Fognini, l'obiettivo è vicino: entrare nei primi 10 (Crivelli). Divertente, tecnico e a tratti profetico. Il tennis visto da Panatta (Schiavon). Naomi Osaka Grande Slam (Santelli)

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Fognini, l’obiettivo è vicino: entrare nei primi 10 (Crivelli). Divertente, tecnico e a tratti profetico. Il tennis visto da Panatta (Schiavon). Naomi Osaka Grande Slam (Santelli)

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Fognini, l’obiettivo è vicino: entrare nei primi 10 (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Unico. In fondo Fabio Fognini è sempre stato così: unico per il talento indubitabile, unico per la capacità di passare da momenti di disperazione ad altri di esaltazione tecnica, unico per la sincerità di volerci sempre mettere la faccia. E così quando Armani si è trovato a decidere a quale tennista affiancare il proprio nome per lo storico debutto nell’outfit tennistico, la scelta è caduta sul numero uno italiano, che sarà così il solo giocatore del circuito a indossare la linea sportiva EA7 a partire dal 7 gennaio, quando prenderà il via il torneo di Auckland e Fabio comincerà la propria stagione. AMBASCIATORE Il ligure e il grande stilista piacentino si erano conosciuti personalmente nel 2014 quando Fognini partecipò alla settimana della moda di Milano indossando capi della Maison: adesso diventa ambasciatore globale del marchio, non solo per l’abbigliamento di gioco ma anche per l’underwear. Il primo comprenderà due completi con tshirt e shorts nei colori verde sfumato grigio, grigio con grafica, e un completo con polo e shorts bluette, tutti con tecnologia Ventus7, un innovativo sistema di regolazione della temperatura corporea. A completare il look polsini, fascia, cappellini, calze e felpe. Nell’accordo è prevista anche una collaborazione con il marchio della moglie di Fabio, Flavia Pennetta. CHE ANNO Una sinergia tra due eccellenze tricolori, che non a caso arriva a premiare la miglior stagione in carriera di Fabio, capace nel 2018 di vincere un numero record (per lui) di 46 partite (con 22 sconfitte), di imporsi in tre tornei, sulla terra di San Paolo e Bastad e sul cemento di Los Cabos, primo successo in carriera su una superficie veloce, e di sfiorare la qualificazione al Masters. In classifica ha chiuso l’anno al numero 13, eguagliando il suo miglior ranking di sempre, ottenuto già nel 2014. Evitato l’intervento chirurgico alla caviglia sinistra dopo i guai che lo hanno un po’ condizionato nelle ultime settimane di attività e trascorse le vacanze a Turks and Caicos, Mar dei Caraibi, con Flavia e il figlio Filippo, Fabio è pronto a ripartire dal buen retiro di Barcellona sotto la guida di coach Franco Davin, ora affiancato pure da Corrado Barazzutti, capitano azzurro di Coppa Davis e suo storico consigliere. Dopo un’annata così sfavillante, le ambizioni continuano a volare alte: dare continuità al rendimento favoloso degli ultimi 12 mesi, provare ad agguantare finalmente un posto nella top ten, traguardo che nell’Era Open hanno raggiunto, tra gli italiani, solo Panatta e Barazzutti ormai più di quarant’anni fa e inseguire un grande risultato nei tornei dello Slam, magari sull’amata terra parigina. Con l’orgoglio di essere testimonial di un marchio che porta per il mondo l’immagine più vincente della creatività e dell’inventiva italiane.


Divertente, tecnico e a tratti profetico. Il tennis visto da Panatta (Andrea Schiavon, Tuttosport)

