Thiem spinge Nadal giù dal trono (Cocchi). Chance Roma (Semeraro). La vena di Rafa (Mecca). Cara amica, non è triste dire addio (Cocchi). Dal Texas ma col cuore azzurro: "Ora la Davis con l'Italia" (Stoppini)

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Thiem spinge Nadal giù dal trono (Cocchi). Chance Roma (Semeraro). La vena di Rafa (Mecca). Cara amica, non è triste dire addio (Cocchi). Dal Texas ma col cuore azzurro: “Ora la Davis con l’Italia” (Stoppini)

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Thiem spinge Nadal giù dal trono (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)

Cade Rafa Nadal. Dopo 51 settimane si ferma la sua striscia positiva sulla terra rossa, la sua superficie, il suo regno. Ed è ancora una volta Dominic Thiem a fermare la sua corsa, proprio come a Roma 2017. Stavolta è ai quarti del Masters 1000 di Madrid che si consuma la disfatta di Rafa, un crollo che fa male soprattutto perché oltre a fermarne il record di set vinti consecutivamente sulla stessa superficie a quota 50, lo spinge anche giù dal trono mondiale. Da lunedì sarà di nuovo Roger Federer il numero 1 del ranking… [SEGUE]. Forse il desiderio di rivalsa dopo la lezione presa dal maiorchino a Montecarlo, forse un calo fisiologico di Rafa, molto più falloso del solito (saranno 29 i gratuiti). Di sicuro Thiem ha mostrato una maturità decisiva nella gestione dei momenti importanti: «Dopo Montecarlo, quando mi ha dato 6-0 6-2, ho capito che avrei dovuto salire moltissimo di livello se avessi voluto tentare di battere Rafa — ha detto Dominic, autore di 22 vincenti di dritto —. Questa volta ci sono riuscito, dovrei sempre scendere in campo con questo atteggiamento positivo». Il Rafa che esce dal campo salutando e firmando autografi nonostante il dolore della sconfitta, ha anche voglia di scherzare: «Come andrò a Roma dopo questa battuta d’arresto? Beh, penso che prenderò l’aereo». Poi analizza il k.o.: «C’è poco da dire, non ho giocato abbastanza bene, il mio rivale è stato impeccabile. Purtroppo ci sono giorni in cui si scende in campo sicuri e a proprio agio e altri, come in questo caso, dove non si riesce a trovare il feeling quando si colpisce la palla». Con questo risultato, Rafa perde il numero 1 al mondo, ma anche per questo ha una spiegazione più che valida: «È difficile mantenere la vetta del ranking stando fermi cinque mesi come è successo a me per l’infortunio. Tra Shanghai e Montecarlo non sono riuscito a finire un solo torneo. In questo momento però non mi soffermo troppo sulla questione del ranking, vedremo cosa succederà a fine anno. L’unica cosa che mi importa davvero è restare sano e competitivo». Ora c’è da riposare e preparare Roma, ricco antipasto del Roland Garros dove andrà a caccia dell’undicesimo successo per lasciare una volta di più la sua impronta sulla terra rossa e nella storia del tennis. Agli Internazionali il sorteggio gli ha messo di nuovo Thiem sulla strada, i due potrebbero incontrarsi nei quarti: «In partite come questa, dove succede di non trovare mai il ritmo e non si riesce a dominare lo scambio, è normale perdere. Adesso è importante resettare tutto e prepararsi nel modo migliore per la settimana che viene». Insomma, una giornata storta, che non deve minare la fiducia del mancino: «Non vedo perché dovrei buttare tutto quello che ho fatto finora solo per una sconfitta… Vengo da una serie di 50 set vinti sul rosso consecutivamente, di cosa dovrei lamentarmi? Lo sport è questo e io mi complimento con Thiem che oggi è stato il migliore». A Roma, il regolamento di conti.


