Next Gen. L’espressione stessa, ormai abusata, contiene il seme dell’esterofilia, atteggiamento peraltro diffuso in tutto l’ambito sportivo. Quando si parla dei nuovi talenti del circuito, generalmente poca attenzione è rivolta ai tennisti italiani. Per onestà intellettuale va riconosciuto che la schiera dei classe ’96 e più giovani è meno folta – e soprattutto meno titolata – rispetto a quelle di altri Paesi. Infatti al di fuori di Matteo Berrettini e Gianluigi Quinzi, tutti gli altri competono esclusivamente a livello Futures. Come Liam Caruana e Cristian Carli, i migliori italiani nella Race to Milan (rispettivamente 69 e 92) dopo Berrettini e Quinzi. Entrambi stanno crescendo molto a livello Futures. Romano di nascita, Caruana vive da anni negli Stati Uniti. Prima in California, ora in Texas, la sua formazione tennistica si riflette nella predilezione per le superfici dure. Carli, invece, gioca quasi esclusivamente sul rosso, superficie sulla quale a fine agosto ha conquistato il suo primo titolo Futures (Cuneo), a pochi mesi di distanza dalla finale persa con Geoffrey Blancaneux (esponente della Next Gen francese) al torneo di Hammamet. I suoi unici tentativi a livello Challenger (Milano e Roma, pochi giorni fa) sono stati entrambi bloccati sul nascere. Carli però è in crescita costante, e a breve potrebbe essere pronto per competere anche a quel livello.
Di un anno fuori dai canoni della Next Gen, Stefano Napolitano. Il cui 2017 è stato finora deludente, fatta eccezione per il secondo turno al Roland Garros raggiunto dopo un percorso di qualificazioni ostico e la vittoria su Mischa Zverev al primo turno. C’è stata, poi, la tornata di talenti che oggi è alle soglie della “età di mezzo” – quella dei Cecchinato, Caruso, Travaglia – che hanno vinto molto a livello Futures (e in alcuni casi, come Cecchinato, anche a livello Challenger) ma che non sono ancora riusciti ad affermarsi nel circuito maggiore. Che la situazione italiana, dunque, non sia esaltante è una constatazione fin troppo facile, che alimenta quell’atteggiamento esterofilo che molti commentatori hanno già nel loro DNA. Tuttavia, a furia di tracciare esaltanti ritratti dei talenti russi, russo-kazaki, statunitensi, si rischia di non degnare della giusta attenzione i percorsi e i progressi di altri giovani, che quasi silenziosamente si sono portati avanti nel ranking.
È forse questo il caso di Matteo Berrettini, l’esponente più continuo e solido della nuova generazione italiana, che di “derby Next Gen” quest’anno ne ha vinti diversi (Bonzi, Bublik, Duck-Hee Lee). Matteo è il fratello maggiore di Jacopo, altro tennista promettente, con il quale è cresciuto in questi anni presso il Circolo Canottieri Aniene di Roma. Nel panorama italiano Berrettini rappresenta quasi un’eccezione. A vederlo giocare, infatti, il romano sembra incarnare perfettamente il modello del “serve and forehand” tipico della nuova generazione statunitense. Nell’esecuzione di questi due fondamentali, infatti, Berrettini è in grado sfruttare a pieno la sua struttura fisica (194 cm, 86 kg). Le rotazioni e la pesantezza della sua palla sono già quelle di un top 100, e infatti Berrettini si trova oggi a 23 posizioni dall’importante traguardo (esattamente un anno fa era n. 684). Gli ingredienti del suo tennis sono insomma quelli del modello dominante: un servizio solidissimo, anche se c’è da lavorare sulle variazioni, e un dritto pesante che Berrettini esegue con disinvoltura da ogni lato dal campo, ricercandolo spesso dal lato del rovescio, con lo sventaglio. L’impugnatura vira verso la western, e questa è una delle caratteristiche che lo accomuna a Karen Khachanov, tennista peraltro apprezzato da Berrettini.
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Una soluzione tipica del gioco di Berrettini: servizio e dritto a sventaglio per chiudere il primo set della finale di Portoroz, poi persa con Stakhovsky.
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Tale è la fiducia in questo colpo che Berrettini a volte esaspera questo giro intorno alla palla per eseguire l’inside out vincente, qui con Jaziri nella finale di Istanbul.
Per lui il dritto inside out è una soluzione quasi naturale ma che, quando non definitiva, lo espone al rischio di lasciare il campo aperto, situazione che deve imparare a gestire anche migliorando negli spostamenti laterali, ancora non impeccabili.
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Dritto inside out non definitivo, campo aperto e lungolinea vincente dell’avversario: una situazione in cui Berrettini viene a trovarsi spesso.
Anche il rovescio è un buon colpo, ma ancora interlocutorio. Sono infatti rari i vincenti da quel lato. Una soluzione a cui invece Berrettini, talvolta, ricorre soprattutto sulle superfici rapide è il rovescio in back, che il talento romano esegue con efficacia.
Sequenza di rovesci in back, l’ultimo dei quali risulta decisivo, l’avversario accorcia e Berrettini affonda con il dritto a uscire.
Nei pressi della rete viene a trovarsi di norma quando viene chiamato dagli avversari, più raramente di sua iniziativa. In avanzamento verso la rete, nel recupero delle palle corte, appare a volte piuttosto incerto e in ritardo, soprattutto sul lato del rovescio. La tecnica e la manualità, tuttavia, non gli mancano.
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Qui uno scambio spettacolare nella finale di Portoroz con Stakhovsky, chiuso da Berrettini con una volée quasi da fondo campo, dopo un doppio recupero a rete.
Alla 123esima posizione del ranking, nonché alla 15esima della Race to Milan, Berrettini è arrivato nel modo forse più intelligente. Senza forzare le tappe, giocando quasi esclusivamente a livello Challenger. Una scelta simile a quella di altri talentuosi tennisti della cosiddetta Next Gen, come Frances Tiafoe, che ha continuato a fare incetta di punti a livello Challenger anche una volta conquistata la top 100. Sono segnali positivi, di umiltà e lungimiranza. Nel periodo novembre 2016 – settembre 2017 Berrettini ha disputato cinque finali Challenger, perdendone quattro, tutte sul duro, e vincendo soltanto quella sulla terra rossa di San Benedetto del Tronto. Curioso che il primo titolo sia arrivato sulla superficie forse meno congeniale al suo tennis, le cui caratteristiche inevitabilmente vengono esaltate sulle superfici più rapide.
Alla luce dei risultati di questa stagione, logica vorrebbe che fosse dunque Berrettini a partecipare alla grande esibizione milanese che prenderà il via fra poco più di un mese. Non è però scontato, visto che la Federazione ha scelto di introdurre anche in questa occasione lo schema delle pre-qualificazioni già utilizzato per l’accesso ai tabelloni del Foro Italico. Quella delle “prequali”, come amano dire nel gergo, è un’autentica passione italiana. Servirà come operazione di marketing, aumenterà gli introiti, ma non si può certo dire che sia rispettosa delle situazioni reali di partenza. Non sempre, peraltro, questa scelta paga in termini di competitività (e quindi di seguito del pubblico). Dipende ovviamente da chi partecipa. Un conto è che a parteciparvi siano tennisti sostanzialmente di pari rango, dando così luogo a match aperti; altro è aprire le qualificazioni agli otto Next Gen meglio piazzati nel ranking senza minimamente tenere conto del fatto che può esservi, come in questo caso, un differenziale enorme tra il tennista meglio piazzato (Berrettini) e tutti gli altri. Ha senso allora questa procedura?