Giorgi in semifinale, quarti Fabbiano (Cocchi). Noi tenniste siamo ormai macchine. Da guerra (Mecca)

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Giorgi in semifinale, quarti Fabbiano (Cocchi). Noi tenniste siamo ormai macchine. Da guerra (Mecca)

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Giorgi in semifinale, quarti Fabbiano (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Al torneo di Istanbul Thomas Fabbiano, n. 100 Atp, dopo aver eliminato al primo turno il russo Youzhny, ieri ha battuto il bosniaco Dzumhur, numero 32, raggiungendo così Paolo Lorenzi ai quarti di finale. Il 28enne pugliese si gioca oggi un posto in semifinale con il 31enne francese Jeremy Chardy, numero 87 della classifica mondiale contro cui non ha precedenti. Lorenzi trova invece il serbo Laslo Djere, numero 110, che aveva eliminato Andreas Seppi. «Sono molto felice per aver raggiunto i quarti per la prima volta in un torneo sulla terra — ha detto l’azzurro —. E’ una bella iniezione di fiducia per Roma e Parigi». Eppure Fabbiano non è contento al cento per cento di quanto ha messo in campo contro Dzumhur: «Sento di non essere ancora vicino alle mie performance migliori. Il dato positivo è essere riuscito a stare concentrato fino all’ultimo». Contro Chardy bisognerà mantenere la stessa concentrazione: «Mi aspetto un’altra battaglia, lui ha molta esperienza, ottimi colpi e un servizio potente». Oggi in Portogallo tocca anche a Simone Bolelli che ha raggiunto i quarti in singolare dopo due anni e affronta il Next Gen Tiafoe. A Monaco di Baviera, dopo l’exploit del 1° turno contro Fognini, si è fermato invece Marco Cecchinato contro Fucsovics. E’ Camila Giorgi a portare avanti l’azzurro a Praga: la 26enne numero 58 al mondo ha liquidato l’australiana Samantha Stosur, numero 57 del ranking mondiale. Fuori invece Jasmine Paolini contro la Zhang. Si ferma anche Sara Errani che a Rabat non riesce a prendere la rivincita contro Elise Mertens che l’aveva battuta in Fed Cup a Genova.

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Noi tenniste siamo ormai macchine. Da guerra (Giorgia Mecca, La Repubblica – Il venerdì)

