Il senso della vittoria per Serena Williams

Personaggi

Il senso della vittoria per Serena Williams

La relazione della campionessa americana con il trionfo. La fame, la necessità, la voglia. Semplicemente Serena Williams

Pubblicato

il

 

772 partite da professionista, 71 tornei WTA, di cui ben 22 Slam, quattro medaglie d’oro olimpiche e una Fed Cup. Tanto ha vinto Serena Williams in questi ultimi 21 anni, diventando una sorta di Michael Jordan del tennis femminile. Giunti ormai agli ultimi scorci della sua onoratissima carriera comincia ad essere opportuno porsi una domanda: cosa l’ha spinta ad ottenere tutti questi successi? Qual è stata la sua motivazione? In altre parole che senso ha la vittoria per Serena?

Per arrivare ad una plausibile risposta bisogna prima scartare almeno un paio di ipotesi. In primo luogo quella dell’amore per il tennis. Non si vuol affermare che Serena odi il gioco o lo abbia odiato alla Agassi. Ma è noto che la statunitense non si sia avvicinata a questo sport proprio spontaneamente. Piuttosto è stata spinta da papà Richard che, su un polveroso campetto di Compton, malfamata periferia di Los Angeles, immaginava per lei e la sorella maggiore Venus un futuro radioso. Insomma, per fare un paragone, se Federer appare perdutamente innamorato del tennis (e per questo continua a giocare), la relazione di Serena con la racchetta e le palle appare un po’ più fredda e distaccata.

L’altra motivazione alla base dei successi di tanti campioni dello sport è lo spirito di competizione e la voglia di primeggiare. Non importa l’ambito, il contesto o la posta in palio, l’importante è sconfiggere l’avversario, imporsi su di esso, per evitare la tragedia della sconfitta, per ottenere l’agognata vittoria. È molto difficile negare che Serena sia un animale da competizione. Quelle rimonte incredibili nelle giornate che sembrano più nere, quei “come on” gridati a decibel elevatissimi e conditi da pugnetti che enfatizzano la possente muscolatura, quegli sguardi atti ad intimorire psicologicamente le malcapitate che si trovano dall’altra parte della rete testimoniano come la statunitense adori la sfida, l’uno contro uno, il corpo a corpo, con in ballo la supremazia sull’altro.

Eppure il semplice spirito di competizione non sembra sufficiente a giustificare la sua fame di vittoria. C’è qualcosa di più, di ulteriore, di diverso. Qualcosa che rende il successo ancora più dolce e la sconfitta più amara. Qualcosa di più personale e intimo, ma, al contempo, sociale e collettivo. Qualcosa di profondissimo ma anche superficiale. Il senso della vittoria per Serena è, fondamentalmente, la dimostrazione della vittoria stessa. Dimostrazione al mondo e, solo di conseguenza, a sé stessa, di essere la migliore, di essere una vincente, di essere la numero uno, nonostante il colore della pelle, nonostante l’estrazione sociale, nonostante il sesso.

Spinta da questo motore, la vittoria assume contorni essenziali e strumentali. Il successo è essenziale nel senso che non sono ammissibili finali, semifinali o quarti. Non esiste la classifica oltre la prima posizione. O si vince e si è n.1 o niente, o si trionfa o non si è Serena Williams, tennista e personaggio pubblico. Ogni sconfitta infatti trascende il tennis e va ad intaccare il suo status di donna afroamericana e vincente, la sua storia di riscatto sociale e il suo incarnare un modello a cui altri si possono ispirare. D’altra parte ogni trofeo, anche se è solo l’ennesimo nella bacheca, anche se non è prestigioso come altri, conta e va celebrato, perfino ostentato, sbattuto in faccia a tutto e tutti, perché rafforza la sua immagine. Da questo punto di vista la vittoria diventa appunto strumentale, ovvero un mezzo per confermare una proiezione di sé che si vuole veicolare.

Seguendo questa logica si spiegano molti dei comportamenti di Serena. Come ad esempio la profonda delusione dopo le sconfitte che la porta persino a periodi di allontanamento forzato dal circuito. È successo l’anno scorso quando il suo sogno di completare il Grande Slam si è infranto nella semifinale degli US Open contro la nostra Roberta Vinci. È successo ancora quest’anno dopo la debacle contro l’ucraina Elina Svitolina alle Olimpiadi di Rio e la semifinale persa a Flushing Meadows contro la ceca Karolina Pliskova. Queste sconfitte non sono semplici sconfitte ma minacce al suo brand. Tenendo in conto l’importanza dell’immagine pubblica, si riescono anche ad inquadrare le ormai sempre più frequenti incursioni della Williams in quello che dall’altra parte dell’oceano chiamano “showbiz”. Quest’anno per esempio Serena ha cementato la sua partnership con un’altra icona black femminile come Beyoncé, ballando insieme a lei in un video e ad un suo concerto.

Questa considerazione può sembrare poco tempestiva in un anno in cui Serena ha perso ben due finali Slam e, dopo l’eliminazione in semifinale a Flushing Meadows, anche la prima posizione mondiale. Forse Serena, a 35 anni, ha capito di non dover più dimostrare più niente né agli altri né, tanto meno, a sé stessa. Forse la vittoria non ha più lo stesso senso per lei. Forse non ha proprio più alcun senso. Ma i 24 Slam di Margaret Court sono lì ad un passo insieme alla possibilità di rinfacciare al pianeta terra, per un’ultima volta, di essere la migliore, nonostante tutto.

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement