Quel vincere senza sudare (Scanagatta). Quota 100, altro che pensione. Federer va a caccia di record (Semeraro). Nella Melbourne di Brookes, lo Stregone che oggi non c'è più (Clerici). Vinci: "Il mio tennis in vinile che ha fatto impazzire anche Serena Williams" (Sisti)

Rassegna stampa

Quel vincere senza sudare (Scanagatta). Quota 100, altro che pensione. Federer va a caccia di record (Semeraro). Nella Melbourne di Brookes, lo Stregone che oggi non c’è più (Clerici). Vinci: “Il mio tennis in vinile che ha fatto impazzire anche Serena Williams” (Sisti)

La rassegna stampa di lunedì 14 gennaio 2019

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Quel vincere senza sudare (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Ancora tu, ma non dovevamo vederci più? Per Lucio Battisti sarebbe stata una storia d’amore. Ho visto e sono rimasto affascinato da Roger Federer e dal suo talento 21 anni fa. A 16 anni e 8 mesi, aprile 1998, quello svizzero che aveva rifiutato la presa bimane del rovescio allora imperante («Non mi piace, non mi viene naturale e poi non è elegante») era un tipo con un caratterino tutto suo. Non si perdonava un errore, la racchetta volava spesso, trionfò bello precoce nel “Principe”, il torneo junior pasquale al mio circolo fiorentino delle Cascine. Un anno dopo lo rividi a Neuchatel, i capelli funghetti e mechati di gialloverde, semi-punk, al suo esordio in Coppa Davis. Dette subito una lezione al nostro Sanguinetti, pur reduce dai quarti a Wimbledon ’98. Pur rapito da quella classe cristallina non potevo immaginare che avrei visto Mister Fluidità vincere senza mai sudare – non è elegante! – 20 Slam, ben 6 più di Sweet Pete Sampras che pareva a tutti noi irraggiungibile, e non so più quanti dei 99 titoli che ha portato a casa. Ora qui a Melbourne, alla veneranda età di 37 anni e 5 mesi, il leggendario Roger è ancora uno dei primi tre favoriti, non foss’altro perché le ultime due edizioni dell’Open australiano, le ha vinte proprio lui, nel 2017 sul rivale di sempre, Nadal, un anno fa su Cilic. Entrambe al quinto set, con tanti saluti all’anagrafe e… al 2016, l’anno maledetto, zero tornei vinti, solo 28 partite giocate, discesa rovinosa in classifica, n. 16 il 31 dicembre dopo sei mesi di stop per un bagnetto in vasca galeotto con due dei quattro gemellini, un menisco lesionato, il primo intervento chirurgico. I più avevano intonato il De Profundis. Invece, smentiti i gufi, eccolo qui, vivo, vegeto, competitivo, in corsa per il titolo n.100, tre giorni dopo il ritiro del primo e del più giovane dei Fab, l’inconsolabile Andy Murray. E Roger sta meglio anche di Rafa Nadal, che si trova nella sua stessa metà tabellone per un possibile millesimo duello in semifinale. Ah se non ci fosse Djokovic che qui, proprio come Roger, ha vinto questo Slam già sei volte e gioca meglio che a casa sua.


Missione Zverev, un posto da Fab 4 (Federica Cocchi, Gazzetta dello Sport)

Quando a Melbourne 2018 Caroline Wozniacki si è presentata in conferenza stampa col trofeo, le è stato chiesto cosa si provasse a vincere il primo Slam: «Sono felice. Soprattutto perché non mi chiederanno più quando vincerò il primo Slam…». Probabilmente sarà la stessa risposta che avremo da Alexander Zverev quando sarà il suo turno. Potrebbe succedere già tra due settimane se dovesse finalmente superare il tabù del terzo turno. I bookmaker lo danno tra i papabili, soprattutto dopo il successo nelle Finals di Londra, quando ha trionfato battendo Novak Djokovic e mostrando i primi segni tangibili della cura Lendl. Ivan il terribile aveva già trasformato Andy Murray portandolo da illustre perdente a vincitore di Slam in pochi mesi, passando per l’oro olimpico di Londra. Per non parlare dello storico successo di Wimbledon 2013, quando lo scozzese spezzò l’incantesimo riportando un britannico nell’albo d’oro dell’All England settantasette anni dopo Fred Perry. Ora è il momento di trasformare Sascha in un uomo Slam. Un’impronta importante del lavoro di Lendl si era vista alle Finals londinesi quando Sascha, fischiato dal pubblico per aver battuto Federer in semifinale approfittando anche di un «cavillo» regolamentare, era uscito dal campo tremante e quasi in lacrime. «Fanno così perché amano Federer e non vorrebbero mai vederlo uscire di scena — gli aveva detto il super coach —. In finale vai e mostra quel che sai fare». Risultato: la vittoria del trofeo più importante della giovane carriera. Stanotte Zverev parte per un altro viaggio, per alzare la posta: «Non voglio mettermi pressione — ha detto alla vigilia del match con Bedene —. Voglio solo godermi i match e fare il mio gioco. A Londra non stavo giocando il mio tennis migliore, avevo preso una brutta batosta da Djokovic nei gironi, ma sono comunque riuscito a risollevarmi e a migliorare match dopo match. Ha funzionato, e anche qui a Melbourne devo partire con la stessa mentalità. Voglio godermi la gente, i match sui campi principali, e devo imparare a farlo sempre, così i risultati verranno più facilmente». Dipenderà anche dalla caviglia sinistra acciaccata nei giorni scorsi: «Fortunatamente non si tratta di una distorsione — ha detto — è solo una botta, c’è un piccolo versamento, ma giocherò con un tape» […]


