I moschettieri che fecero cambiare idea al Pci e che sconfissero il Cile (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)
«Io non mi prendo nessun merito sportivo, perché in campo ci vanno i giocatori. Ma mi prendo il merito, e non lo divido con nessuno, di averli portati a Santiago». E il dicembre 1976. Nell’inverno del nostro scontento Jimmy Carter vince le presidenziali Usa, un terremoto provoca 5 mila morti in Turchia, in Messico s’insedia José Lopez Portillo e Bokassa si autonomina imperatore della Repubblica Centrafricana. Nicola Pietrangeli, 83 anni indossati con disincanto come la pochette nel taschino della giacca, in quei giorni ha un problema con il dittatore de noantri: Augusto José Ramon Pinochet Ugarte, generale cileno salito al potere con il golpe del ’73 e padrone di casa della finale di Coppa Davis a Santiago che l’Italia si è meritata battendo la Polonia di Dobrowolski e Drzymalski (5-0), la Yugoslavia di Franulovic e Pilic (5-0), la Svezia senza Borg (4-0), la Gran Bretagna sull’erba di Wimbledon (4-1) e l’Australia di Newcombe sulla palude di terra rossa del Foro Italico (3-2).
Nell’Italia grigia e triste infilata con la testa nel sacco degli anni di piombo e attraversata dai provvedimenti di austerità del governo, dalle esalazioni del processo ai neofascisti del massacro del Circeo, dall’affacciarsi sulla scena di Prima Linea, dalla condanna dell’ex ufficiale nazista Kappler, la partita di tennis diventa in fretta un caso politico. «Non si giocano volée con il boia Pinochet» canta la piazza con alito pesante che scompiglia il ciuffo di Adriano Panatta, braccio (destro) fatato dei quattro amici al bar: Paolo Bertolucci, la spalla, Corrado Barazzutti, il polmone, Tonino Zugarelli, che definire riserva è una cavolata perché se il baffo non avesse battuto Roger Taylor a Londra, bye insalatiera. E in panchina lui, il vecchio Nick, all’epoca gloria 43enne del tennis (due Slam a Parigi) e capitano azzurro, minacciato di morte al telefono («Brutto fascista ammazziamo te e la tua famiglia…» ricorda Pietrangeli in 4976 Storia di un trionfo», uno dei sei volumi che escono per celebrare l’anniversario), piantonato dalla polizia, tirato perla giacchetta, catapultato in un dibattito radiofonico con Pajetta, ministro degli esteri del Pci che voleva boicottare il match, prima che i comunisti cileni consigliassero a Enrico Berlinguer di giocarla, quella sporca prima finale di Davis, perché regalarla a Pinochet sarebbe stato peggio. «La sinistra in quel periodo evidentemente non aveva niente da fare. E si è aggrappata a questa nostra trasferta» si indigna ancora oggi Pietrangeli.
Il governo Andreotti evita coinvolgimenti (la squadra parte per il Cile senza aspettare la risposta all’interrogazione sollevata da comunisti e socialisti), il Coni del presidente Onesti prende tempo, la Federtennis fa melina, i grandi quotidiani borghesi sono per il boicottaggio. Il Corriere della Sera manderà un inviato, Daniele Parolini, che da Santiago si chiede: «Chi andrà a ritirare la coppa se a consegnarla sarà Pinochet?». Tra i tessitori si segnala il fresco presidente della Federcalcio (e prossimo numero uno del Coni) Franco Carraro. Nel Paese spaccato, i giocatori sono vasi di coccio. «Ascoltavo quelle urla e ci rimanevo male. Non sono mai stato comunista, ma sono sempre stato di sinistra, influenzato da mio nonno Luigi, che fu amico di Nenni. Quei giovani che mi insultavano non conoscevano nulla di me» racconta Panatta, il figliol prodigo del custode del Tc Panoli, nella biografia. Poi, all’improvviso, contrordine compagni. Il retroscena postumo è di Ignazio Pirastu, responsabile della Commissione sport della direzione comunista: «Mi convocò Berlinguer. I comunisti cileni avevano avuto segnali inquietanti di una reazione contraria del popolo con un compattamento attorno al regime se non si fosse giocato (…)