Chance Roma (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

È ufficiale: la bestia nera di Rafa Nadal sul rosso si chiama Dominic Thiem. Era stato il “Dominator” austriaco l’ultimo capace di battere Rafa sulla terra battuta, l’anno scorso nei quarti di Roma; ed è stato di nuovo lui, ieri nei quarti di finale a Madrid, a interrompere la striscia di 21 vittorie e 50 set consecutivi dell’ex numero 1 spagnolo. E sì, ex, perché la sconfitta nel Masters 1000 di casa per il fenomeno significa anche l’addio al trono del ranking; da lunedì, senza nemmeno scendere in campo, ma grazie agli algoritmi del computer che implacabilmente ogni settimana scartano i punti accumulati l’anno precedente, sarà Roger Federer a tornare al vertice, inaugurando la sua 309esima settimana – non consecutiva – da Number One. È un’altalena destinata probabilmente a durare tutto l’anno… [SEGUE]. Ma anche il Cannibale è umano, e ieri, appena dopo aver strappato a McEnroe il record di set consecutivi vinti su una singola superficie, è inciampato sulla sua nuova Nemesi rossa. L’effetto collaterale di questa sconfitta è un toccasana per gli Internazionali di Roma: se vorrà riprendersi subito il numero 1 Nadal infatti dovrà per forza vincere al Foro Italico, dove ha già trionfato sette volte in carriera, ma dove non alza la coppa dal 2013, quando in finale strapazzò proprio un Federer in preda alla lombalgia. E tanto per aggiungere una dose di thriller e di bizzarria alla faccenda, il sorteggio del tabellone maschile ha di nuovo piazzato Nadal e Thiem nella stessa metà del tabellone, con un teorico scontro proprio nei quarti di finale. Corsi e ricorsi del tennis. Quella di ieri è la seconda vittoria di Thiem su otto sfide con Nadal. A dargli una mano sono state anche le condizioni di gioco: a Madrid si gioca in altitudine (700 metri) e le palle “volano” su un’argilla già di suo più veloce rispetto ad esempio a Montecarlo, ma The Dominator ha impressionato. Dal primo all’ultimo colpo ha tenuto sotto pressione Nadal, martellandolo con diritti e rovesci carichi di effetto e di potenza impressionate, aprendosi il campo per poi piazzare l’accelerazione vincente sul rovescio dell’avversario. Una tattica che si possono permettere in pochissimi – a esempio il migliore Stan Wawrinka – e che richiede una tenuta mentale che non sempre l’austriaco è riuscito a mostrare… [SEGUE]. «Bravo Dominic, è stato più determinato, il risultato è giusto. Io ho avuto un po’ di sfortuna, e ho sbagliato troppo, ma faticavo a controllare il suo top-spin, carico e veloce. Perdere un partita non è un dramma neppure per il n 1: da Shanghai a Montecarlo ho giocato poco, non potevo pretendere di più». L’appuntamento per la rivincita è da domani a Roma.


La vena di Rafa (Giorgia Mecca, Foglio Inserto)

