Grand Slam, parte seconda: Roland Garros - Pagina 2 di 2

Rubriche

Grand Slam, parte seconda: Roland Garros

Seconda puntata del racconto più intrigante e coinvolgente che mai troverete in off season. E non solo

Pubblicato

il

 

Tennis Integrity Unit Headquarter, Roehampton – Mercoledì 2 febbraio

“Sir, posso disturbarla un secondo?” Disse Yura, approcciando il suo superiore durante la pausa caffè. “È qualcosa che non può aspettare che io divori il mio bagel mattutino?” “Non c’è fretta, la aspetto in sala video”. La sede della Tennis Integrity Unit aveva una sala apposita per l’analisi dei match, con replay in alta qualità e riprese da ogni telecamera disponibile, registrazioni di ogni conversazione fra atleta e umpire, o qualunque altra cosa accadesse in campo e potesse essere un indizio di combine e illecito sportivo. Connor Veyveris raggiunse la sua stagista Coreana all’interno della sala. Yura stava armeggiando ad una console come una dj, mandando avanti e indietro fotogrammi di immagini alternando con zoom vari.

“Cosa ha trovato, signorina Sung?” “Ecco signor Veyveris. Non so come mai non l’abbiamo notato prima, ma queste sono le immagini degli istanti successivi a quando Kiraly si accascia a terra, dopo aver lanciato la pallina”. Connor le aveva viste decine di volte negli ultimi tre giorni: il giovane che lancia la pallina e appena essa si stacca dalla mano, una sorta di immobilità della durata di pochi decimi di secondo, poi una smorfia, la mano destra che lascia la racchetta e cerca istintivamente di raggiungere la zona del torace; dopodichè Kiraly si affloscia come un sacco vuoto. Gli attimi di sconcerto, un raccattapalle insicuro che prima fa un passo verso di lui, poi indietreggia. L’allenatore Demtchenko che arriva per primo, dalla sinistra del campo; poi l’umpire sceso rapidamente dalla sedia. Bartlett che cerca di capire cosa succede ma non oltrepassa la rete, l’arrivo tempestivo del medico del torneo che fa i primi controlli mentre il supervisor coordina l’arrivo dei soccorsi. Una calca di gente varia, autorizzata, che fa capannello nei dintorni dell’atleta. “Cosa c’è di particolare?” “Dal momento in cui Kiraly si sente male a quando viene portato via in barella passano circa 3 minuti e mezzo. In questo lasso di tempo, è scomparso l’orologio”.

“Quale orologio?” “Kiraly ha giocato tutta la finale con un orologio al polso sinistro. Credo per ragioni di sponsor. Ce l’ha ancora ben visibile nel momento in cui lancia la pallina. Ma quando lo portano via, non ce l’ha più”. “È possibile che il medico glielo abbia tolto per controllare il battito? O facilitare il flusso del sangue?” “Sì certo. Anche se credo che il battito venga controllato alla giugulare. Possiamo chiedere al diretto interessato se si ricorda di aver tolto l’orologio. E soprattutto dove l’ha messo”. “Lo farò contattare. Dalle immagini non si evince nulla? Non si vede il momento in cui viene tolto?” “C’è un po’ di calca. Le telecamere per le riprese in diretta ufficiali non hanno inquadrato la scena, seguendo la policy. Da quelle a bordo campo e a livello del suolo purtroppo non si vede abbastanza. Ho provato diverse angolazioni. “È anche possibile che essendo un orologio sicuramente di gran valore, qualcuno possa averlo trafugato, per quanto improbabile sembri. Magari dopo che il medico l’ha tolto e poggiato per terra. O che semplicemente, qualcuno dell’organizzazione lo abbia raccolto per riconsegnarlo all’atleta in seguito”. “Sono tutte ipotesi plausibili”. “Chiederò a Malcolm di fare qualche telefonata. Non che pensi che abbia a che fare con la vicenda del malore. Ma diciamo che sì, è un fatto inusuale…”.