Ecco cosa c’è dietro quel pof-pof. “Il tennis è musica” andrebbe letto da tutti quelli che – condivisione dopo condivisione – si sono divertiti a vedere Adriano Panatta recitare ne “La Profezia dell’Armadillo”. In ogni pagina riecheggia quel monologo, divenuto virale, e l’onomatopeico pof-pof sembra ritmare la scrittura. Il suono di un colpo di piatto viene richiamato sin dal sottotitolo di questo libro (edito da Sperling e Kupfer) nel quale Panatta attraversa cinquant’anni di tennis con una rilettura personale che, anno per anno, racconta un campione diverso. MEGLIO DI YOUTUBE Non è una carrellata enciclopedica, anche se la descrizione dei singoli incontri spesso è cosi dettagliata da far risultare inutile qualsiasi filmato d’archivio pescato su youtube. La memoria di Panatta ha qualcosa che nessun video può offrire: un mix di rigore tecnico, conoscenza personale e ironia. Come un cocktail ben shakerato, da assaporare a bordo campo. Daniele Azzolini – coautore, noto ai lettori di Tuttosport con cui collabora da anni – rappresenta un ottimo compagno di doppio di Panatta: la sua scrittura agile e il suo rigore statistico vanno a completare e arricchire i racconti di Adriano. Un libro- per di più se è di quasi trecento pagine – non permette la fruibilità social di un video, come quello dell’Armadillo, ma sfogliare “Il tennis è musica” permette di comprendere sino in fondo il senso di quel pof-pof. Da Rod Laver ad Alexander Zverev ci sono tutti i campioni che hanno fatto la storia di questo sport nell’era Open. Il Grande Slam di Laver nel 1969 è costruito su tanti dettagli, compresa la scelta di utilizzare un paio di scarpe chiodate sul campo di Forest Hills, inzuppato di pioggia ai limiti dell’impraticabilità. 40 MILIONI DI PAIA A proposito di scarpe, l’aneddoto più divertente è quello che riguarda Stan Smith. Prima di dare il proprio nome a una delle calzature più iconiche dell’Adidas (che ha festeggiato i 40 milioni di paia vendute), Smith è stato un campione in campo e a quanto pare, visto da vicino, lo è stato anche fuori. «Parlava con voce bassa, molto armoniosa, e aveva un modo di conquistare le donne a dir poco incantevole – scrive Panatta -. Non faceva niente, salvo guardarle, annuire, dire di tanto in tanto qualche parola sommessa che nessuno riusciva a comprendere, ma che di certo non poteva essere sbagliata o fuori luogo. Davano per scontato che un tipo del genere potesse dire solo cose gentili… E alla fine gli cadevano in mano, così, abbindolate dal suo gentilissimo far nulla, accarezzate dai suoi silenzi. Mai visto niente di simile. Mostruoso». Gli aneddoti sul fascino dei tennisti, soprattutto negli anni ’70, non mancano nel libro, ma Smith riesce a strappare un sorriso anche quando racconta il suo rapporto con la scarpa che porta il suo nome. «Condussi uno stage con dei giovani tennisti, qualche tempo fa – ha raccontato Stan – e per rompere il ghiaccio chiesi chi di loro volesse diventare come Borg. Nessuno sapeva chi fosse. Uno però indossava le mie scarpe. Gli dissi che erano belle, e lui con grande orgoglio mi fece sapere che erano delle Stan Smith, evidentemente senza sapere che lo Stan Smith originale gli stava davanti. E’ il momento in cui ho realizzato di essere diventato definitivamente una scarpa». USCIRE DAI BLOCCHI Uno sguardo che spazia dagli anni Sessanta a oggi permette poi di trovare suggestive analogie. Cosa hanno in comune, ad esempio, due tipi cosi diversi come Ilie Nastase e Roger Federer? Secondo Panatta, le gambe. «Agili, veloci e resistenti insieme, con una dote naturale che avrebbe permesso ai due, allo sparo dello starter in una finale olimpica dei 100 metri piani, di uscire meglio degli altri dai blocchi di partenza e di essere in testa a tutti per i primi tre passi. Si, solo i primi tre, ma nel tennis quelli bastano e fanno la differenza». E un passo davanti a tutti lo è anche Panatta con questo libro. Potrà non avere il successo globale di “Open”; ma chi lo leggerà si divertirà molto più che rivivendo i dolori del giovane Agassi. “Il tennis è musica” è leggero e tecnicamente ineccepibile. Come un bel colpo


Naomi Osaka Grande Slam (La Repubblica D, Filippo Santelli) 

