Next Gen: alla conquista del mondo, con Shapovalov in testa

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Next Gen: alla conquista del mondo, con Shapovalov in testa

Shapovalov, Auger-Aliassime e il modello canadese. La pazienza di Tsitsipas. La crescita di Moutet e Blancaneaux. La scuola spagnola. Chung e Rublev

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Tracciare un bilancio ragionato della “prima stagione” della Next Gen ATP non è compito agevole. Va ricordato, infatti, che con questa espressione si fa riferimento ai tennisti del circuito di età non superiore a 21 anni che concorrono nell’ambito della classifica dedicata, la “Race to Milan”. Si tratta, perciò, di un universo a dir poco composito, che comprende tanto quei giovani che il circuito maggiore lo frequentano da tempo – vedi Borna Coric e Hyeon Chung, vincitore delle Finali di Milano tanto quei tennisti in erba che ancora orbitano nel circuito Futures e/o si sono appena affacciati al livello Challenger. Quella che va dai 17 ai 21 anni è l’età più densa di incognite e di cambiamenti. Vale per la maggioranza degli sport, e senza dubbio per il tennis. È in quella fase che, talento a parte, a fare la differenza sono le scelte, più o meno oculate, che l’entourage di un giovane compie rispetto al percorso di crescita più idoneo per quel tipo di tennista. Ecco perché parlare di migliori e peggiori nell’ambito di un’etichetta così eterogenea, come la Next Gen, è puramente relativo, né è un dato che può ricavarsi, banalmente, guardando alle posizioni più in alto della Race. Tanto basta per concludere che un bilancio dell’annata dei giovani richiede di andare oltre il dato più immediato del ranking (i primi 7+1 che hanno raggiunto Milano), per essere ponderato rispetto ai punti di partenza e ai percorsi di ciascun tennista.

Alla luce di queste premesse, il 2017 è stato prima di tutto l’anno del tennis canadese, cioè di un modello di lavoro e di organizzazione che sta dando i suoi frutti tutti insieme, sia a livello maschile sia a livello femminile. Straordinaria, per la sua rapidità, è stata l’ascesa di Denis Shapovalov nel ranking mondiale. Non per caso l’ATP ha consegnato al talento mancino nativo di Tel Aviv il premio come “Most Improved Player of the Year” . Non va dimenticato, infatti, che all’inizio dell’anno Shapovalov era n. 250 e giocava a livello Challenger, esprimendo un tennis di grande qualità ma senza risultati di rilievo. Perlomeno fino al torneo di Drummondville, la cui edizione del 2017 è stata simbolicamente molto importante per tutto il tennis canadese. Shapovalov vincerà quel torneo – il primo Challenger della sua carriera – e pochi giorni dopo, a Guadalajara, mancherà il secondo successo consecutivo perdendo in finale con Mirza Basic. Il tempo di compiere 18 anni e comincia la stagione sul rosso. La sua però non decolla mai: tre eliminazioni al primo turno in tre Challenger disputati, quindi l’eliminazione al primo turno di qualificazione del Roland Garros, a conferma che la terra battuta – a dispetto dei due titoli Futures conquistati nel 2016 – è una superficie che per il momento limita il suo tennis fatto di ritmo, esplosività e di quegli anticipi a volte esasperati.

Arriva quindi la stagione sull’erba, superficie su cui Shapovalov lo scorso anno aveva raccolto il più prestigioso dei titoli a livello Junior, a Wimbledon. Al Queen’s, al termine di quello splendido match perso al terzo set con Berdych, si capisce che il ragazzo può competere ai livelli più alti. Si prepara per il Masters 1000 di Montreal, dove è atteso con una wild card, disputando due tornei Challenger e conquistando il suo secondo titolo dell’anno. Da quel momento la storia è nota ai più. Shapovalov raggiunge la semifinale della Rogers Cup sconfiggendo, in serie, Nadal, del Potro e Mannarino, e qualche settimana dopo è l’unico dei 22 Next Gen a superare le qualificazioni per gli US Open, dove si spingerà fino al quarto turno. Sul finale di stagione paga la stanchezza, e forse anche la sbornia, delle settimane precedenti: tutto comprensibile per un talento che nel giro di dieci mesi è riuscito a scalare 200 posizioni del ranking, chiudendo alla numero 51. Si fa strada, prepotentemente, anche Félix Auger-Aliassime, 17 anni compiuti ad agosto, che in un anno di posizioni ne ha scalate 452, passando dalla 614 alla 146, anche grazie alla vittoria di due titoli Challenger, entrambi sul rosso. Il giovane canadese è guardato a vista da Louis Borfiga, direttore del National Tennis Centre di Montréal, l’incubatore dei talenti nazionali. C’è chi, come Raonic, si dice giustamente sbalordito dalle qualità tennistiche di Auger-Aliassime, che ora punta dritto alla top 100, un obiettivo che potrebbe essere raggiunto, come per il connazionale Shapovalov, in modo altrettanto repentino.