Court Philippe Chatrier, Parigi, Francia – Domenica 29 maggio, ore 18:47

“Niente, oggi non va!” Pensò Siles sprofondando sulla sedia al cambio di campo. Si voltò verso sinistra per dare uno sguardo al tabellone, poi infilò la testa sotto l’asciugamano per trovare un po’ di refrigerio. Tre ore e mezza di battaglia non erano bastate. Trovarsi ad un tiebreak dal titolo e crollare facendo un solo punto. Avere una chance e non giocarsela nemmeno. Forse la stanchezza di questo tour de force inizia a farsi sentire. Proprio sul più bello. O forse è l’avversario, perché lo sloveno ha davvero giocato un tennis meraviglioso oggi, c’è poco da dire. O forse, la Smash porta sfiga. Ci dev’essere una specie di maledizione, una presa in giro sottile. Perché nessun numero 100 del mondo mai soffrirà per non aver vinto uno Slam. A meno di non essere andato a un passo dal farcela.

Il mendicante stava come sempre a bordo strada, nel freddo e senza cibo. L’uomo elegante vi si avvicinò, lo invitò in casa, gli diede un letto e cibo caldo. Lo accudì per un’intera settimana senza mai nulla chiedere in cambio. Alla fine dei sette giorni, riaccompagnò il bisognoso alla sua antica panchina. “È ora che io torni alla mia vita, e tu alla tua”. “Capisco, grazie comunque. Posso almeno conoscere il suo nome, mio benefattore?” “Io sono il Diavolo”. “Sei tu sei il Diavolo, perché mi hai trattato da Re per questa settimana?” “Ormai eri troppo assuefatto alla sofferenza. Non era più tale”. Erwin si sentiva come il povero mendicante, preso in giro dall’illusione di aver trovato finalmente una svolta alla sua condizione di mediocrità, salvo poi ripiombarci con più rimorsi.

Cercò di scacciare i cattivi pensieri dalla testa. Nulla era perso, si era ancora pari. Erwin si alzò dalla panchina nel frastuono del Philippe Chatrier accomodandosi sul lato destro del campo. Due saltelli un accenno di stretching, concentrazione di nuovo a mille. Quiet please. Fifth Set. Mister Maslevic to serve.

Felt Restaurant, Melbourne – Sabato 22 gennaio, ore 21:05

Sandor aveva prenotato un tavolo in uno dei ristoranti più costosi del Central Business District. Con il prize money degli ottavi già ipotecati, poteva permettersi questo ed altro. Per non dire che dentro di sé sapeva bene che la sua corsa nel torneo sarebbe proseguita oltre. Al quinto incontro con la giornalista finlandese in dieci giorni il campione ungherese non era più certo che fosse un semplice flirt; forse poteva divenire qualcosa di più serio. Sandor aveva ripetutamente trasgredito la regola imposta da Vassily: niente più serate fuori. Ma al coach russo alla fine non importava così tanto: finché il suo pupillo gioca così, faccia quello che gli pare; la forma mentale è importante tanto quanto quella fisica, magari questa relazione gli dà ulteriori motivazioni.

Kaisa aveva scoperto un’improvvisa passione per il tennis. Non solo per le sue frequentazioni intime. Ogni mattina era al Melbourne Park e ci restava fino a sera. I redattori del Melbourne Observer erano entusiasti dei suoi articoli: l’avevano inviata per curare fatti di costume ed extratennistici, si erano ritrovati un insider capace di scoprire dettagli che altri organi di stampa non potevano conoscere. E ovviamente, interviste esclusive con la grande sorpresa del torneo. “Non ti spiace che io dia in pasto alla stampa dettagli su di te?” “Mi sembri abbastanza intelligente da capire cosa puoi scrivere e cosa no”. “Wow. Vuoi dirmi che Sandor Kiraly ha un lato oscuro che nessuno deve conoscere?” “Sai mantenere un segreto?” Disse Sandor abbassando tono e volume della voce. “Certo”. “Anch’io”. Il tennista sogghignò compiaciuto della sua battuta e riprese a tagliare la sua bistecca di canguro.