La vena sull’avambraccio sinistro è sempre rimasta ferma al suo posto. Rafael Nadal se la porta dietro da una vita. È una strisciolina viola che sporge, gli spacca il muscolo a metà, diventa più grossa tutte le volte che si prepara a colpire il dritto. Quando stringe i pugni e li rivolge verso il cielo per esultare, quella vena sembra voler esplodere. Aveva perso i muscoli Nadal, sono tornati anche loro, sono tornati quelli di un tempo: asimmetrici, sproporzionati, aggressivi. Fanno quello che devono fare, spaventano l’avversario. Succede dal 2005. Il campione spagnolo compirà trentadue anni tra meno di un mese, il 3 giugno, e ha ricominciato a vincere. Il 17 aprile, dopo una pausa forzata dal tennis è tornato in campo per difendere il titolo dell’anno scorso al Master 1000 di Montecarlo, il primo torneo della stagione sulla terra rossa. Prima di quel giorno aveva giocato soltanto due incontri, in Coppa Davis, contro la Germania di Alexander Zverev e di Philipp Kohlschreiber. Aveva battuto entrambi ma si sentiva insicuro, aveva paura che il dolore non fosse passato, temeva di non essere ancora pronto per la competizione. È strano ed è ingiusto ma basta un attimo per dimenticarsi come si vince una partita di tennis. Nadal ha conquistato il torneo vincendo cinque partite senza mai perdere un set. Durante la semifinale vinta 6-4 6-1 contro la testa di serie numero cinque del tabellone Grigor Dimitrov, subito dopo essere andato a stringere la mano all’avversario, Nadal ha tirato fuori dal borsone il cellulare e ha cominciato a scrivere messaggi al suo staff. Non aveva ancora smesso di sudare, le calze e le gambe erano sporche di terra rossa, eppure lui sentiva il bisogno di chiedere al suo allenatore Carlos Moya di rientrare in campo. Non era soddisfatto delle sensazioni che aveva provato in partita. Non gli piaceva il modo in cui aveva colpito il rovescio, gli era sembrato troppo poco potente, troppo poco incisivo. Moya non ha avuto scelta; sotto il sole delle quattro di pomeriggio, con trenta gradi e un’ombra inesistente, ha dovuto acconsentire e ricominciare un’altra ora di allenamento. Il tennis non è un bacio della fortuna e non è una grazia divina. Non è un caso se Nadal il giorno dopo ha conquistato per l’undicesima volta il torneo di Montecarlo. Nessuno ha mai vinto così tante volte nello stesso posto. Vincendo nel Principato di Monaco e poi a Barcellona la settimana dopo (per l’undicesima volta anche qua), il maiorchino ha riconfermato la sua classifica tornando, fino a ieri, numero uno al mondo… [SEGUE]. Per togliersi il pensiero ed evitare altre domande, il record del 1984 alla fine lo ha battuto, prima di perdere ieri nei quarti di finale contro Dominic Thiem e cedere nuovamente a Federer la prima posizione della classifica ATP. Poche ore dopo quella conferenza stampa, Nadal è tornato di nuovo in campo ad allenare il rovescio, il colpo che da sempre lo fa sentire più insicuro. Voleva che fosse più potente, più incisivo. Il tennis è uno sport ossessivo, logorante. Fa male, obbliga a compiere movimenti innaturali, mangia le cartilagini, divora il cervello. La fatica e lo stress agonistico accumulati durante la carriera rimangono conficcati nelle ossa, prima o poi si fanno sentire, presentano il conto. L’adrenalina, finché c’è, attutisce la sofferenza. Prima o poi però, svanisce anche quella. Quest’anno, durante i quarti di finale degli Australian Open, il primo torneo del Grande Slam della stagione, Nadal si è dovuto ritirare contro Marin Cilic per una doppia lesione muscolare alla gamba destra. È stato fermo settantacinque giorni e ha ammesso di avere pianto molte volte per il dolore. Mentre Roger Federer vinceva sul cemento di Melbourne e su quello di Rotterdam, lui andava a pesca con la sua barchetta a Manacor e non riusciva a godersi il riposo. In quei mesi ha promesso a se stesso e alla sua schiena che non avrebbe mai più sputato tutto quel sangue per il tennis. A trent’anni gli sportivi devono imparare a dare ascolto al proprio corpo. Non c’è niente da fare, è lui che comanda e a volte smette di seguirti a volte, invece, provoca, ti deride, gioca contro di te… [SEGUE]. Non è facile per niente. Non lo è soprattutto quando sei cresciuto con un unico comandamento, quello di rincorrere la pallina fino allo sfinimento e non sbagliare mai. Suo zio Toni, che gli ha fatto da allenatore per tutta la vita e da quest’anno ha smesso di seguirlo da vicino, glielo ha sempre detto: “Il bel gioco lascialo fare agli altri, non ti servirà”. Con quelle gambe e con quel cuore non era necessario pensare troppo, impazzire con schemi e tattiche. Gli sarebbe bastato inchiodarsi alla linea di fondo e scaraventare dall’altra parte della rete tutto ciò che rimbalzava nel suo campo, anche i gesti bianchissimi di Federer, soprattutto quelli. L’eleganza non basta a se stessa, su un campo da tennis la