L'isola che ora c'è

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L’isola che ora c’è

La grande onda ha sommerso New York: per la prima volta nella sua storia il Giappone porta due semifinalisti in uno Slam. Ma quanto c’è di statunitense nei successi di Osaka e Nishikori?

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Avete mai provato a digitare su Google la stringa ‘Giappone Stati Uniti’? Non tira una bellissima aria: il primo risultato privo di riferimenti alla Guerra del Pacifico è appena il settimo. Si tratta della curiosa offerta di un portale di viaggi che promette al turista che abbia a disposizione circa 7000 euro un itinerario di 22 giorni, che partendo da Tokyo e passando per le isole Fiji conduce fino in California. Coloro i quali dovessero avventurarsi nella seconda pagina dei risultati di Google, un territorio ormai inesplorato poiché la modernità impone che se non esisti in prima pagina praticamente non esisti, si ritroverebbero a tagliare la tensione a fette. I segreti dell’attacco di Pearl Harbor, gli attuali rapporti diplomatici tra i due paesi un po’ buoni un po’ no, persino delle dietrologie su Roosevelt. Giappone e Stati Uniti ci hanno messo un po’ per instaurare un dialogo costruttivo, così profondamente diversi per storia e cultura.

Insomma, non avessero inventato lo sport sarebbe stato terrorizzante leggere di un’invasione giapponese negli Stati Uniti. Invece l’irruzione di Kei Nishikori e Naomi Osaka in quel di Flushing Meadows è squisitamente pacifica e sportiva: è la prima volta che due tennisti giapponesi si qualificano per le semifinali di uno Slam, un risultato che migliora la doppietta ai quarti di Wimbledon 1995 (Kimiko Date e Shuzo Matsuoka).

Prima di questa, l’ultima edizione dello US Open con due semifinalisti dello stesso paese – ma non statunitensi – era stata quella del 2015, che al maschile aveva visto affrontarsi Wawrinka e Federer per un posto in finale e al femminile… vabbè, lo ricordate tutti. Fu invece la Russia nel 2010, con Zvonareva e Youzhny, l’ultima nazione ospite capace di portare un uomo e una donna in semifinale a New York. I russi ci erano riusciti anche nel 2007 (Davydenko + semifinale Kuznetsova-Chakvetadze) e nel 2006 (Sharapova vincitrice + semifinale Davydenko-Youzhny), mentre prima ancora era toccato ai tedeschi nel 1995, ça va sans dire grazie a Becker (semifinalista) e Graff (vincitrice). Oggi l’eredità delle ‘invasioni tennistiche’ in terra statunitense viene raccolta dai giapponesi, ma c’è di più. Nishikori e Osaka sono nati sì in Giappone, ma se oggi possono giocarsi l’accesso a una finale Slam è in larga parte grazie agli Stati Uniti.

La storia di Kei è ben nota. Si è trasferito in Florida per frequentare l’accademia di Nick Bollettieri grazie a una borsa di studio vinta a 14 anni, è diventato professionista nel 2007 (a diciott’anni) e nel 2008 ha cominciato a lavorare con il suo attuale allenatore, Dante Bottini, un membro dell’Elite Group di coach in seno al tennistificio di Bollettieri. Era già molto forte quando è arrivato negli Stati Uniti, ma a Bradenton è diventato il tennista che conosciamo oggi e Nick non ha mai fatto mistero di considerarlo uno dei suoi allievi migliori, per attitudine forse il migliore. Naomi Osaka invece è nata a Osaka, si è trasferita a New York a soli tre anni e cinque anni più tardi si è spostata anche lei in Florida, dove ha cominciato a giocare e tuttora risiede e si allena. Kei ha sfruttato la grande opportunità negli Stati Uniti per perfezionarsi, Naomi invece può definirsi giapponese quasi soltanto per la carta d’identità.

Se infatti Kei parla fluentemente la lingua del suo paese natale, nel quale è uno degli sportivi più popolari di sempre, Naomi fatica a mettere in fila dieci parole. Dopo essersi negata tante volte negli ultimi mesi, ci ha riprovato ieri in conferenza stampa dopo il successo su Lesia Tsurenko: ha risposto come di consueto in inglese alle prime domande dei giornalisti giapponesi, poi si è fatta coraggio e ha provato a rispondere nella stessa lingua. Risultato? È crollata dopo neanche trenta secondi, tornando tra le comode braccia dei più familiari suoni anglofoni.

