Quasi centotré anni. Li avrebbe compiuti la prossima settimana Gardnar Mulloy, e siamo sicuri che avrebbe ancora avuto cose da dire, e desiderato tempo per farne altre. Era inossidabile l’amore per il tennis di questo ragazzo classe 1913, sbocciato sul campo che suo padre e suo zio gli costruirono nel giardino sul retro quando aveva appena nove anni e maturato tra i successi, fino al millennio in corso. Numero uno degli Stati Uniti d’America nel 1952, campione Slam in doppio per ben cinque volte (quattro US Open in coppia con Bill Talbert negli anni Quaranta, una edizione dei Championships nel 1957 al fianco di Budge Patty), tre volte vincitore della Coppa Davis. E ancora fondatore del club di tennis dell’Università di Miami, soldato della marina militare statunitense nella Seconda Guerra Mondiale, laureato in Legge, membro della International Tennis Hall of Fame dal 1972. Sempre in campo, fino a novant’anni scoccati nei tornei senior. Dopo aver incontrato e scherzato con reali d’Inghilterra – ai quali offrì biglietti per Wimbledon! – e Presidenti degli USA, ed essere sopravvissuto ai suoi avversari e compagni d’avventure. Perché “il tennis è uno sport per tutte le età”.
Mulloy è stato uno dei tanti campioni ormai dimenticati, figli e insieme padri di un tennis agli antipodi rispetto a quello a cui siamo abituati. Il tennis dei gesti bianchi, degli abiti altrettanto bianchi, prima dei voli transoceanici ogni settimana, del professionismo spinto e di tante altre cose oggi normali e (forse) un po’ eccessive. Qui potete ripercorrere la sua carriera e la sua vita, nel racconto di Ruggero Canevazzi.