bellezza non salva proprio nessuno. Non più. Grazie agli insegnamenti di suo zio e alla passione che riusciva a mettere in ogni punto, il tennista spagnolo dal 2005 in poi ha vinto tutto ciò che si può vincere: più di 890 partite, 77 tornei, sedici titoli del Grande Slam, dieci Roland Garros e un oro olimpico. Oggi Nadal è un giocatore diverso, ha smesso di correre per chilometri e chilometri dentro al campo. Non prova più a raggiungere ogni pallina che gli ritorna indietro, ha finalmente capito che alcuni colpi è meglio lasciarli andare. Sa che prima o poi il suo fisico lo ringrazierà. Oggi sulle smorzate che gli fanno gli avversari, a volte si morde le labbra, ha la tentazione di partire ma poi improvvisamente si ferma, rinuncia al recupero. Non solo. Per contenere le energie che gli sono rimaste, ha lavorato sulla sua prima di servizio, il colpo più complicato del tennis. Ma com’è possibile, quando hai più di trent’anni e sei il numero uno al mondo anche solo pensare di potere ancora migliorare qualcosa? Provando e riprovando. Centocinquanta, duecento servizi al giorno, tutti i giorni, tutti uguali. Se non fai altro che lavorare qualcosa dovrà succedere per forza, questo pensava Moya mentre guardava il suo allievo e ne ammirava la dedizione, la maniacalità. Qualcosa infatti è successo. Ha superato il muro delle 400 vittorie sulla terra rossa. Prima di ieri, l’ultima volta che Rafa Nadal aveva perso una partita sulla terra rossa era stato durante i quarti di finale degli Internazionali d’Italia dell’anno scorso, contro l’austriaco Dominic Thiem, sempre lui. Era il 19 maggio, è passato quasi un anno. Da allora Nadal sulla sua superficie preferita non ha fatto altro che vincere, e la sconfitta di ieri sembra essere più un incidente di percorso che un segnale allarmante. L’anno scorso lui e Roger Federer si sono spartiti tutti i tornei più importanti della stagione, Australian Open e Wimbledon per lo svizzero, Roland Garros e US Open per lo spagnolo. Come ai vecchi tempi… [SEGUE]. In tutti questi mesi il numero uno al mondo non è mai stato sfiorato dal pensiero di poter perdere un set. Il 29 aprile, durante la finale del torneo di Barcellona, Rafa ha affrontato Stefanos Tsitsipas, giovane talento dalle belle speranze. È finita 6-2 6-1 in poco meno di un’ora. Qualcuno ha pensato che fosse normale e che un risultato del genere non significhi nulla. Il giocatore greco deve ancora crescere, farsi le ossa, imparare a stare in campo in mezzo ai grandi. Tutto vero, ma alla sua età Nadal vinceva già: era il numero due del mondo e nel circuito colleghi e giornalisti avevano cominciato a soprannominarlo “il Cannibale”. La vena pulsava già, faceva impressione, faceva paura. Poche settimane fa, dopo essersi preso la sua personale rivincita contro Thiem, il Cannibale, in conferenza stampa ha fatto come al solito i complimenti al suo avversario, poi però ha ammesso: “Non è possibile che io, alla mia età, riesca a vincere così facilmente contro uno dei migliori giocatori al mondo sulla terra rossa. Significa che c’è qualcosa che non va”. Thiem si è rifatto ieri, ma nel tennis maschile la rivoluzione dei giovani continua a essere rimandata… [SEGUE]. E senza Federer e Nadal? Che ne sarebbe del tennis senza di loro? Le uniche novità di questa stagione sono stati Juan Martin Del Potro a Indian Wells e John Isner a Miami, che finalmente hanno vinto qualcosa anche loro. A 29 e 33 anni. “In questo momento”, ha dichiarato Nadal pochi giorni fa “i più forti giocatori al mondo sono vecchi”. Chi lo stava ascoltando si è messo a ridere, lui però non voleva scherzare. “Non c’è proprio niente da ridere. Siamo vecchi sul serio”. L’anno scorso il ritorno suo e di Federer sono sembrati un miracolo, una ricompensa, il segno che il tempo, per fortuna, a volte si arrende, ti lascia giocare, ti lascia sperare. Se lo sono meritati. Quest’anno, però, il fatto che loro due continuino ad alternarsi ai primi due posti della classifica, dimostra che c’è un problema: il passato è ancora troppo grande per lasciare posto al futuro. Rafa Nadal, giustamente, se ne frega. Lui, la sua rivoluzione l’ha già fatta quindici anni fa quando si è mostrato al mondo regalando al tennis tutto quello che poteva offrirgli. I tic nervosi, ossessivi, i muscoli scolpiti e sproporzionati, lo stile di gioco arrotato, irregolare, nervoso; ogni colpo una sofferenza, ogni scambio una tortura; la voglia di prendere a morsi la pallina pur di non concedere il punto all’avversario, che fatica ogni volta, e che liberazione. Adesso giocherà agli Internazionali di Roma e non avrà nessun titolo da difendere. Gli era successo poche volte. La prima volta che ha vinto al Foro Italico aveva 19 anni, era il 2005. Sull’avambraccio sinistro una strisciolina di sangue gli spaccava il muscolo a metà. Oggi la vena è ancora lì, ferma al suo posto, non si è mai mossa.


