Il nuovo Djokovic: “Che bello vincere e sentirmi gridare papà in tribuna” (Gaia Piccardi, Corriere della sera)
«Scusatemi, arrivo tra cinque minuti: ho bisogno di questo abbraccio…». Un uomo magro e un bambino biondo, stretti stretti in un angolo del circolo, interrompono il serrato cerimoniale dell’All England Club. Salutati William e Kate («come stanno i vostri figli?»; «bene però il piccolo George preferisce il calcio al tennis» risponde il principe), espletato il rito dell’ostensione della coppa dal balcone nobile, il protocollo impone l’intervista del re di Wimbledon con la Bbc, le foto con i maggiorenti del luogo, la conferenza stampa, ricchi premi (2.250.000 sterline di premio), cotillons e il ballo dei vincitori, in papillon, brillantina e sorrisi cartonati. Ma Novak Djokovic, ora, ha da fare. Ha in braccio Stefan, quattro anni, l’erede cui dedicare la quarta coppa di Wimbledon della carriera (13° Slam), simbolo di una rinascita dolcissima e insperata: «È la prima volta che vinco con qualcuno che grida papà dalla tribuna. Voglio godermi questo momento». Il nuovo Djoker non lascia scampo allo struzzo Kevin Anderson, drenato di energie da 21 ore in campo in due settimane (4 ore e 14′ con Federer, 6 ore e 36′ con Isner), con le vesciche sotto i piedi e gli antidolorifici in corpo, stanco e semplicemente inferiore al rivale in una finale priva di contenuti e di tensione emotiva, incerta solo se allungarsi al quarto set quando il serbo in vista del traguardo si rilassa e concede cinque set point di cui il sudafricano non sa approfittare, aprendo il varco a un tie break a senso unico (6-2, 6-2, 7-6). Dopo due anni di digiuno (Roland Garros 2016), così, Djokovic esce dai tornanti e torna ad annettersi un Major in quell’eterna rincorsa ingaggiata con i due immortali, Federer (20 Slam) e Nadal (17 Slam), battuto in una semifinale epica spalmata su due giorni. Il Djoker è il terzo incomodo che per età (31 anni) e caratteristiche può addirittura sperare di superarli: «Ora nel mirino ho Pete Sampras, il mio idolo dell’infanzia, a quota 14» dice l’epigono e non è colpa sua se arriva sempre in ritardo, col fiatone, anche far apparire Stefan nel players box dopo il match point con Anderson sembra una citazione di Roger Federer, che convocò le gemelle sul centrale l’anno scorso, giusto in tempo perché lo vedessero sollevare il trofeo vinto con Cilic. Originalità a parte, il ritorno di Djokovic è una buona notizia per un tennis in eterna attesa dei Next Gen che non sbocciano mai, a gennaio perdeva da Chung in Australia, a giugno da Cecchinato a Parigi, è entrato nei Championships come testa di serie numero 12 e ne esce top10 (numero dieci da oggi), di nuovo abile e arruolato. Per spiegare un’assenza lunga e clamorosa si è parlato di crisi personali e famigliari, di disordini alimentari e mancanza di motivazioni, una matassa presto sfociata in una confusione tecnica che né Agassi né Stepanek sono stati capaci di dipanare, l’infortunio al gomito l’ha tenuto fuori sei mesi, che significa ricominciare (quasi) da capo: «È stato un lungo e tortuoso viaggio — racconta con gli occhi lucidi —. Una parte di me non ha mai messo in forse il mio talento, ma un’altra ha dubitato eccome. Sono tornato a giocare con il dolore, mi sono operato, sono ripartito dalle basi, facendo i cesti. A Londra, in queste due settimane, ho recuperato tutto insieme… [SEGUE].