Naomi Osaka non è Naomi Osaka. Non lo è più o non lo è ancora, punti di vista. Una Naomi è la tennista del futuro, capace alla prima finale in carriera in un torneo del Grande Slam di battere la più forte di sempre, sua altezza Serena Williams. La sportiva che strappa contratti di sponsorizzazione milionari. La 21enne giapponese cresciuta negli Stati Uniti, dalla pelle scura e dai capelli crespi, mamma nipponica e padre haitiano, che molti hanno già consacrato ambasciatrice del mondo senza muri che vorremmo. L’altra Naomi, invece, è la timida ragazzona seduta qui di fronte, in una poltrona della sala interviste degli Open di Cina, che parla con un filo di voce mentre si tormenta le pellicine delle dita. «Tutto mi fa paura», dice con una risatina, tutta candore e autodifesa. Poi di nuovo seria «La prima cosa: ho paura di deludere le persone attorno a me, la mia famiglia e quel tipo differente di famiglia che è il mio team». Qui in Cina la prima famiglia non l’ha seguita. Sono rimasti in Florida mamma Tamaki Osaka e papà Leonard François, l’uomo che a tre anni ha messo in mano la racchetta a lei e alla sorella Mari, più grande di un anno, per trasformarle nelle nuove Williams. Ma in prima fila c’è Sascha Bajin, il coach tedesco che prima di occuparsi di lei è stato a lungo sparring partner di Serena. In campo Naomi, completo nero con piccole strisce rosa fosforescente, la chioma leonina infilata (purtroppo) in un berretto, sembra la solita. Aspetta il servizio dell’avversaria piegata in avanti, con una concentrazione feroce, avanzando con due passi felpati per scaricare nella risposta tutta la sua potenza. Oggi, però, qualcosa non va. La lettone Anastasija Sevastova gioca meglio, lei sbaglia tanto, perderà netto la semifinale 4-6, 4-6. «È stato un torneo pieno di alti e bassi, ma grazie Pechino», dirà, congedandosi dal pubblico cinese su Instagram. A 21 anni, alla fine della stagione che l’ha proiettata al numero cinque del mondo, una flessione è nella regola delle cose. GRINTA IN CAMPO 1997 Nasce il 16 ottobre a Osaka da Tamaki Osaka, giapponese, e Leonard François, haitiano. 2000 Inizia a giocare a tennis, rinunciando alla scuola: studierà a casa. 2018 E la prima atleta nipponica a vincere gli Us Open 2018. Piazzandosi al quinto posto del ranking mondiale. Anche pochi giorni dopo, a Singapore, alle Finali 2018 del circuito femminile, la sua sarà una sbiadita comparsa. Eppure, nell’ultimo time out, prima della resa, mentre coach Sascha provava a darle qualche dritta, lei non lo guardava neppure in faccia. Come se si vergognasse di giocare così male. Proprio un’ammonizione per “coaching”, un consiglio tecnico irregolare dagli spalti, ha scatenato la furia di Serena Williams durante la finale di New York. L’ammonizione, proteste, una racchetta spaccata, un game di penalità consegnato a Naomi. Più che per la vittoria di Osaka, quella partita rischia di venire ricordata per l’incandescente dibattito sulla parità di genere che ha acceso. Con un uomo l’arbitro sarebbe stato altrettanto severo? «L’ho rivista tante volte», dice Naomi. «E non capisco ancora i fatti al cento per cento. So che molte persone si sono infuriate, ma io non riesco a vedere quello di cui parlano. Ho l’impressione che, in quelle circostanze, tutti abbiano agito come hanno agito perché sono quello che sono, non so se c’era qualcosa sotto». Secondo tanti commentatori, due indizi fanno una prova. L’altro è il divieto per Serena di giocare con il costumone nero da gatta, un accorgimento per scongiurare trombosi dopo la gravidanza. II tennis discrimina le donne? «Sono nuova, appena arrivata, non ho mai avuto esperienze di questo tipo. Ma se il tempo passa e vedo qualcosa, allora credo sarà il mio turno di parlare». Per ora Naomi continua a fare quello per cui è stata educata, rimandare di là una palla dopo l’altra, sempre più forti, sempre più precise, servizio, diritto e rovescio a due mani. Quella sera di fine estate a New York, in mezzo agli improperi di Serena contro l’arbitro e ai fischi di 50mila tifosi americani tutti schierati con la wondermamma alla ricerca del primo titolo dopo la maternità, lei non ha mostrato una crepa: «Non avevo dormito, sapevo che avrei dovuto essere super dura e credo di esserci riuscita». Williams, che già mesi fa l’aveva definita avversaria «pericolosa», si è trovata di fronte un muro. Ma dopo l’ultimo punto, riecco la timida Naomi che si porta le mani davanti al viso, che quasi vorrebbe chiedere scusa per aver rovinato la festa di Serena. Lo dice continuamente, «Sorry», scusate. Ed è in questo contegno che ora il Giappone si riconosce, nonostante Naomi parli male la lingua e il suo aspetto sfidi il concetto di omogeneità etnica del Paese, uno dei più chiusi al mondo. Quelli come lei li chiamano con disprezzo hafu, letteralmente “metà”. Per questo, dopo il matrimonio misto e il trasferimento negli Stati Uniti, sua madre ha rotto per anni i rapporti con i genitori, i nonni di Naomi. «Gioco per il Giappone», risponde quando le si chiede a che nazione senta di appartenere. “Giocare