Roma attende una rivincita da brividi. Potrebbero ritrovarsi nei quarti (Davide Stoppini, Gazzetta dello Sport)

Calma e sangue freddo, Rafa. Perché la rivincita contro Dominic Thiem è già in agenda. Basta pazientare (e vincere) fino a venerdì prossimo, quando Nadal in linea teorica dovrebbe affrontare di nuovo l’austriaco nel potenziale quarto di finale degli Internazionali d’Italia. Scherzi del sorteggio, andato in scena ieri pomeriggio sul Pietrangeli. Scherzi di Roma, che ne gioca uno mica da ridere pure a Fognini: Fabio, ieri osannato dai bambini (e non solo) nella sessione pomeridiana di allenamento proprio sul Centrale, non è stato fortunato, se è vero che la mano della bambina chiamata ad accoppiare i nomi nel tabellone gli ha messo davanti al primo turno Gael Monfils. Spettacolo assicurato, di sicuro non ci si annoierà. I precedenti sono 4-3 in favore del francese, ma i due non si incrociano dal 2015 e dal 2014 (Roland Garros) sulla terra, dove Fabio ha centrato due delle sue tre vittorie. E Gael, sconfitto in settimana a Madrid da Nadal, a Monaco la scorsa settimana ha perso al primo turno con il bosniaco Basic. Fognini-Monfils è il piatto forte di un primo turno che comunque non sarà banale: Wawrinka se la vedrà con Steve Johnson, Nishikori contro Feliciano Lopez, Shapovalov con Berdych e Djokovic con l’ucraino Dolgopolov. Occhio e Nole: testa di serie numero 11, è nella parte del tabellone che al terzo turno potrebbe portarlo di fronte a Long John Isner, nel settore che nel quarto di finale conduce a Dimitrov. Gli altri due quarti annunciati: Zverev-Del Potro e Cilic-Anderson. Attenti alle mine vaganti: Delpo pub incrociare al terzo turno David Goffin. Fognini a parte, tra le quattro wild card azzurre Sonego contro Mannarino, Matteo Berrettini aspetta un qualificato, Seppi affronta Pouille e Cecchinato studia Cuevas: «Sorteggio duro, l’ultima volta (a Mestre nel 2014, ndr) con lui ho perso al terzo set, spero di far meglio stavolta», ha detto l’azzurro… [SEGUE]. Tutto molto più leggibile in campo femminile, dove i quarti potenziali del tabellone sono Halep-Garcia, Muguruza-Ostapenko, Svitolina-Pliskova e Wozniacki contro Venus Williams. Fortunato il sorteggio per l’ultimo torneo della carriera di Roberta Vinci: la tennista pugliese giocherà contro una qualificata. E stessa sorte per Camilla Rosatello. Sara Errani affronterà per la quinta volta in carriera — la prima sulla terra, però — l’ungherese Timea Babos. Impegnativo l’incrocio per Francesca Schiavone, attesa dalla slovacca Cibulkova, sempre vincente nei quattro precedenti… [SEGUE].