Nole il tennista ha prevalso sull’attore (Gianni Clerici, Repubblica)
“E adesso cosa ne dice, Clerici, di Novak Djokovic?”. Mi ha chiesto uno dei miei consoci, che aveva osservato con me la partita, senza commentarla, nella sala del club. “Dico che la fanale non è stata la partita più difficile, è durata, in realtà, un solo set, il terzo”. “Gliene ricorda un’altra, lei che ha visto più di sessanta finali?”. “Difficile, con la mia povera memoria. Ma forse sì. C’è stato un altro Kevin, per di più sudafricano, Curren, che aveva massacrato Connors nel 1985, arrivando dal nulla, un po’ come Anderson. È andato in finale, ma il giovane Becker lo ha rimesso al posto suo, che non era la finale di Wimbledon”. “Ma questa volta c’erano altri elementi, che riguardavano il vincitore, Nole Djokovic”. “Li ho sentiti anch’io, ho sentito la conferenza stampa di Parigi, prima di quella felice di Wimbledon, con il bambino Stefan in braccio, e la moglie Jelena in lacrime di gioia”. “A Parigi Djokovic aveva detto di non essere sicuro di continuare la sua carriera sportiva, né di giocare a Wimbledon”. “Certo, lo ricordo. E sa che cosa mi è venuto in mente? La volta che Fiorello mi disse che se Djokovic non fosse stato tennista, sarebbe stato un attore, ma un grande attore, già dal giorno seguente. Avevano infatti improvvisato un dialogo, e ne ricordo un altro, l’unico che ebbi con Nole di fronte a una telecamera della BBC, nel quale ebbe a dirmi che avrei preso il Nobel, se avessi seguito la sua dieta”. “Che attore le ha fatto venire in mente?”. “Un grande attore italiano, non ne voglio ricordare il nome. Uno che passava il capodanno a casa della moglie, e, scoccata la mezzanotte, usciva di fretta per far gli auguri a un’altra donna”. “È così simile a Djokovic?”. “Non so, e non credo. È perché, nel caso degli attori, c’è spesso confusione tra la vita reale, e quella del personaggio di sé stesso”. “Ma in questo caso Nole, dal 5-6, nel terzo, avrebbe mancato il match, avrebbe riammesso Anderson alla partita, avrebbe perso il tiebreak che invece ha dominato, 7-3”. “Ha prevalso il giocatore sull’attore”. “Ne sono stato felice per lui. Ha tempo, ha un altro paio di Wimbledon, per confermare Fiorello”.
Djokovic 2 il ritorno (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Ha attraversato i suoi tormenti, sussultando come un gozzo fra i marosi. Li ha osservati da vicino e non si è tirato indietro. Li ha affrontati con coraggio e ha rischiato sin troppe volte di perdere la presa che lo teneva a galla, e di affondare. È stato costretto a porsi domande che lo ferivano nel profondo, perché lui è fatto di orgoglio smisurato, e non si è mai sentito secondo a nessuno. Né a Nadal. Né a Federer… Si è chiesto se il suo tennis di vertice si fosse ormai irrimediabilmente sbriciolato, e non ha trovato le risposte rassicuranti che cercava. «Ho vissuto di dubbi, e mi sono chiesto mille volte se sarei tornato a vincere. Ma ho imparato ad avere pazienza». Il nuovo Djokovic vince per il figlio, dice. Il piccolo Stefan voleva vedere il padre alzare una coppa, e ora, gli sta stretto al collo e non lo vuole lasciare. Ha cambiato, ha tentato di ricostruire l’assetto del suo gioco, ripartendo da ciò che gli dava maggiore sicurezza. Ha allontanato prima Becker, poi Stepanek. Ha richiamato Vajda, l’amico, il primo coach, la sua famiglia. Un modo per tornare alle origini. Ma il malessere non aveva il suo centro nella racchetta, piuttosto là in alto, fra i pensieri, le certezze, le abitudini familiari. Novak Djokovic si è spaventato quando ha capito che doveva ricostruirsi del tutto, pezzo a pezzo, oltre il suo stesso tennis. Ma ne ha preso atto. E il ritorno alla vittoria in uno Slam, celebra la sua vittoria su se stesso. Il trofeo vinto, il tredicesimo Major della