Agassi, da ribelle a maestro: "Rifiutavo le regole perché non le capivo" (Panorama Icon). Nadal, altro stop. Ritiro in Messico: "Ancora la gamba" (Crivelli)

Rassegna stampa

Agassi, da ribelle a maestro: “Rifiutavo le regole perché non le capivo” (Panorama Icon). Nadal, altro stop. Ritiro in Messico: “Ancora la gamba” (Crivelli)

Sulle pagine di Panorama Icon, Annalisa Testa racconta una giornata con il ribelle di Las Vegas. Una scuola (la sua) dove al centro di tutto c’è una scelta: il proprio futuro

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Andre Agassi (Annalisa Testa, Panorama Icon 01/03/2018)

Andre Agassi ha gli occhi tristi. Forse più che tristi, malinconici. S’illuminano solo per un secondo quando, durante l’intervista, risponde al telefono come un adolescente. “Hi, baby”, dice a Steffi (Graf, la moglie, il suo “privilegio”). Il suo sguardo parla di un divario, di quel conflitto tra ciò che vorrebbe fare e ciò che invece effettivamente fa, che ben descrive in quella sua autobiografia (Open. La mia storia, Einaudi) che ha ridefinito i parametri della letteratura sportiva… [SEGUE]. Ha una postura scorretta, pessima direi. Cammina con passi cortissimi, le punte dei piedi rivolte verso l’interno. Colpa di un piccolo difetto della colonna vertebrale, la spondilolistesi, “una vertebra lombare ribelle che si è staccata dalle altre”, che si porta dietro da quando aveva sette anni, come i capelli tagliati a scodella, e che le ore passate a colpire (più forte, più in fretta!) un milione di palle all’anno su campi che ribollivano cemento, hanno solo peggiorato. Primo sintomo, urlato, di un corpo che non ha mai voluto fare ciò che insistentemente gli è stato richiesto. “Ci sono giorni in cui ho delle fitte lancinanti. E l’unica cosa che posso fare è sdraiarmi a terra, anche su un marciapiede nel bel mezzo del Nevada, infilare sotto la testa una bottiglia d’acqua e aspettare che sparisca”, racconta, rassegnato, mente apre la porta d’ingresso della Democracy Prep Public Schools all’Andre Agassi Campus, una fortezza in mezzo al deserto, dove le luci del divertimento di Las Vegas sono parecchio lontane, dove la gente si spara per strada: “È successo mentre un giorno stavo mostrando il complesso ad alcuni visitatori”. Una scuola diversa, in cui si mira all’eccellenza con un unico motto: “Work hard. Go to college. Change the world”.

Questa scuola è la rivincita contro la sua (mancata) infanzia. Agassi, cresciuto da solo in una metà campo, ora accoglie più di 5mila studenti nelle scuole del Nevada, di New York, del New Jersey. Vien da ridere nel vedere che ai ragazzi è imposta una divisa, oltre a un codice del rispetto che vuole si impari a memoria. Proprio da lui, ribelle per eccellenza di fronte a tutte quelle regole imposte dai dettami aristocratici del tennis e del non-tennis. Da lui, che scendeva in campo con unghie smaltate, matita nera sugli occhi, creste multicolor, orecchini, pantaloncini di jeans, anfetamine. E pensare che gli svizzeri della maison Longines che hanno creduto in lui e nella Andre Agassi Foundation for Education diventandone partner e sostenitori, festeggiano oggi dieci anni dal giorno in cui scelsero di arruolarlo come il proprio Ambasciatore d’Eleganza. “Io mi ribellavo alle regole perché non le capivo”, si giustifica Andre. “Non me le spiegavano. me le imponevano. Diventarne allergico era una conseguenza ovvia”, racconta passeggiando per la scuola... [SEGUE]. Alcuni ragazzini sembrano non far caso a lui, altri lo riconoscono. Allora gli vanno incontro timidamente. “Hello, Mr. Agassi”, e lui si scioglie in un sorriso che non s’era ancora visto. Chissà che tipo di padre è, Andre. Ma qualcosa suggerisce che tra i due genitori non sia lui quello severo… [SEGUE]. Ma il kid di Las Vegas, abituato a essere in cima alla catena alimentare di un ecosistema tennistico, mantiene salda quella stretta che equivale all’intensità della forma con cui impugnava il manico della racchetta quando sparava meteoriti a 145 chilometri orari. Stringere la sua mano è come prendere una scossa che mette in azione un flashback di ricordi attraverso i suoi 1.556 match.