Cara amica, non è triste dire addio (Federica Cocchi, SportWeek)

Quando ci si affeziona a qualcuno non lo si vorrebbe mai lasciare andare. Roberta Vinci ha deciso di dire basta col tennis da professionista. Basta con la vita da giramondo, gli allenamenti, i tornei. «Non immaginate quanto aspetti il giorno in cui non dovrò prendere in mano la racchetta» racconta la tarantina che, con gli Internazionali d’Italia, chiuderà ufficialmente la carriera. Una vita di successi tra doppio e singolare… [SEGUE]«A Roberta mi legano centinaia di ricordi» racconta la Pennetta, mamma da un anno del piccolo Federico, avuto con Fabio Fognini. Ci conosciamo da quando non avevamo nemmeno 10 anni, siamo cresciute insieme tennisticamente e no. Ricordo le domeniche in campo, le giornate al Centro regionale di Bari, i tre anni passati a dividere in tutto e per tutto la stessa stanza a Riano, il doppio come quello giocato all’Avvenire». Una carriera ricca di gioie per entrambe, allontanate per qualche anno tra i 18 e i 20 anni e poi ritrovate in Fed Cup per una straordinaria epopea azzurra: «Tutti ricordi stupendi», continua Flavia. «A San Diego, nella finale vinta contro gli Usa, ci siamo divertite davvero tanto. Risate incontenibili. Abbiamo massacrato la povera Sara Errani che era la più piccola del gruppo. L’abbiamo messa al buio in una stanza, legata a una sedia. Non stava zitta mai! Continuava a chiedere il perché delle cose, voleva che le si spiegasse tutto. Ma quanto ci siamo divertite… vittorie e risate, potevamo chiedere di meglio?». Forse una finale del Grande Slam, la famosa chiusura del cerchio ancora scolpita nella memoria della Pennetta: «A New York è stato pazzesco ritrovarci in finale, mai l’avremmo immaginato quando dividevamo quella stanza da bambine. Di quella giornata ricordo quando eravamo nel ristorante dei giocatori. Eravamo soltanto io e lei: io in un tavolo col mio team, lei in un altro col suo e poi, un po’ più in là, Boris Becker. A un certo punto sono andata a prendere un caffè e ho chiesto a Roberta e Francesco Cinà, il suo allenatore di allora, se ne volessero uno. Ho portato il caffè e abbiamo chiacchierato, ci siamo fatti anche una bellissima foto insieme. Il tutto davanti allo sguardo scioccato di Becker che non si capacitava di come due rivali in una finale Slam potessero prendersi un caffè insieme a poche ore dalla partita». Ma se il passato è ricco di ricordi, il futuro può riservare gioie ancora più grandi, come dimostra Flavia con la sua nuova vita da mamma: «Robi, posso solo augurarti di goderti questa nuova tappa. Troverai piacere nelle cose semplici di ogni giorno. So che il tuo sogno in futuro è quello di crearti una famiglia e ti auguro il meglio anche in questo. Il tempo passa ma io e te resteremo sempre quelle due ragazzine che giocavano a tennis al circolo. Ti voglio bene Robi!». La “leonessa” Francesca Schiavone è sempre stata la leader del gruppo, una guerriera che, amalgamata alle altre, ha creato la miscela esplosiva dell’Italdonne dei trionfi. Anche in questo caso una conoscenza da adolescenti, o poco più: «Ci siamo conosciute a Roma, all’Acqua Acetosa, nel 1998: lei 15 anni, io 18. Restavo stupita del fatto che in campo, mentre noi facevamo una fatica cane e uscivamo sfatte, lei era sempre con la maglietta asciutta, pettinata e meno affaticata di tutte noi. E l’allenamento era il medesimo! Questo si spiega in un solo modo: col talento». Anche Francesca, vincitrice del Roland Garros 2010, racconta del carattere di Roberta: «Da ragazzina la vedevo timida e riservata. Oggi che la conosco bene, ripensandoci, posso dire invece che è molto selettiva: se le piaci si esprime, parla e ti fa morir dal ridere, ma se non le vai a genio… beh, un saluto di cortesia e ti dimentica». È una Vinci `donna squadra” quella dipinta dalla Schiavone: «Ho ben chiaro quanto sia stata la bilancia del nostro gruppo. Attraverso la sua semplicità, la costanza, la presenza e l’umiltà riusciva sempre a lasciare il segno. Si può dire che ci ha insegnato a stare nelle retrovie per poi arrivare e incidere». Il segno l’hanno lasciato eccome, queste ragazze vincenti: «La gioia più grande e stata la vittoria di Charleroi sul Belgio nel 2006. Io e Roberta abbiamo giocato il doppio decisiva, confidavo totalmente in noi. Quel “noi” che avevamo costruito con tutte le ragazze ma anche sudato e goduto in campo durante quel doppio che ci fece alzare per la prima volta il trofeo della Fed Cup. Un trionfo che ha fuso i nostri nomi insieme per sempre». Un’amicizia che va oltre il campo: tutte insieme sono andate al matrimonio di Flavia e Fabio Fognini a Ostuni due anni fa, una rimpatriata che sapeva di amicizia e condivisione… [SEGUE]. «Robi, qualunque cosa farai dopo il tennis, ti auguro il sorriso, la gioia di vivere e quel senso di leggerezza che ti ha sempre contraddistinta. Non ti vedo più come una bimba, oggi sei una donna ed è arrivato il momento di godersi la vita. Ciao compagna!». Sara Errani e Roberta hanno vinto tutto in doppio, in Fed Cup come sul circuito: «Ricordi? Ne ho talmente tanti che è difficile sceglierne uno. Dovrei pensarci troppo». E allora tocca a Tathiana Garbin, ora capitana di Fed Cup, salutare la Vinci che, chissà, un giorno potrebbe affiancarla nel team azzurro: «Robi mi ha colpita subito per l’eleganza e la classe che ha portato in campo. È perfetta per fare squadra. Molto altruista, sa come integrarsi nel gruppo. Ricordo sfide infinite a burraco, scherzi e tanti gavettoni una volta terminate le partite. Finiva sempre così, ci siamo divertite molto. Quando hanno vinto la Fed Cup non facevo parte della squadra ma sono andata a fare il tifo e festeggiare la prima di una lunga serie di vittorie che hanno portato in alto il nome del tennis azzurro. Ora non bisogna aver paura del futuro, perché è ancora meglio. La vera vittoria è il percorso che hai intrapreso durante questa fase della vita. Giocare a tennis è una meravigliosa parentesi che ti porti dietro per sempre, e tu Robi hai sempre giocato divertendoti. Ora che smetti, puoi semplicemente divertirti, te lo sei meritato».


