L'umiltà di Paolo Lorenzi, numero uno dei normali

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L’umiltà di Paolo Lorenzi, numero uno dei normali

Una chiacchierata con Paolo Lorenzi, qualche settimana fa Basilea, al termine di questa sua splendida stagione. Quattro (ma anche otto) parole su di lui, sulle sue ambizioni e sui suoi colleghi, sempre col sorriso

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La miglior stagione in carriera, e comunque la convinzione che ci sia ancora tanto da lavorare. Perché quando si cresce con la voglia di onorare il proprio mondo e la propria passione, il motore che ti spinge a dedicarti a quello che fai non si esaurisce mai. Abbiamo incontrato Paolo Lorenzi lo scorso ottobre, a Basilea dove ha raggiunto il secondo turno. Al termine del match perso con Nishikori arrivava in mixed zone rilassato, consapevole di aver dato tutto ancora una volta. Non si risparmiava però una sana autocritica: “Ho sbagliato un dritto chiave nel tie-break, potevo rischiare meno e magari un set potevo portarglielo via. Sono soddisfatto comunque”.

Avrebbe giocato Parigi-Bercy e finalmente poi si sarebbe riposato, dopo un anno che lo ha visto raggiungere traguardi importanti e forse inaspettati. Paolo si è rifiutato però di credere che sia stato qualcosa a fare clic, attribuendo invece i meriti di questi traguardi al duro lavoro e al sacrificio: “Come ho detto più volte durante la stagione, credo che tutto quello che sto vivendo sia dovuto all’impegno che insieme al mio allenatore Claudio Galoppini e al mio preparatore Stefano Giovannini ho profuso in tutti questi anni. Basta vedere la mia classifica, è in miglioramento ormai da varie stagioni consecutive”. Lui che è sempre stato un guru dei Challenger, al momento secondo nella classifica di trionfi di categoria (con 18 titoli), alle spalle del taipeiano Yen-Hsun Lu (25): a differenza dell’asiatico però, Lorenzi non si vuole accontentare del circuito minore per avere punti e denaro garantiti. “Quando giochi a tennis, lo fai per calcare campi come quelli di ATP 500 o Masters 1000, per non parlare degli Slam. Preferisco di gran lunga essere uno degli sfavoriti in tornei importanti, invece che essere l’uomo da battere nei Challenger. Girare con continuità il circuito maggiore significa vedere tutti i miei sacrifici ripagati”.

Quest’anno è arrivato anche il primo alloro ATP, a Kitzbuhel, dove in finale ha battuto il georgiano Nikoloz Basilashvili (alla seconda finale dopo San Paolo 2015, persa da Delbonis): a 34 anni ha griffato quindi l’albo d’oro del circuito maggiore, e ha smentito chiunque lo etichettasse come mestierante da polverosi campi di periferia, con uno stile di gioco remissivo e attendista. Anche su superfici meno congeniali al suo dritto in top spin, il senese si è tolto soddisfazioni importanti, se non altro sovvertendo i pronostici che spesso lo vedevano favorito: a Basilea al primo turno aveva disposto di Nicolas Mahut, uno che sul veloce, con i suoi schemi verticali e offensivi, non è simpatico a nessuno. Ma l’umiltà resta il marchio registrato di casa Lorenzi, e l’azzurro non voleva saperne di montarsi la testa: “Non credo che adesso mi temano di più. Non sono di certo un nome che letto sul tabellone possa far impressione o paura, insomma non credo che qualcuno possa mai esclamare: Lorenzi al primo turno no! Quelli sono sempre i soliti, i big: io devo solo pensare a battere chi ha la mia classifica o è messo peggio, e dare tuto contro chi è migliore di me. I risultati, come vedete, arrivano”. Tornati all’aspetto tecnico, si concedeva anche una battuta quando interrogato sul servizio, che contro Nishikori lo ha abbandonato: “In realtà sono tornato in media, è al primo turno che ho servito troppo bene! Sicuramente è uno degli aspetti che ho migliorato di più, ma sfrutterò l’off season per dedicarmici più a fondo”.

L’anno che volge al termine ha portato anche il trionfo contro Chiudinelli in Davis, a marzo, al quinto set sul rosso di Pesaro con migliaia di tifosi ad infiammarsi per ogni sua rincorsa e ogni punto sofferto; e a proposito di Italia, sorgeva come al solito spontaneo un confronto tra la professionalità di Paolo e la frequente sregolatezza, per quanto bilanciata dall’immenso talento, di un certo suo connazionale. “Sono caratteri diversi, non mi sento di giudicare nessuno. Credo sia giusto capire che ognuno ha un proprio approccio a quello che fa, non sempre è corretto commentare o esprimere opinioni senza sapere. Stiamo comunque parlando di un ragazzo che è stato numero 13 al mondo, ha battuto Murray, ha vinto tornei”. Mentre parlava si pettinava la chioma che si vede sempre nascosta sotto il cappellino girato alla rovescia, solitamente imperlato del sudore di chi combatte per ogni centimetro.

Quando è andato via sorrideva, genuino: stava probabilmente pensando al volo, all’ultimo torneo della stagione e al prossimo anno, che affronterà con la consueta determinazione e profilo basso. Sprizzava e sprizza entusiasmo, perché sa che non vorrebbe essere da nessun’altra parte al mondo, se non a lottare per quegli attimi di soddisfazione che finalmente stanno arrivando, e sicuramente meriterà ancora.

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