“Si vede proprio che è la tua prima volta in Australia”. “In che senso?” “Sei nel miglior ristorante di Melbourne e mangi il canguro. È quello che fanno tutti i turisti. Credono che il canguro sia chissà quale prelibatezza, un piatto inconsueto. In realtà è come per noi europei mangiare il pollo. È carne di scarsa qualità e la si mangia solo perché ce n’è un surplus”. “A me piace”. “Signor Kiraly…”. Sandor si voltò alla sua destra, da dove proveniva la voce. C’era un bimbo con carta e penna in mano. “Posso avere un autografo? “Certo caro. Come ti chiami?” “Alex”. “Alex è un suo grande fan. Abbiamo visto il suo match oggi”. Disse il papà sopraggiungendo dietro al bambino. Sandor scrisse una bella dedica corredata da una firma. Presto sarà sempre più una routine, quella di elargire autografi a destra e a manca. “Congratulazioni ancora, e buona fortuna per lunedì”. “Grazie. Ma non credo alla fortuna…”.

Court Philippe Chatrier, Parigi, Francia – Domenica 29 maggio, ore 19:33

“Vai vai vai vai… Sì! Sì cazzo!” La traiettoria parabolica del recupero di Maslevic sembrava quasi beffare una volta di più Erwin. Su quel dritto da dentro al campo ci aveva messo tutta la sua energia, la frustrazione di anni nel circuito minore. Di pomeriggi freddi sulla alture di La Paz passate a colpire palline gialle, dei campi con le buche del sobborgo di Obrajes, delle litigate con genitori e allenatore. Pure le delusioni sentimentali, anche se non c’entrano nulla col tennis: tutto ciò che poteva dargli rabbia per schiaffeggiare quella palla più forte. Ma lo sloveno era arrivato anche lì, alzando un lob che non scendeva mai. E quando aveva preso a farlo, pareva strafottente andare a cadere proprio sulla fettuccia. A quattro, tre, due metri da terra ancora non si capiva bene. E poi il contatto, un piccolissimo sbuffo di mattone tritato, palla fuori di un nonnulla.

Siles disegnò rapido una mezzaluna attorno al segno e il giudice di sedia, che ormai aveva corso su e giù dalla sua postazione più degli atleti in campo, si precipitò ad analizzare la traccia. Un segno del dito, uno sguardo a Maslevic, una corsa indietro e rapida scalata del seggiolone. L’arbitro aggiusto il microfono e dichiarò: “Forty-thirty”. Siles si asciugò il sudore una volta di più, anche se il sole non batteva da un po’. Era ancora da qualche parte nel cielo, ma da tempo era scomparso dietro l’orizzonte dell’anello superiore del Philippe Chatrier. Era di nuovo vicino alla vittoria. Più vicino che mai. 5-7 6-3 6-3 6-7 5-4 40-30 la scritta sul tabellone, e sotto apparve la dicitura: Championship Point. Erwin non poteva gustarsi il momento. Era solo una chance. Un singolo punto. Vincerlo era l’apoteosi. Perderlo era tornare in parità. O più semplicemente, perderlo non era un’opzione. Le energie cominciavano a scarseggiare. Anche se l’avversario non pareva essere messo molto meglio.

Erwin Silas si accomoda sul lato sinistro del campo. Pochi palleggi e un lancio di palla alto. La palla sale, raggiunge l’apice, si ferma all’equilibrio delle energie e comincia a scendere. Scende. Scende. E quindi riceve uno schiaffo dirompente dalla racchetta del boliviano, filando dritta a stamparsi sulla riga in comune fra i due rettangoli di servizio e proseguendo dopo il rimbalzo oltre il corpo proteso di Maslevic. Erwin Silas da La Paz, 25 anni, è il nuovo campione del Roland Garros.

Smash Headquarter, Londra – Mercoledì 6 aprile

“Signor Siles! Che piacere incontrarla!” “Il piacere è tutto mio”. “Grazie per essere venuto a Londra per questo incontro. Il mio nome è Michael Madison”.

Pagine: 1 2

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement