorprendendo in finale Roger Federer – distratto al momento di chiudere quello che sarebbe stato il suo quarantunesimo successo di fila, ma dominato nel finale. E prima di lui “DelPo” aveva strapazzato in semifinale Rafa Nadal. Ma un conto è vincere a vent’anni giocando il tennis sempre giocato, un altro è ritrovarsi improvvisamente competitivo con un tennis totalmente diverso. Di una simile metamorfosi tecnica, non a seguito di una serie di infortuni bensì di una precisa volontà tecnico-tattica, fu protagonista anche Mats Wilander, lo svedese che a 17 anni e 11 mesi aveva trionfato al Roland Garros 1982, sorprendendo tutti per la sua capacità di “improvvisare” un efficacissimo rovescio bimane lungo linea quando tutti gli avversari si attendevano l’ennesimo incrociato. Mats vinse di nuovo a Parigi nel 1985, quasi ventunenne, ma poi dovette fare i conti con Ivan Lendl, che lo battè in finale nell’87 sia al Roland Garros sia all’US Open. Soprattutto la seconda sconfitta gli bruciò parecchio: aveva vinto il primo set al tie-break, ma ceduto il secondo perse il terzo set ancora al tie-break e il quarto 6-4.
Capì, l’intelligente Mats, che superare da fondo Lendl – molto più potente di lui e con colpi più decisivi, servizio e dritto – sarebbe stata molto dura. Lui un colpo davvero vincente non ce lo aveva. Ma quanto a sagacia tattica, era secondo a nessuno. Lo aveva dimostrato nell’82, quando aveva dominato proprio sul piano tattico sia Clerc sia Vilas, intrappolandoli nella più paziente delle ragnatele. Spettacolo noiosissimo, quasi al pari delle sfide Barazzutti-Higueras, ma per “Machiavello” Mats il fine giustificava il mezzo. Per battere Lendl però, non bastava. E allora, allenandosi più duramente di chiunque altro, sebbene già straricco e famoso, lo svedese di Vaxjo si buttò a corpo morto sul rovescio ad una mano, quello stesso tipo di slice che adesso sta mettendo in pratica del Potro. Ancora prima di specializzarsi nel rovescio ad un mano, comunque alternato sapientemente con quello a due per non dare ritmo e certezze agli avversari, Mats – pallettaro da fondo campo come pochi – si era messo in testa anche di migliorare a rete e aveva cominciato a giocare tutti i doppi che poteva. Proprio come “Palito”.
Imparò talmente bene che, in coppia con il fido amico di Skelleftea (la città a 75 km dal Circolo Polare Artico) Jokke Nystrom, Mats avrebbe vinto già nel 1986 un titolo di doppio a Wimbledon, sull’erba dove si può anche rispondere bene – come facevano loro due – ma se non giochi bene anche a rete se spacciato. E all’epoca il doppio lo giocavano ancora parecchi campioni, oltre ai vari specialisti. Una volta imparate bene le volée Mats capì che il rovescio tagliato d’approccio avrebbe potuto essere un’arma vincente, soprattutto contro un tennista come Lendl che da fondo campo gli era superiore. Così nella finale dell’US open 1988, dopo che Mats aveva già vinto Australian Open e Roland Garros, Mats incontrò Lendl e lo attaccò un’incredibile numero di volte: non sono riuscito a ricercare quante, ma credo che commentai quella finale (in mezzo al duo Tommasi-Clerici) e mi pare furono un centinaio. Lendl aveva vinto gli ultimi tre US Open ma, schiumando rabbia, quella volta perse: 6-4 4-6 6-3 5-7 6-4, dopo 4 ore e 55 minuti di battaglia furibonda.
La sfida di di Del Potro con Wawrinka non è stata come quella. Anzi. Certo Stan the Man, più che mai falloso nell’occasione, ha dato una gran mano. Ma Juan Martin, che a suo dire (o sperare?) dovrebbe cominciare ad essere pericoloso dal 2017, ha comunque realizzato un clamoroso exploit, per il quale dobbiamo essergli grati perché ci restituisce speranza nelle sue possibilità di recupero. Uno che con l’handicap di non poter quasi tirare il rovescio a due mani batte il n.5 del mondo può riuscire a fare qualunque cosa. Se… ha ragione il suo medico chirurgo, nel promettergli che il suo martoriato polso sinistro recupererà appieno. “Mi sembra di essere tornato vivo” ha commentato con aria trasognata Juan Martin, gli occhioni più spalancati del solito, lassù a due centimetri dai due metri. Gli ho chiesto, scherzando e pensando anche alla nostra buona sorte in Coppa Davis (perché a Pesaro non si giocherà sull’erba), se non sarebbe il caso di chiedere alla federazione argentina di trasformare i campi di quel Paese da terra rossa in erba. E lui, sorridendo: “Quella potrebbe essere una buona idea! Devo imparare anche sulle altre superfici però”.
Ma intanto già a Madrid aveva battuto sulla terra un certo Thiem, mica Pinco Pallino. E a Monaco aveva battuto Brown e Struff. Al primo torneo dopo il rientro, a Delray Beach, è arrivato in semifinale… Insomma, sarà anche al 60% come ha fatto capire, però non è proprio così facile batterlo anche su altre superfici. Ora avrà il francese Pouille (“Cosa so di lui? Beh, che è un ragazzo nice”). Ma intanto ogni giorno che Dio manda in terra “Palito” prosegue trattamenti al polso “per due o tre ore al giorno, pesi, flessibilità, ogni cosa. E dopo vado sul campo per gli allenamenti. Poi devo lavorare sul rovescio”. Mica si può improvvisare, anche per una questione di diversa distanza dal corpo: il rovescio ad una mano non è quello a due, e lui deve lavorare su entrambi. “Tre o quattro anni fa il rovescio slice non lo giocavo mai… comunque ho fiducia che tornerò al mio vecchio rovescio a due mani. Ora di tanto in tanto lo colpisco in top-spin”. Il cammino è stato lungo, un calvario dicevo, ma la forza di volontà di Juan Martin è fuori dal comune. E servizio e dritto fanno ancora oggi paura a tutti. Come si fa a non augurare ogni bene (magari dopo Pesaro…) a questo ragazzo? Se batterà Pouille troverà Tomic o Bautista Agut. Sulla carta più deboli di Stan Wawrinka…