per” è diverso da “appartenere”: «La risposta è la stessa», taglia corto lei. Di certo, ora che è la prima giapponese ad avere vinto uno Slam, che i rapporti con il nonno pescatore sono ricuciti, che perfino il premier nazionalista Shinzo Abe l’ha elogiata come gloria nazionale, si rivela azzeccata la scelta di giocare per il Sol Levante, presa dal padre quando lei e la sorella Mari stavano per passare al professionismo. Negli Stati Uniti, Naomi avrebbe dovuto competere per visibilità e sponsor con tanti altri giovani talenti. In Giappone, è stata da subito la grande speranza della federazione e la coccola dei pubblicitari, come dimostra il marchio di noodles istantanei che porta sulla maglietta già da anni, quello Nissan che ha appena aggiunto e un rinnovo con Adidas che si annuncia milionario. Un’icona di cambiamento, per un Paese iper tradizionalista che si sta lentamente aprendo alla diversità. La sognano trionfare ai giochi olimpici del 2020 e al mondo non dispiacerebbe. Perché le foto che posta sui social, con le dita a “V” di vittoria, quel faccione spaesato da manga, la capacità di prendersi in giro e l’aspetto United Color sfondano a tutte le latitudini. Naomi è la super campionessa della porta accanto che, prima delle partite, ascolta Eminem per caricarsi. Quanto a lei, nata ad Osaka, cresciuta a New York , maturata in Florida, si capisce perché consideri la geografia un concerto relativo: «Casa è dove sono i miei genitori, mia sorella, il mio cane. Un giorno ne vorrò una mia, sarebbe stupendo, ma i tennisti viaggiano così tanto». Campo e famiglia: nonostante un Open degli Stati Uniti vinto e oltre sette milioni di dollari già guadagnati solo in premi, la dimensione di Naomi resta questa. «Non ho mai fatto vacanze, non mi regalo niente di costoso», dice. «Al massimo ho comprato una borsa di Louis Vuitton alla mamma». Fidanzati, per ora non pervenuti: «Non sono mai uscita con nessuno, quindi nessuno mi manca». La sua vita è il tennis, da quando il papà ha deciso che lei e la sorella Mari avrebbero lasciato la scuola per allenarsi tutto ll giorno, studiando poi la sera a casa. Storia già sentita, quella del genitore che consegna la racchetta ai figli e poi li segue da bordo campo. Storia che spesso, Agassi insegna, genera rigetto. «Io sento che il tennis è stata una mia scelta», replica lei, «perché crescendo vedevo mia sorella giocare e io ho sempre voluto fare quello che faceva lei. Si, mi diverto». Viene da chiedersi cosa sarebbe successo nel caso qualcosa fosse andato storto: che farebbe oggi Naomi Osaka? Forse, a un certo punto, qualcuno racconterà anche della sorella Mari, la sua migliore amica, che galleggia attorno al numero 400 del mondo, nel purgatorio dei tornei minori. «Se non giocassi a tennis? E una domanda difficile: sono così coinvolta in quello che faccio. Forse farei la zoologa, anche se ho scoperto che bisogna essere molto bravi in matematica… Non è il caso. Forse sarei un procuratore sportivo». Da un po’ c’è anche questa figura nel suo team, la sua famiglia allargata. A seguirla è Img, lo stesso colosso americano che cura immagine e interessi di Djokovic, delle Williams e di Kei Nishikori, il tennista giapponese grande estimatore di Naomi. Gli agenti servono per ciò che non si impara sul campo: i contratti, i rapporti con la stampa, la gestione dei profili social. Il suo Instagram “segreto” (nao.chiii) in cui posta foto delle città in cui gioca, una passione ereditata dal padre, è aggiornato sempre più di rado. In compenso, quello ufficiale (naomiosakatennis) è sempre più curato. Un’ospitata nello studio di Ellen DeGeneres, uno scatto con LeBron James, ma anche un selfie con la solita faccia perplessa: «Mi chiedono perché non posto tanti selfie», scrive sotto, «II mio lato migliore è molto, molto, molto lontano». Non si può non amarla, piogge di cuori lo confermano. Così il tennis femminile, alla disperata ricerca di un personaggio dopo Serena, l’ha forse trovato in un anti personaggio. Tanto diverso dalla Williams, appena nominata donna dell’anno da GQ, campionessa matura che incarna le battaglie per l’uguaglianza, di razza e di genere, in uno sport accusato di antiche discriminazioni. Ad aprile, dopo aver vinto il suo primo torneo da professionista, Indian Wells, Naomi non sapeva letteralmente che cosa dire al pubblico. Due minuti di adorabili imbarazzi: «Sarà il peggiore discorso di ringraziamento della storia», ha concluso, facendo ridere tutti. Le chiedono un giudizio su questa fantastica stagione: «Non sono sicura, non mi fermo a pensare a come mi sento, voglio continuare a spingere». Poche scelte, dopo un paio di risultati negativi, alcuni già insinuano che la sua stella sia una cometa. Le chiediamo che cosa pensa quando la definiscono un simbolo anche fuori dal campo: «II tennis è tutto quello che ho faro finora, non conosco la vita fuori, ma spero un giorno di poter essere un’ispirazione per i bambini». No, Naomi Osaka non è ancora Naomi Osaka. Finché dura, al mondo piace così.

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