Prove di pace (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport Roma)

Camila Giorgi riparte da Roma. Dalle qualificazioni del torneo WTA del Foro, che dopo qualche ripensamento ha deciso di giocare e dove oggi incontra Deborah Chiesa. Un match, quello fra la migliore italiana in classifica (n. 56) e l’azzurra emergente, simbolo insieme a Jasmine Paolini del nuovo corso di Fed Cup, che ha molti sapori, visto il dissidio che da tempo divide Camila, il suo entourage, e la Federazione. Ma che potrebbe, chissà, essere l’inizio di un nuovo rapporto, forse della soluzione di una faida prolungata che non fa bene a nessun e al ritorno di Camila in Fed Cup dopo il gran rifiuto di due anni fa. Sempre che prevalga il buonsenso. Nello scorso settembre era stata ribadita la squalifica di 9 mesi e la multa di 30.000 euro, gli avvocati di parte Giorgi hanno preannunciato il ricorso al Tar del Lazio. A gennaio c’era stato un riavvicinamento, poi di nuovo un dietrofront. Che questa sia la volta buona? «Camila ha deciso di giocare qui perché Roma è un torneo fantastico, organizzato benissimo, in una città meravigliosa», spiega con toni distensivi Sergio Giorgi, il papà coach. «Come vanno le cose con la Federazione? Vedremo. Qualcosa succederà, secondo me. Qualcosa di positivo». Per ora l’attenzione è tutta sul campo… [SEGUE]. Vittorie “nobili”, seguite da sconfitte evitabili: refrain di una carriera. «Ma le sconfitte a volte servono più delle vittorie», dice papà Sergio. «Ti aiutano a lavorare sulle cose che non vanno, per continuare a migliorarsi. Negli ultimi tempi ci siamo concentrati sul movimento di gambe, che è la forza di Camila, per fare in modo che in campo sia in grado di spingere sempre nella maniera giusta». Da quando si è affacciata nel circuito l’obiettivo di Camila, del suo tennis “sovranista” che bada solo alla propria metà del campo senza preoccuparsi di chi c’è nell’altra, è stato il vertice assoluto, l’ingresso nelle top-ten, se possibile anche qualcosa di più. Ambizioni giustificate da un tennis letteralmente inarginabile nelle giornate di vena, ma troppo poco continua. A 26 anni e mezzo, con un best ranking (n. 30) che ormai risale a tre anni fa, è tempo di concretezza. A Roma Camila non ha mai brillato, ma c’è sempre una prima volta… [SEGUE].