Compreso l’ultimo. Quello del 2006 con il tedesco Benjamin Becker sull’Arthur Ashe Stadium, il centrale di Flushing Meadows. Una sconfitta che coronava la sua carriera, una standing ovation di 23 mila persone che non volevano lasciarlo andar via. Forse perché consapevoli che da quel momento il tennis non sarebbe stato più lo stesso. “Quel giorno sul tabellone c’era scritto che avevo appena perso. Ma non c’era scritto quello che invece, nei miei 21 anni di carriera. avevo trovato”, risponde sottovoce quasi a volerlo ricordare a se stesso. “Il mio tennis era cambiato, il tennis mi aveva cambiato. Un’evoluzione, necessaria. Veloce, come i meccanismi che muovono questo sport che trascrivono carattere e personalità nei colpi, nella strategia mentale, nelle caratteristiche di gioco. Il tennis è uno scontro psicologico con se stessi, prima che d’azione contro l’avversario. Questo credo che sia l’unico punto fermo che non potrà cambiare”. Nemmeno ora, in un tennis fatto di muscoli e materiali hi-tech. Il talento quanto conta? “È innato, lo vedo anche nei bambini, il talento devi averlo. È facile riconoscerlo, puoi lavorarci intorno, sui colpi, sulla preparazione atletica. Ma l’incognita è l’evoluzione. L’unico suo limite è la crescita di ognuno. Anche quella mentale”. Quando parla Andre, con quella sua voce flebile, crea intorno a lui la stessa suspense che si respirava in tribuna quando l’attesa tra un punto e l’altro non era tanto finalizzata a sapere se Agassi avrebbe vinto lo scambio, ma quanto tempo impiegava per vivisezionare l’avversario. Il più in fretta possibile, possibilmente, perché per lui era necessario metter fine alla sofferenza di stare in campo. Ora, il campo da tennis, qui nella sua scuola per ragazzini del Nevada, non è stato costruito al centro di tutto. Anzi. Al centro c’è un simbolico albero della speranza. “Il nostro centro è l’educazione, perché ti dà la possibilità di scegliere e ti permette di scoprire chi sei veramente. Un’opportunità che non ho avuto. Io, da bambino, non ho avuto la possibilità di scegliere”.


Nadal, altro stop. Ritiro in Messico: “Ancora la gamba” (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport 01/03/2018)

Erano arrivati per lui, si sono dovuti accontentare delle bandiere al vento con la sua effigie. Perché sul caldo cemento di Acapulco Rafa Nadal non ha giocato nemmeno uno scambio. Ritirato, recitava il comunicato degli organizzatori tre ore prima del derby spagnolo contro Lopez: per la sesta volta negli ultimi sei tornei (Basilea, Parigi Bercy e Masters nel 2017; Brisbane, Australian Open e appunto questo nel 2018) il vincitore di 15 Slam e 10 Roland Garros non ha cominciato oppure concluso le sue fatiche. È lui stesso a confermare che il problema è il riacutizzarsi del dolore alla coscia destra che a Melbourne lo costrinse ad abbandonare nel quinto set la sfida nei quarti contro Cilic, dunque un problema muscolare all’ileopsoas, colpito da uno stiramento di primo grado guaribile in un paio di settimane: “Ho fatto tutto nel modo corretto per prepararmi, giocare era il mio obiettivo e il mio sogno. Sfortunatamente lunedì, nell’ultimo allenamento, dopo un movimento brusco ho sentito pungere il muscolo nella stessa zona della gamba”.

Le sensazioni sono meno trancianti rispetto a gennaio, ma è chiaro che solo il tempo ed esami più approfonditi della risonanza immediatamente effettuata in Messico daranno risposte chiare sui prossimi passi da compiere: “Non ho l’esatta idea della gravità, ma mi sembra meno pesante che in Australia. Mi ero avvicinato al torneo nel modo giusto, sono arrivato venerdì per allenarmi a Cozumel. Dalla risonanza non si pub sapere che cosa io abbia esattamente, c’è un piccolo versamento e solo quando sarà riassorbito potremo avere una diagnosi più precisa. I medici mi hanno detto che era impossibile che potessi giocare, e comunque la gamba faceva male e non avrei potuto essere competitivo come voglio di solito, rischiando tra l’altro di farmi più male. Non avevo scelta, giocare non era davvero un’opzione”. In attesa di un quadro più preciso, è lecito immaginare che Rafa resti in forte dubbio per Indian Wells (che comincia l’8 marzo) e pure per Miami, in particolare se le tre settimane dei Masters 1000 americani potrebbero compromettere la stagione sull’amata terra. Ad Acapulco, torneo vinto nel 2005 e nel 2013, quando però si giocava sul rosso, il maiorchino difendeva la finale dell’anno scorso e ricominciava la corsa al numero uno che gli è stato sottratto da Federer il 19 febbraio. Prima del torneo messicano, aveva detto che tornare in vetta sarebbe stato splendido, “altrimenti andrà bene lo stesso”. In questo momento, si può starne certi, non sono i 600 punti che lo dividono dalla svizzero a preoccuparlo, o i 300 che perderà rispetto al cammino messicano dell’anno scorso: il suo spirito guerriero si nutre delle battaglie e questo infortunio prolungato rischia di incrinarne le certezze di nuovo consolidate all’inizio del 2017… [SEGUE].

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