Quota 100, altro che pensione. Federer va a caccia di record (Stefano Semeraro, Stampa)

Roger Federer è da tempo fra gli immortali del tennis, anzi dello sport in generale, siamo tutti d’accordo. Il punto ormai è un altro: quanto immortale? E nel tempo che gli è rimasto da spendere sul campo, quali record ancora può battere? Il Number One emerito ci ha abituato a considerare i suoi frequenti miracoli normale amministrazione («Ma questo lo pensano i giornalisti, io non ho mai dato per scontata una carriera come la mia»: 15-0 per Roger), il precoce e doloroso addio di Andy Murray e l’inizio degli Australian Open forzatamente ci riportano però alla prosa delle cifre e dell’anagrafe. A Melbourne il patriarca può arrivare a 21 Slam, avvicinando Steffi Graf che nel conto assoluto e unisex è a quota 22 (davanti a lui ci sono solo donne, Serena Williams è a 23 e Margaret Court a 24), ma quel che conta è compiere 100 successi da professionista. Cifra tonda, perfetta per le celebrazioni, comunque ancora distante nove titoli dal record – molto gonfiato ma questa è un’altra storia – di Jimmy Connors. Il suo 109° urrah Jimbo lo lanciò a Tel Aviv nel 1989, quando aveva compiuto da poco più di un mese i 37 anni. L’Antipatico due autunni dopo fu capace di arrivare in semifinale agli Us Open e continuò poi a giocare, più o meno sporadicamente, fino al ’96; ma senza aggiungere trofei alla bacheca: con un paio di stagioni da 4-5 tornei all’anno, insomma, Federer può raggiungerlo. Più difficile inseguire nonno Rosewall, che finì di vincere tornei solo a Hong Kong nel 1977, a 43 anni suonati. Per l’Atp fu il numero 35, ma se consideriamo anche quelli vinti negli 11 anni di apartheid fra i professionisti, prima della liberazione del 1968, si arriverebbe a 133 (altra storia, anche qui). A 37 anni e due mesi, cioè tre mesi più giovane del Federer di oggi, «Muscles» fra l’altro si era preso l’ultimo Slam, guarda caso agli Australian Open, un record di longevità che resiste da allora: ecco apparecchiato un primato che nel giro di due settimane Federer potrebbe riscrivere a 37 anni e 142 giorni. Ri-conquistare Melbourne per il terzo anno consecutivo (stamattina l’esordio contro Istomin, 2° match dalle 9, tv su Eurosport) significherebbe anche staccare Roy Emerson e Novak Djokovic con un settimo titolo in Australia. Vincendo lì l’anno scorso Federer ha peraltro già raggiunto l’eterno e dolce Rosewall – il signor Murodirose – e l’altro higlander Rod Laver alla voce «Slam vinti dopo i 30 anni»: sono 4. A 3 è fermo Nadal, poi ci sono Agassi, Connors, Djokovic e Wawrinka a 2 […] «Murray? Purtroppo sapevo». Troppa roba, anche per un Immortale? «Beh, credo che una delle cose che mi permettono di giocare ancora ad alto livello – ha spiegato – è che conosco bene il mio corpo: capisco quando ho male e posso continuare e quando invece ho male e devo fermarmi. Che Murray stesse così male lo sapevo da un paio di anni, mi sono anzi meravigliato che ce la facesse ancora. Da giovane i dolori passano, quando hai 30, 35, 40 anni ci vuole più tempo. E devi mettere in conto di conviverci, con il male». Chiamatelo, se volete, il male di vincere.