Dal Texas ma col cuore azzurro: “Ora la Davis con l’Italia” (Davide Stoppini, Gazzetta dello Sport)

Liam ha un accento che poco va d’accordo con la sua carta d’identità. «In questi giorni sono migliorato, parlo quasi sempre in italiano. Ma la verità è che penso in inglese, quindi ci metto un po’». Non ci ha messo niente, invece, per strizzare l’occhio al Foro Italico. Liam è Caruana, 20 anni, la faccia del tennis di domani che bussa per chiedere spazio Cuore italiano, testa statunitense: il mix è già andato in scena nel torneo di prequali, oggi scenderà in campo per le qualificazioni, sognando un posto nel main draw degli Internazionali d’Italia. Vittoria o no, c’è chi comunque ha già puntato su di lui. È infatti uno dei testimonial Diadora, azienda italiana che proprio ieri allo stand Gazzetta del Foro Italico ha raccontato – alla presenza del presidente Enrico Moretti Polegato – il suo ritorno in grande stile nel mondo del tennis. Caruana dopo Borg, Becker, Kuerten… Insomma, l’abbinamento è quantomeno beneaugurante. Liam ha una storia curiosa ma è bene partire dalla fine: «Sono italiano, non ho dubbi: sogno un giorno di giocare in Coppa Davis per difendere i colori azzurri». Tanto per chiarire che il passato non si dimentica. Liam, insieme a papà Massimo e alla sua famiglia, dopo essere nato a Roma il 22 gennaio 1998, ha vissuto a Nepi, paese in provincia di Viterbo: «Ma poi a sei anni mi sono trasferito negli Stati Uniti, in California, a San Diego». E lì sboccia il Liam tennista: «In Italia non avevo mai toccato una racchetta, in California invece iniziai per gioco, due volte alla settimana —racconta —. Poi ho cominciato a fare sul serio, pian piano ho capito che sarebbe potuto diventare il mio sport. Mio padre è stato a lungo il mio coach, prima di fare un passo indietro. Una volta trasferita tutta la famiglia in Texas, mi sono iscritto alla John Newcombe Academy. E ora vivo ad Austin: ecco, tennisticamente mi sento statunitense, non ho mai avuto riferimenti diversi. Ma il mio carattere è italiano, il mio cuore è qui: per farvi capire, i miei cibi preferiti sono la pasta e la pizza: in questi giorni ho mangiato un bel po’…»… [SEGUE]. A gennaio, ad Auckland, ha giocato il suo primo torneo ATP. Il 2018 deve essere l’anno della svolta: «Mi sono messo in testa di arrivare nei top 200 entro l’anno» racconta Caruana, oggi numero 419 ATP… [SEGUE]. E il resto lo fa lo spirito d’imitazione. «Il tennista da cui cerco di rubare ogni piccolo segreto è David Goffin. Il mio gioco è simile al suo: non è molto alto, un ottimo rovescio, spinge con il dritto. Ecco, ora devo lavorare sul servizio per prendere punti gratis. Ma qui a Roma vincerà Nadal, sulla terra è troppo forte». Forte come suo papà Massimo: «È la miglior persona possibile nei momenti difficili, mi dà consigli di tennis e di vita». E laggiù, in fondo alla via, chissà cosa c’è: «Vorrei semplicemente un giorno voltarmi indietro e pensare: bravo Liam, hai fatto il massimo, non avere rimpianti, sei stato il miglior tennista che potevi essere». E allora buona fortuna.

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