serie, il quarto ai Championships sono i simboli di un successo più grande. Un mese fa al Roland Garros, Djokovic franava contro Marco Cecchinato. Su una cappellata di quelle rovinose, con la palla sbatacchiata in rete dalla più facile delle posizioni, si era rivolto al pubblico pregando di non fischiarlo. L’italiano lo soffocava con il palleggio, distribuiva i colpi meglio di lui, e di quando in quando mollava ceffoni tennistici tali da riportare il Djoker indietro di mesi. Al termine del match, Nole disse che forse non avrebbe giocato Wimbledon. «Sono frasi che si dicono nei momenti peggiori. Vedevo tutto nero». Ha scelto di andare al Queen’s, un torneo con poco stress. Gli è servita giunto in finale e l’ha persa, ma ha ritrovato quel pizzico di entusiasmo. Wimbledon, con un sorteggio che neanche le prime due teste di serie potevano augurarsi migliore, ha fatto il resto. Nole ha dovuto affrontare un solo, vero avversario, Rafa Nadal, e lo ha battuto in due spezzoni di partita che lo spagnolo ha complessivamente giocato meglio di lui, senza però riuscire a tramutare in punti le opportunità che via via prendevano forma. La finale con Anderson è corsa via come acqua fresca. Il sudafricano aveva una spalla malconcia per i troppi game giocati contro Federer e Isner, e anche se nel terzo ha avuto cinque palle set per andare al quarto, l’indirizzo del match non è mai stato posto in seria discussione. Nole batte Nole, dunque. E forse è esatto ipotizzare che un nuovo Nole abbia cancellato del tutto il suo vecchio “io”. Ma il vecchio Nole, almeno per quattro stagioni, dal 2012 a metà 2016 era stato fortissimo, inavvicinabile. Il problema è se questo Nole sarà altrettanto forte. Se riuscirà a tappare la bocca alla concorrenza come l’altro Nole era riuscito a fare. L’impressione è che nel cambiamento dei colpi e degli schemi di gioco, qualcosa abbia perso. Il Nole di oggi è uno splendido “fondocampista”; aggressivo per l’energia che sa veicolare nei colpi, ma non più per le traiettorie che sceglie… [SEGUE].
Il ritorno di Djokovic (Stefano Semeraro, Stampa)
La ricostruzione di un campione è una faccenda lunga, complicata e incerta, fatta di molti giorni e poche certezze, ma a volte ripaga del dolore. «Ho dovuto credere in me stesso, e imparare ad essere paziente», dice Novak Djokovic stringendo al petto la coppa dorata di Wimbledon, la quarta che si porta a casa dopo quelle del 2011 (contro Nadal), del 2014 e 2015 (contro Federer), mentre il piccolo Stefan, 3 anni, si sgola in braccio a mamma Jelena intenerendo William, Kate e Theresa May stremata dai tête-à-tête con Donald Trump. Stavolta dopo la due giorni di tremore e sudore contro Nadal gli è bastato tenere al guinzaglio il gigante buono Kevin Anderson, il finalista più alto della storia sul Centre Court (203 cm), in una delle finali più incolori di sempre, 6-2 6-2 7-6 in due ore e 19 minuti. Il caldo – 28° gradi e non una nuvola in cielo – ha sicuramente contribuito a smosciare lo spettacolo, sommandosi alle fatiche pregresse dei due. Una spettatrice è persino svenuta in tribuna: forse pensando a quanto aveva pagato il biglietto; a Novak invece è andata benissimo così. Un mesetto fa, dopo essersi fatto sverniciare da Cecchinato nei quarti del Roland Garros, neanche lui pensava di azzeccare due settimane del genere sull’erba. Negli ultimi 15 mesi ha dovuto affrontare avversari più tosti persino di Nadal: il male cronico al gomito che a febbraio l’ha costretto ad una operazione, i dubbi della riabilitazione, il sospetto di non essere più lo stesso Djokovic. «In Australia ero rientrato ma sentivo ancora dolore, volevo evitare l’operazione e invece ho dovuto rassegnarmi. Poi sono voluto tornare in campo troppo in fretta: colpa mia, sei mesi fuori dal tennis mi erano sembrati