Un altro nome di questo 2017 è Stefanos Tsitsipas. Meno appariscente, per qualcuno, il suo ingresso nella top 100 del ranking (ora è 91, a inizio anno era 205), ma non per questo meno apprezzabile. Il greco è dotato di un grandissimo talento e di un’eleganza nei gesti che è come una boccata d’aria se si guarda a trecentosessanta gradi il panorama della Next Gen. Fino a oggi, infatti, la sua preoccupazione non è stata quella di imparare a tirare “più forte, più forte e ancora più forte”, ma quella di concentrarsi sulla qualità del suo tennis, sul punto d’impatto, su tutti quei dettagli che contribuiscono all’esecuzione perfetta dei colpi. Il suo è un metodo di lavoro che richiede estrema pazienza. Ed è forse proprio quest’ultima la qualità più spiccata del talento greco. Una pazienza che si riflette, prima di tutto, nella scelta dei tornei da disputare. In questo 2017 non si è fatto mancare nulla: tre Futures sul rosso, diversi Challenger (primo titolo in carriera conquistato a Genova, finale sul cemento di Brest), diverse incursioni nel circuito maggiore, tra wild card sfortunate (vedi Rotterdam, dove ha pescato al primo turno Tsonga) e diversi tabelloni principali conquistati sul campo. La sua prestazione migliore nel circuito maggiore è arrivata a ottobre all’ATP 250 di Anversa, dove ha raggiunto le semifinali. Una pazienza, infine, che traspare puntualmente dalle sue dichiarazioni. Per esempio quando si dice consapevole che ad attenderlo nel circuito maggiore c’è “una lunga sequenza di sconfitte”, che tuttavia non inciderà negativamente sul suo percorso.

In un bilancio annuale della Next Gen, improntato alla qualità tennistica, non si può tacere della crescita di Corentin Moutet. Il suo percorso è analogo a quello di Auger-Aliassime. All’inizio dell’anno il francese classe ’99 partiva dalla posizione n. 533, ora è n. 146. Moutet, lo si è detto più volte in questa rubrica, è il talento più puro della schiera dei giovani talenti d’Oltralpe. E, non per caso, è anche quello che esprime il tennis più raffinato ed eclettico. A differenza della stagione precedente, nel 2017 Moutet si è concentrato quasi esclusivamente sui tornei Challenger (solo tre i Futures disputati, di cui uno vinto), con risultati sempre migliori. Dopo due finali consecutive sul rosso (Como e Siviglia), il primo titolo è arrivato sul cemento di Brest, proprio in finale con Tsitsipas. È luogo comune che Moutet sia intemperante e inaffidabile sul piano della concentrazione. Eppure, chi lo ha visto in questi mesi ha potuto constatare in molti casi un atteggiamento opposto. Basti notare che nella stragrande maggioranza dei match vinti al terzo set Moutet ha ceduto il primo, un “piccolo” dato che però dà la misura di quanto il francese sia fino all’ultimo con la testa dentro il match. Se mai, a differenza di coetanei come Shapovalov, il francese deve lavorare molto sulla muscolatura, che non sembra sufficientemente sviluppata. Passa indubbiamente da qui la sfida, assolutamente alla sua portata, di entrare nelle prime cento posizioni del ranking. Nel bilancio annuale della Next Gen merita una menzione Geoffrey Blancaneaux, vincitore nel 2016 del Roland Garros Juniores, primo francese a riuscirvi dai tempi di Monfils (2004). Blancaneaux, classe ’99, è considerato in ritardo rispetto ai suoi coetanei, ma nel suo entourage il mito della “precocità” è fortemente stigmatizzato e si bada al percorso di crescita del ragazzo senza fare comparazioni. Una crescita che indubbiamente c’è stata se si considera che ha chiuso la stagione con il ranking n. 292 (+345 rispetto a gennaio 2017).