Non è solo questione di muscoli o di talento, di come si impara a colpire una pallina o si maneggia la racchetta. La disciplina non basta quasi mai, la dedizione nemmeno. «È il modo in cui mangi e dormi, in cui pensi e respiri ogni giorno a fare di te una giocatrice». Garbiñe Muguruza ha ventiquattro anni ed è la terza tennista più forte del mondo. Tra pochi giorni scenderà in campo a Roma per giocare gli Internazionali d’Italia. L’anno scorso ha dovuto abbandonare la semifinale dopo venti minuti per un infortunio al collo. Appena uscita dal campo si sentiva dolorante e furiosa. Oggi il dolore è passato, e la furia pure. Sta bene, è in pace con sé stessa e con la vita che si è scelta. Nell’Hotel Santo Mauro, dove alloggia ogni volta che è a Madrid, trova il tempo per stringere mani e fare foto con chiunque le si avvicini. La spagnola ha vinto due titoli del Grande Slam, il Roland Garros nel 2016 contro Serena Williams e Wimbledon nel 2017 contro Venus. Prima di lei nessuna donna era riuscita a battere le due sorelle in una finale dello Slam. «Per me è stato qualcosa in più della conquista di un titolo. Senza togliere nulla alle altre, Venus e Serena hanno fatto la storia di questo sport. Giocare e vincere contro di loro è stato un valore aggiunto, una conferma: significava che stavo facendo la cosa giusta, che mi meritavo di stare in quel campo». Se il tennis femminile ha bisogno di nuovi modelli a cui aggrapparsi, Muguruza sembra essere la persona giusta. È giovane, ha una prima di servizio potente, sa come si vince una partita e sta imparando a convivere con l’idea che si può anche perdere. Dentro il campo è aggressiva, fuori non smette mai di sorridere. È stata la numero uno al mondo e vuole tornare ad esserlo: «Ogni volta che mi parlano della famosa eredità delle Williams mi sento mancare il fiato. Non è possibile rimpiazzare la storia, nessuno occuperà il loro posto. Non ci siamo dimenticati di Borg e McEnroe soltanto perché adesso ci sono Federer e Nadal. Lo sport è un capitolo che si apre e si chiude in continuazione. Con questo dovrò fare i conti anche io». Tutto ciò che si sente di dire è che vuole rimanere tra le prime del ranking. La tennista di Caracas – che, dopo una decisione sofferta, gioca con i colori della Spagna pur mantenendo la nazionalità venezuelana – ha preso per la prima volta una racchetta in mano a tre anni. I suoi genitori volevano che tra i loro tre figli ci fosse almeno un campione di tennis. Prima ci hanno provato i fratelli più grandi, Igor e Aster, poi è arrivata lei. «Ero l’ultima speranza di realizzare il sogno di famiglia». Della sua infanzia Garbiñe Muguruza ricorda soltanto il tennis. «Quando ero in campo giocavo, quando ero fuori guardavo gli altri giocare: Sampras e Agassi, Agassi e Sampras». Lo sport le ha rubato l’infanzia. «Avevo un unico obiettivo, vincere. Le carriere degli sportivi sono brevi, quindici anni se sei molto fortunato. Non posso pensare di competere ai massimi livelli dedicando al tennis il cinquanta per cento del mio corpo e della mia testa». A volte lo sport è frustrante: «Ma più ci penso, più mi rendo conto che non esiste un posto migliore in cui vorrei trovarmi». I tennisti viaggiano tutto l’anno, da gennaio a novembre, senza fermarsi. «Ho visto tutti i campi del mondo, ma del resto non so niente. Sono stata a Mosca cinque volte e non la conosco, vado in Australia ogni anno e non ho mai visto un canguro. L’anno scorso, a Roma, dopo il ritiro, la prima cosa a cui ho pensato è stata: “Vi prego, andiamo fuori, portatemi a vedere com’è fatto il Colosseo”». Cos’altro deve imparare dal tennis Garbiñe Muguruza? «Noi professionisti non ragioniamo in questo modo. Dietro ogni colpo ripetuto fino alla nausea c’è sempre un obiettivo. So cosa sto facendo, e il perché continuo a farlo. A volte è triste rendersi conto che hai dato tutto ciò che avevi e che non è stato abbastanza». A distanza di anni, le sconfitte bruciano ancora ma fanno meno male. Quando era più giovane ogni sconfitta era un’ossessione. «Era come un tatuaggio sulla la pelle. Ovunque posassi lo sguardo, vedevo soltanto quello. Oggi no. Mi voglio più bene. Quando perdo un incontro mi fermo un attimo e poi comincio a pensare al prossimo. È successo anche a Wimbledon, tre giorni dopo la vittoria ero nuovo in campo per prepararmi al cemento». Nel tennis si ricomincia sempre da zero, e le vittorie non diminuiscono la pressione che sente addosso quando gioca. «Quando ho vinto a Parigi pensavo che sulla terra rossa sarei finalmente stata libera. È successo il contrario. L’anno dopo, al primo turno, ho giocato una delle partite più difficili della mia vita contro Francesca Schiavone; quel giorno ho giocato soltanto contro me stessa.. La verità è che la fame non passa. Quando vinci una volta, vuoi vincere ancora. È la testa che comanda, che crea aspettative, paura di fallire». In campo non è mai solo tennis. «So come si gioca. Il problema è quel peso nello stomaco che entra in campo con me e a volte gioca al posto mio. Bisogna convivere anche con questo, e con la solitudine perenne». Il tennis femminile evolve. «Le avversarie sono sempre più forti. Una volta giocavamo in modo artigianale, oggi siamo macchine da guerra. Non c’è più molta differenza tra uomini e donne». I muscoli del futuro non faranno rimpiangere il passato. «Non è più il momento della donna sola al comando, e non è colpa della poca costanza delle giocatrici, ma del livello che si sta alzando». Il tennis ha nomi nuovi, nuovi volti. «Speriamo non siano troppi», scherza Garbiñe, che ormai si definisce una “giovane vecchia”. Non si vede in campo a 37 anni, ma per ora farà di tutto per rimanere dov’è. «Quando il fisico smetterà di seguirmi arriverà anche per me il giorno dell’addio. Sarà un brutto giorno, mi sentirò vuota, ma per ora il tennis mi basta. È tutto ciò che ho».

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