Buffa, come in ogni sua esternazione. Multietnica, a parziale giustificazione del suo giapponese stentato, come aveva rimarcato pochi minuti prima: “Mio papà è di Haiti, così sono cresciuta a New York in un ambiente ‘haitiano’. Mia mamma è giapponese, quindi sono cresciuta anche a contatto con la cultura giapponese. Ovviamente avendo vissuto in America c’è una parte di cultura statunitense”. A volte Naomi sembra vivere con un certo imbarazzo il suo rapporto poco profondo con la cultura giapponese, a volte semplicemente sembra il personaggio di un videogame, peraltro uno dei suoi passatempi preferiti, che saltella da un pensiero all’altro senza alcuna volontà di dissimulazione. “Quando vado in Giappone tutto è splendido: ogni giorno vai fuori e mangi dell’ottimo cibo. Non vedo davvero l’ora di tornare a Tokyo (è la sua città preferita, ndr). Quando sono lì non mi sembra di essere a casa, piuttosto mi sento all’interno di una bellissima vacanza che non voglio finisca mai“. 

Proprio la passione per i videogame, forse più dell’identità culturale che come abbiamo visto i due non condividono, unisce Naomi al suo connazionale Kei. “Sì, ma ci piacciono giochi diversi. Magari in futuro giocheremo assieme, dovremo parlarne” ha detto il n.19 delle classifiche ATP, già sicuro di essere almeno n.12 lunedì prossimo. Decisamente meno teatrale nelle esternazioni, più ‘giapponese’ nel modo di porsi con la stampa, Nishikori si è detto contento che il tennis sia assurto al grado di notizia di primo piano nel suo paese.

Naomi ha svelato di aver cominciato a parlare con Kei solo di recente, e nascondendosi dietro un velo di umiltà si è detta convinta che il fermento dei cronisti giapponesi sia da attribuirsi prevalentemente a lui. “Sì, è per via di Kei” assicura mimando con la mano la popolarità del suo connazionale, più grande della sua. Quindi il divertente scambio di opinioni reciproche. “È una delle persone migliori che abbia conosciuto. Non so come descriverlo, è come un ‘big kid’” dice Naomi, volendo intendere l’accezione positiva dell’espressione. Informato di questa definizione, Kei non ha potuto che allinearsi: “Sembra più matura, più grande della sua età, ma quando parliamo anche lei sembra una ragazzina.

Il Giappone che tenterà di portare il primo Slam in patria ha gli occhi vispi e apparentemente incapaci di menzogna di Naomi Osaka e quelli mansueti ma combattivi di Kei Nishikori, che una finale qui l’ha già giocata. Eliminando Cilic si è vendicato proprio di colui che l’aveva sconfitto quattro anni fa a un passo dal sogno, e adesso proverà a ripetere un’impresa che gli è riuscita solo due volte, una delle quali proprio qui a New York: battere Novak Djokovic, il campione che pratica un tennis simile al suo ma ad un livello superiore. “Sono sempre contento di giocare contro Novak, è una grande sfida per me“. Sebbene le quattordici batoste – tredici delle quali consecutive – lascerebbero ipotizzare il contrario. Anche Osaka dovrà invertire la tendenza che la vede sempre sconfitta con Madison Keys, affrontata senza successo in due occasioni. “Se giochiamo in modo simile? Dipende. A volte io impazzisco un po’ e comincio a colpire tutto, quando invece dovrei provare a essere più solida. Credo comunque che lei sia più potente di me. Entrambe abbiamo un gran servizio, dritto e rovescio molto buoni. Sì, penso che la gente consideri simili i nostri stili di gioco“.

È solo parzialmente d’accordo Sascha Bajin, forse il principale artefice dei piccoli smussamenti che il gioco pirotecnico di Naomi Osaka ha subito fino a diventare compatibile con le vittorie. “Madison ha giocato partite di questo tipo più volte, credo sia questa l’unica differenza. Per il resto sono molto simili“. Allo stesso tempo, il coach della giapponese è convinto che la sua allieva abbia una naturale predisposizione per i grandi palcoscenici. “Gioca meglio lì che sugli altri campi, questo rende il mio lavoro più semplice. Naomi ha certamente più chance di Kei di centrare la finale, ma anche in caso di doppia sconfitta sarà difficile cambiare il motivo cromatico sulla copertina di questo Slam: un rettangolo bianco con al centro un cerchio colorato di rosso.

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