Nella sezione positiva del bilancio della Next Gen va inserita anche una voce, per così dire, collettiva: quella della scuola spagnola, di cui si parla troppo poco ma che sta iniziando a raccogliere i frutti del proprio lavoro e che nel 2017 ha lanciato segnali incoraggianti per i mesi che verranno. Il più giovane del gruppo, Nicola Kuhn, classe 2000 e nativo austriaco, ha chiuso la stagione n. 241 (+546 rispetto a gennaio), collezionando punti a livello Futures e vincendo il suo primo titolo Challenger, a Braunschweig, sulla sua superficie preferita, la terra rossa. Un anno più grande di lui, Alejandro Davidovich Fokina è risalito nel ranking di 394 posizioni in un anno (ora è 465). Il diciottenne di Malaga quest’anno ha conquistato il titolo di Wimbledon Juniores, primo spagnolo nell’era Open a riuscirvi. Chiudono il gruppo i due classe ’97 Jaume Munar e Carlos Taberner, oggi rispettivamente n. 185 e 186, entrambi risaliti di oltre cento posizioni dall’inizio della stagione. I due giocano in pianta stabile nel circuito Challenger, dove hanno fatto incetta di punti: per Taberner due finali consecutive quest’anno; per Munar, invece, primo titolo Challenger sul cemento di Segovia e una finale sulla terra di Rio de Janeiro, persa per ritiro al terzo set con Berlocq.

Prima di chiudere, doverosamente, con chi è arrivato a giocare le finali di Milano, una menzione anche per Miomir Kecmanovic, il diciottenne di Belgrado risalito quest’anno di 600 posizioni e ora n. 207 del ranking; Yibing Wu, ora n. 305, sono le 629 posizioni scalate quest’anno. Il cinese, 18 anni compiuti a ottobre, ha vinto lo US Open Juniores e nelle settimane successive ha raggiunto la semifinale al Challenger di Chengdu, dove è stato eliminato dal “re del circuito” Yen-Hsun Lu, riuscendo però a vendicarsi la settimana successiva in finale al Challenger di Shanghai: il suo primo titolo in carriera. Fra i migliori della nuova generazione c’è anche Matteo Berrettini, ora n. 136, con le 300 posizioni del ranking scalate in un anno, frutto di scelte intelligenti ma anche di una enorme crescita fisica e tennistica. Ben quattro le finali Challenger disputate, di cui soltanto una vinta, sulla terra battuta di San Benedetto.

Infine, Andrey Rublev e Hyeon Chung, sui quali praticamente tutto è stato scritto nelle scorse settimane. Qui si può soltanto suggerire di guardare oltre, se possibile, il primo titolo ATP (il 250 di Umago), i quarti di finale a Flushing Meadows e la finale Next Gen di Milano, per un giudizio più complessivo ed equilibrato della stagione di Rublev. Molto positiva, indubbiamente, ma anche costellata di cadute, a volte sorprendenti. Fra le tante, vengono in mente le eliminazioni alle qualificazioni di Rotterdam (Van De Zandschulp) e Dubai (Millot), al primo turno di Marsiglia, al primo turno delle qualificazioni di Indian Wells (Whittington, 6-3, 6-1) e Cincinnati (Gulbis, 6-2, 6-4); anche la stagione sul rosso, dove è arrivato il primo titolo in carriera, era nata sotto i peggiori auspici con le eliminazioni al primo turno delle qualificazioni di Casablanca (Ward), Montecarlo (Berlocq) e Barcellona (Masur). Questo per dire che siamo sì di fronte a un giocatore di grande qualità, basti osservare l’esecuzione del dritto, ma non ancora affidabile sul piano della continuità delle prestazioni. L’auspicio, e qui ci trasferiamo su un piano più “sentimentale”, è di apprezzare le qualità del suo tennis fino in fondo, perché a volte risultano offuscate da quella brutalità ritenuta oggi evidentemente necessaria ma che non è la sola cifra del suo tennis. Lo si è potuto notare a Halle nel match disputato con il connazionale Khachanov, una partita in un certo senso emblematica della brutalità del tennis di buona parte della Next Gen. Brutale perché non distingue fra superfici, perché antepone sempre il principio della forza, anche nelle situazioni di gioco in cui questo non è necessario. Resta però il fatto che il tennis di Rublev è più pulito, variegato e talentuoso di altri “picchiatori” della nuova generazione.

Infine, Chung. Un’annata in crescita costante, con segnali incoraggianti già agli Australian Open, poi la positiva stagione sul rosso suggellata da quella che per lui è stata “la vittoria più importante della carriera” (al secondo turno di Monaco di Baviera, contro il top 20 Monfils), infine la vittoria a Milano. Non tutti ne apprezzeranno il gioco e lo stile, ma il coreano è uno straordinario esempio di come si può arrivare a raggiungere dei risultati nel tennis. Non si può dimenticare, a stagione finita, il lavoro che Chung ha fatto su sé stesso, nel giro di pochi mesi, per reimpostare due dei colpi fondamentali (servizio e dritto). In particolare il servizio è stato sottoposto a correzioni talmente vistose da apparire un altro colpo rispetto al passato. Il servizio di una volta, pieno di difetti visibili a occhio nudo e dalla meccanica a dir poco arzigogolata, ha fatto posto a un colpo molto più essenziale ed efficace, intorno al quale Chung ha ricostruito la sua rinascita tennistica. E forse anche il suo futuro.

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