Non toccate i vecchietti (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Laggiù sotto, dove gli australiani ritengono di trovarsi e d’estate si festeggia il capodanno, gennaio indica la ripresa della vita, ed è il mese degli annunci. Il tennis attende il vaticinio, chiedendosi che anno verrà. Insolitamente disinibito, Novak Djokovic pone l’accento sul suo buon diritto a vincere tutto, pronto a sfidare l’inevitabile dileggio se qualcosa andasse di traverso. Parla di Slam, e dice di volerne altri sei minimo. Ne ha 14, dunque ha l’intenzione di apparigliare Federer a 20, ma è chiaro che la formula “14 più 7” è quella che più gli aggrada. Insomma, vuole cancellare Federer e il progetto non rinuncia nemmeno a una possibile conquista del Grande Slam. In fondo va capito… È l’unico dei moderni, il Nole, ad aver firmato un poker di vittorie consecutive nei Major, seppure diviso in due stagioni. Accadde nel 2015 e 2016, Wimbledon e Us Open, poi Australian Open e Roland Garros. Un Piccolo Slam (lo chiamano Non-Calendar Year Grand Slam) di pregevolissima fattura, buono per essere ricordato ogni qual volta si sfiori l’argomento, non per avere un posto riservato al tavolo con Rod Laver, che 50 anni fa, di questi tempi, dava forma alla sua impresa più bella (a Brisbane, però), l’ultimo Grand Slam in campo maschile e l’unico vinto in Era Open, nel 1969. La ritrovata considerazione di sé spinge Nole a sbattere contro la Storia e più ancora contro l’effervescenza delle nuove leve, che molto hanno investito su quest’ultimo anno del secondo decennio. La Storia dice che dopo i 31 anni le vittorie negli Slam si riducono alle briciole. Sette non ne ha vinti nessuno, e nemmeno sei se è per quello. Rosewall ne portò a casa quattro, giocando fino ai 40; Federer al momento è a tre. Novak compie i 32 a maggio, dunque è nell’età critica e dovrà sostenere le ovvie pretese degli emergenti, consci che in questo sport si passa da calde speranze a freddi bolliti nello spazio di un sorriso. Anche qui, però, vi sono segnali da tenere in considerazione: i tre stop di Djokovic dalla vittoria degli Us Open al termine della scorsa stagione, tutti contro “under” di fresco conio, Tsitsipas, Khachanov e Zverev, che gli ha sfilato il titolo cui teneva di più, le ATP Finals; quindi la mortificazione nel vedere il suo più caro amico, Andy Murray, cedere all’età e agli infortuni, il primo Fab Four costretto a farsi da parte; infine la presenza ormai fissa dei più giovani nelle fasi finali dei tornei, demone De Minaur vincitore a Sydney su Seppi, Medvedev finalista a Brisbane, Norrie in semi ad Auckland. Altre storie sembrano in rampa di lancio: Zverev ha fretta di spostare l’asticella più in alto, gli inadeguati “quarti” raggiunti a Parigi sono poca cosa per un numero 4 della classifica. Tsitsipas punta alla Top Ten, e non si vede perché non debba riuscirvi; Shapovalov al primo centro nel Tour, per poi sbocciare definitivamente; Medvedev anche è da Top Ten […] Eppure, lo Slam Down Under è vissuto sulle capienti spalle di Federer nelle ultime due stagioni, e chissà perché tutti ritengono che non vi sia ulteriore spazio per lui. Va così da anni: il primo giornalista ad annunciare che Roger era ormai un ex fu un collega inglese nel 2008. L’anno dopo Federer vinse Roland Garros e Wimbledon. Il tabellone non è male. Istomin per cominciare, quasi un analgesico… Poi Ito o Evans, e dopo uno fra Dzumhur, Monfils, Fritz o Norrie. Sta peggio Djoko: comincia stanotte con un qualificato, Krueger, ma poi ha Thonga, e dopo Shapovalov. Lo stesso per Nadal: subito Duckworth (anatra meritevole), ma i successivi Ebden e De Minaur potrebbero già creargli problemi seri. Ricambio o conferme, il tema è fisso […]


Nella Melbourne di Brookes, lo Stregone che oggi non c’è più (Gianni Clerici, Repubblica Sport)