eterni. Così ho dovuto ricominciare dalle basi». Allenamenti, tornei, sconfitte. «Ancora a Parigi sentivo di non essere all’altezza dei più forti, dei grandi tornei, perché non riuscivo a giocare al meglio i punti importanti». Cosa che invece gli è riuscita alla perfezione qui, dopo una decina di giorni di crescita costante, a fari spenti, mentre tutti già davano per acquisita una finale fra Federer e Nadal. Lo si è visto da come ha annullato le cinque palle break del quinto set contro Nadal in semifinale («il test più importante»), da come ieri ha smontato il progettino di rimonta di Anderson, cancellandogli cinque set point nel terzo set. «Ho giocato bene quei punti, e poi un tie-break perfetto», spiega, raccontando di come nel puzzle della resurrezione siano compresi il cambio di racchetta, l’adattamento ad un nuovo tipo di tennis, il ritorno a suo fianco del coach storico Marian Vajda, liquidato con troppa fretta un anno fa per far posto alla terapia degli abbracci del guru Pepe Imaz (che fine ha fatto?) e alla sapienza intermittente di Andre Agassi. Magari c’entra anche una dieta meno rigida, chissà; di sicuro la serenità familiare ritrovata, dopo qualche tempesta, ed esibita al mondo nell’abbraccio con Jelena e Stefan negli spogliatoi… [SEGUE].
Djokovic re d’Inghilterra (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)
Meno di un mese fa, battuto a sorpresa dal nostro “semisconosciuto” Cecchinato al Roland Garros, un Novak Djokovic con il morale sotto le scarpe aveva dichiarato: «Non so se andrò in Inghilterra a giocare sull’erba». Non bisognerebbe mai andare in conferenza stampa cinque minuti dopo un ko particolarmente doloroso. Qualche notte ha portato consiglio e Djokovic ha cambiato idea. È andato al Queen’s dove ha capito, pur perdendo la finale con Cilic, dopo aver avuto un matchpoint, d’essere sulla strada giusta, quella lasciata 16 mesi prima, che aveva avuto paura di non ritrovare più, soprattutto quando era stato costretto ad operarsi al gomito e non aveva più potuto giocare per sei mesi. Djokovic sarà stato certo contento di averci ripensato. Giunto alla finale di Slam n.22, con un record in quelle finali di 12 vittorie e 9 sconfitte, ha battuto lo stanco maratoneta sudafricano Anderson 62 62 76 (7-3) reduce da un 13-11 e da un 26-24 al quinto set con Federer e Isner, soffrendo solo nel terzo set quando Anderson ha avuto 5 setpoint, due sul 5-4 e tre sul 6-5, ma sempre sul servizio di Djokovic che, in quelle occasioni, ha però servito benissimo. Così, dopo un tiebreak tutto in vantaggio, 3-1 il primo minibreak e 5-1 il secondo, Djokovic ha potuto celebrare in estasi il suo Slam n.13 e il trionfo n.4 in cinque finali nel tempio del tennis. «Il mio idolo da ragazzino era Sampras, che ha vinto 14 Slam, ora me ne manca solo uno…». Ad aver vinto almeno 4 Wimbledon sono stati Laver (4), Borg (6), Sampras (7), Federer (8). Per i primi due set conclusi in 72 minuti, non c’è stata partita. Anderson non sembrava quasi in condizioni di correre, aveva male alla spalla, non serviva neppure come al solito, ha anche dovuto far ricorso al fisioterapista. Ma mentre in tribuna stampa ci si preoccupava di rintracciare la finale più a senso unico del tennis open (McEnroe b. Connors 61 61 62, 1984) l’orgoglioso Anderson reagiva con le ultime stille d’energia e offriva finalmente le emozioni che auspicava anche un Royal Box fitto di vip, dal premier Theresa May al principe William con Kate, poi il sindaco di Londra Sadiq Khan, gli ex campioni Borg, Santana, Smith, Edberg, Evert, Kodes, Newcombe. Ma Novak era felice soprattutto per la presenza del piccolo Stefan, 5 anni: «Sentirlo gridare “Daddy daddy” è stata la più bella emozione, era la prima volta che veniva nel players box… È stata la più grossa emozione!».