Nole, dimentica Daniel e Paire ma ricorda le tue parole

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Nole, dimentica Daniel e Paire ma ricorda le tue parole

A Indian Wells e Miami abbiamo visto uno dei peggiori Novak Djokovic di sempre, ma ciò che gli ha fatto anticipare inopinatamente il rientro è essenziale per tornare dov’era

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Il presente di Novak Djokovic è quello del n.12 ATP, di sei match giocati dall’inizio dell’anno con tre vittorie agli Australian Open contro Young, Monfils e Ramos Vinolas, e tre sconfitte, quella lottata contro Chung e quelle, durissime per come sono arrivate, all’esordio a Indian Wells e Miami contro Taro Daniel e Benoit Paire. Per analizzare il suo peggiore inizio di stagione (nel suo orribile 2017 aveva comunque cominciato con la vittoria a Doha in finale su Murray), vale la pena soffermarsi su due frasi, molto eloquenti, con le quali il campione serbo, già dopo la prima sconfitta, ha al contempo suggerito da dove ripartire e fotografato i suoi problemi attuali con una ferocia verso se stesso tipica dei fuoriclasse.

NON AVREI DOVUTO ESSERE QUI

Contro il n.109 ATP, abbiamo assistito a un Djokovic estremamente falloso e fisicamente impreparato. Dopo due set tirati, l’ex tiranno di Belgrado si è praticamente sciolto nel terzo parziale. In quell’occasione, quando lo scambio si protraeva oltre i 6 o 7 colpi, si concludeva in un modo tanto insolito quanto avvilente: la sbiadita copia del n.1 del mondo prima arrancava, poi lasciava scorrere, immobile e impotente, il colpo a chiudere dell’avversario giapponese. Un epilogo davvero sbalorditivo per chi ci aveva abituato a recuperi impossibili, permessi da quella elasticità stupefacente che gli è valsa l’epiteto di tiramolla e che è semplicemente un extra rispetto a un atletismo di base su cui Djokovic ha costruito una parte non indifferente dei suoi successi. Meno di una settimana dopo, sull’altra costa degli States, le cose sono andate anche peggio: 67 miseri minuti e tanti saluti a pubblico e torneo. Come è possibile che quel giocatore sia arrivato così spompato all’appuntamento col Sunshine Double? Novak ha spiegato, sia prima che dopo il match con Daniel, che voleva vedere in quali condizioni era e soprattutto verificare in partita se finalmente poteva giocare senza il dolore che si trascinava negli ultimi due anni. Dopo il match con Paire, ha ribadito il concetto. Balle, caro Nole. Il vero motivo della sua scarsa forma fisica è un altro, ben più rassicurante, paradossalmente, per chi lo sostiene.

Anche nell’epoca del professionismo esasperato, fatto di equipe mediche, fisioterapisti, psicologi e quant’altro, capita persino ai più grandi di farsi tradire dalla voglia matta di tornare a competere. Dopo sei mesi lontano dal suo mondo e un ritorno deludente agli Australian Open, l’ex n.1 del mondo ha anche dovuto affrontare l’operazione al gomito destro. Al termine di un recupero molto (troppo) rapido, Novak non vedeva l’ora di tornare a incrociare la racchetta sui palcoscenici che gli spettano. Il fuoco sacro che contraddistingue il tennista, che l’ha pervaso da quando aveva pochi anni di vita, non l’ha mai abbandonato. Dopo una complessa fase della sua esistenza, caratterizzata dal cambio di prospettive a seguito dell’arrivo del primo e poi del secondo figlio, il tennis aveva naturalmente abbandonato il ruolo di priorità numero 1. Tutto quanto è avvenuto in campo dalla sconfitta con Sam Querrey a Wimbledon 2016 in avanti, compresi il lungo stop dalla scorsa estate e poi l’operazione al gomito dopo Melbourne, ha però completamente ravvivato il fuoco della passione per il tennis e la competizione. Nel rientro affrettato a Indian Wells – e nella ripetizione dell’errore a Miami – quella formidabile spinta istintiva ha prevalso sulla programmazione scientifica.

Nel Djokovic voglioso fino alla morte di tornare subito in campo è facile scorgere una similitudine con uno dei nostri sportivi più amati, Marco Pantani. Il pirata di Cesenatico era adorato dal pubblico proprio per la sua naturale attitudine a scattare quando se lo sentiva, senza badare troppo alla tattica o al fisico ma facendosi guidare esclusivamente dal suo istinto di campione. Il trionfo al Tour de France del 1998 fu l’apoteosi del campione umano e passionale che vince sull’atleta professionista e quasi robotico. Il povero Jan Ullrich, favorito alla vigilia, venne all’epoca dipinto fin troppo come il cattivo di turno, non perché fosse antipatico o presuntuoso (tutt’altro), ma perché costituiva il prototipo del ciclista moderno, figlio di una preparazione scientifica e iperprofessionistica. La contrapposizione tra lui e Pantani era letterariamente perfetta per costruirci sopra fiumi di articoli ed entusiasmare i tifosi italiani. Ebbene, l’iperprofessionista Djokovic, tornato a casa dall’intervento al gomito, ha lasciato spazio all’istintivo Nole, che non stava nella pelle all’idea di rientrare nel circuito. Questo fuoco sacro in California e in Florida l’ha tradito, perché il suo fisico richiedeva maggiore allenamento, così come tradì l’ultimo vero Pantani, quello che nel 2000 fece un buon Tour ma in più di una tappa pagò a caro prezzo contro Lance Armstrong gli scatti in salita dettati dall’istinto. Si tratta però di una componente fondamentale, una conditio sine qua non per dare al campione di 12 Slam e ai suoi tifosi la speranza di tornare davvero. Con la differenza che dopo queste due docce gelate, al fuoco sacro tornerà ad affiancarsi la programmazione scientifica. Non stiamo scoprendo nulla, è tutto certificato dalle ultime parole di Djokovic nell’intervista dopo il match con Daniel: “Il tennis mi manca. In un certo senso mi manca competere. Mi manca essere là fuori, è una parte molto grande della mia vita. Ma allo stesso tempo, devo parlare con il mio team e creare la miglior strategia possibile per il futuro”.

Segue a pag. 2 con l’altra frase chiave di Djokovic

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