Mi sono arrivate, attraverso il computer, 17 pagine sugli Australian Open che da bravo cronista dovrei stampare, se avessi un giornale tutto per me. Le 17 pagine sono tutte relative alle statistiche, alle previsioni, e iniziano dalla fondamentale dote economica del torneo, il 51° titolo Aus dell’Era Open, che sfoggia 2 milioni di dollari Usa per i vincitori, più 2000 punti in classifica. La prima domanda rivolta agli appassionati. «Ce la faranno Federer e Nadal, dopo aver dominato il 2017 e la prima metà del 2018, Roger a superare il suo 20° Slam, e Nadal vincendo Parigi il suo 11° titolo della Città, e il 17° Slam, a vincere?». Essi son stati superati poi dal rinato Djokovic (con 14 Slam) che lo portavano a terminare l’anno al numero uno. Passo al secondo foglio in cui si chiede se Djoko sorpasserà Sampras e diverrà 3° nella classifica dei vincitori Slam, giungendo a 15 e superando Sampras, mentre Federer e Nadal sono già a 20 e 17. E qui mi fermo, annoiato forse quanto voi, per l’appassionante lavoro della signora appositamente spesata dalla Itf. Se ripenso al mio primo Australian Open, nel 1960, mi vengono in mente il mio partner di doppio Sirola perduto per una mia itterizia, che mi avrebbe portato a non dirigerlo, insieme a Pietrangeli nella nostra unica vittoria sugli Usa a Perth privandomi così di una probabile carriera di capitano, per meriti non miei. Senza invece scordare la mia scoperta di un enorme – per i tempi – stadio di 8.500 spettatori, Kooyong, il posto delle anatre, in dialetto aborigeno. Con il Centrale assegnato alle cure della pecorella Mary, che vi manteneva il livello dell’erba, e l’incontro, questo con racchette, di un anziano signore il cui partner era in ritardo. Si chiamava, quel signore, Norman Brookes, e quando il direttore del Club mi disse che era un baronetto, gli domandai come potessi rivolgermi a un Lord. Ne ebbi l’identica risposta che mi aveva dato, ad Alassio, un altro lord tennista, lord Hanbury: «Chiamami col mio nome di battesimo». Restai ammirato del gioco di quel signore che ormai poteva avere 80 anni, nato com’era nel 1877. Giocammo qualche volta in doppio, con viva sorpresa dei colleghi aussies, e venni a sapere che il signore era soprannominato the wizard, lo stregone, ed era stato il primo australiano a vincere i campionati del paese, curiosamente 4 anni dopo aver trionfato a Wimbledon nel 1907. Poiché i nostri doppi si infittivano e Norman, prima che iniziassero le gare, mi invitava sempre a un pranzo irrorato di birra, mi raccontò che suo papà era emigrato in Australia con 8 sterline in tasca, ma aveva trovato l’oro a Bendigo. Gli assicurai che sarei andato a Bendigo quando mi disse che senza quella fortuna non avrebbe mai raggiunto Wimbledon, che era un luogo se non per Lord, per i ricchi, e mi raccontò della sua prima sconfitta subita a Londra, nel 1905, contro uno dei Doherties, Lawrence. Come ammisi di non aver giocato in Davis, per una squalifica assegnatami da un federale (che non merita citazione) morto facendo l’amore con una prostituta dopo troppa pastasciutta, non si sorprese, e mi garantì che mai gli sarebbe accaduto per due ragioni: non amava gli spaghetti, era diventato presidente nel ’26, e si aspettava che lo sostituissero ad ogni elezione. Restò invece amato presidente sino al al 1955, per andarsene nel 1968, anno in cui fu sepolto con la Legion d’onore francese, grazie al suo comportamento nella Prima Guerra Mondiale. Ecco cosa mi fa ricordare l’inizio dei campionati d’Australia, e mi auguro di non essere stato altrettanto noioso della scrittrice di statistiche.


Intervista a Roberta Vinci: “Il mio tennis in vinile che ha fatto impazzire anche Serena Williams” (Enrico Sisti, Repubblica Sport)

Essere (stata) Roberta Vinci. Senza Roby è più difficile, c’è chiaramente meno luce. Stavolta è il tennis che perde. Tutto. Mancano quelle aperture solari, quel suo back di rovescio nato per gioco e poi diventato “il gioco” (ed era una ricchezza unica), manca quel suo sorriso a volte affannato, e quell’inumidirsi le labbra perché la fatica era sempre tanta. Roberta Vinci ha smesso il 14 maggio scorso, sconfitta a Roma dalla Krunic ma vincitrice di tutto il resto […] Il prossimo 18 febbraio compirà 36 anni. Non c’è mai un presto o un tardi per lasciare una vita e cominciarne un’altra. «Da domani sono in vacanza e ne sono felice» disse al Centrale. Lo direbbe ancora? «Non cambierei nulla di ciò che ho fatto. Era tempo di andare. La vita agonistica impone scelte cruciali, alcune di queste sono a carico dell’atleta, altre della persona. E poi esistono dei limiti. Che bisogna individuare prima che ci travolgano. Avevo deciso di smettere. L’ho fatto con serenità». Ma esiste una chiave per lasciare in modo così dolce? «Esiste un modo per investire sul “dopo” prima che arrivi. Bisogna dedicarsi a ciò che verrà prima che questo futuro si presenti. C’è voluto del tempo per ammetterlo, ma i rigori del professionismo stavano cominciando a pesarmi: gli orari, i ritmi, le regole conosciute e quelle meno in superficie, insomma tutto era diventato più faticoso». E non ha visto alternative… «Mi dicevano: ma dai Roby, continua a giocare il doppio, continui a guadagnare un po’ di soldini e resti nel circuito. E io rispondevo: ma che siete matti? Che me ne importa dei soldi. Scusate tanto, ma se mi pesa andare su e giù per il mondo giocando singolare e doppio, secondo voi quanto potrebbe pesarmi fare la stessa cosa per una partita di doppio qua e un’altra là, magari con dieci ore di fuso orario da compensare? No. Era ora. Non rimpiango nulla» […] Parliamo di colazioni, pranzi e cene di una campionessa? «Il rapporto col cibo è cruciale per capire la svolta. Adesso mi permetto ciò che mi sono sempre negata. Senza eccessi, certo, senza sbracare, ma non me frega niente se ho qualche chilo in più addosso. È come se l’adolescente si fosse fatta un po’ da parte per lasciare spazio alla donna. Poi verrà di nuovo il momento in cui farò più attenzione. È normale, è umano, mi dà anche più forza questo essermi sganciata da un codice di comportamento. Il mio corpo aveva bisogno di nuove gratificazioni. I primi segnali, l’indicazione che qualcosa doveva cambiare li ho avuti con gli acciacchi, sempre più presenti. L’ultimo al tendine di Achille. Il corpo chiedeva pietà. E in quei momenti sei tu che devi parlare con te stessa e decidere. Nessuno è dentro di te». Del resto lo deve proprio al suo corpo se è arrivata lassù… «E alla forza di volontà. Non è facile per una bimba minuta uscire allo scoperto e dire un giorno: guardate che io forse Serena la batto!». Ma gioca ancora a tennis? «Sì con gli amici, oppure quando do una mano al mio circolo (il Tennis Club Lombardo). Qualche volta mi diverto a padel. Ma non chiedetemi di prendere una racchetta e provare, solo provare, ad allenarmi. Potrei mordere…». Che rimane del “suo” tennis? «Difficile da trasmettere. I modelli sono altri ormai. Non so neppure se sia facile insegnarlo. Il mio era un po’ il tennis su vinile. Più che i colpi, sono culture diverse». Il legame sportivo con Sara Errani? «Si è interrotto per fisiologica, umana consunzione. Non c’è cosa che a questo mondo duri in eterno: vita, amore, amicizie. Anche un doppio può finire. Ma siamo in buoni rapporti e mi dispiace perciò che le è capitato (squalifica per doping, ndr). Ma lei è tosta tosta». Il tennis italiano al femminile sta pagando dazio ai vostri “glory days”? «Diciamo che forse era inevitabile. Noi eravamo un gruppo pazzesco. Una rigenerazione immediata del sistema era francamente impensabile» […] Fed Cup, tornei vinti, e poi quella pazzesca giornata a New York, in semifinale allo Us Open. Tutti ricorderanno per sempre quel suo viso eccitato mentre chiede alla folla un applauso per continuare a distruggere Serena. Ma la sua avversaria che faccia aveva? «Ne ebbe tante, di facce. Ma in quel momento non era problema mio» […] E la finale con Pennetta? «Ho perso ma dentro di me quella partita ha comunque assunto un significato particolare (e lo aveva anche prima che la giocassi). Era come la quadratura di un cerchio, il cerchio delle nostre due esistenze una accanto all’altra». Bisognerebbe che il suo “back” venisse elevato a patrimonio dell’umanità (sportiva). «Mi sentivo protetta dal mio rovescio. E pensare che non era così, all’inizio. Mio padre, per esempio, mi diceva: guarda che se giochi anche il rovescio bimane diventi più forte e più robusta da fondo. Ma non mi sono mai piegata. Pensavo: forse è vero, ma non ci sto. Sarei finita per diventare una delle tante. O mi sbaglio?».

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