Murray eroico esce tra gli applausi: “Ma forse non è finita” (Gibertini). Segnali azzurri (Crivelli). Riflettori sui favolosi (Azzolini). Ciao Murray (Clerici). Seppi, 55 Slam di fila ma non li dimostra (Semeraro)

Rassegna stampa

Murray eroico esce tra gli applausi: “Ma forse non è finita” (Gibertini). Segnali azzurri (Crivelli). Riflettori sui favolosi (Azzolini). Ciao Murray (Clerici). Seppi, 55 Slam di fila ma non li dimostra (Semeraro)

La rassegna stampa di martedì 15 gennaio 2019

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Murray eroico esce tra gli applausi: “Ma forse non è finita” (Vanni Gibertini, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Che storia fantastica di sport e di umanità sarebbe stata se Andy Murray, ancora una volta irriducibile Braveheart sebbene pensionato in pectore… e all’anca, fosse riuscito a completare un’incredibile rimonta a spese dello spagnolo Bautista Agut che aveva vinto piuttosto agevolmente primo e secondo set nella giornata d’apertura dell’Australian Open nella quale Roger Federer e Rafa Nadal hanno passeggiato rispettivamente su l’uzbeko Istomin e l’australiano Duckworth. Murray ancora una volta, pur zoppicando fra un punto e l’altro, ha vinto terzo e quarto set, suscitando una partecipazione entusiasta, quasi commossa di tutti i 10.000 spettatori della HiSense Arena, mentre mamma Judith immortalava tutto con il cellulare e con gli occhi umidi, vicina all’altro figlio, Jamie, il doppista che è stato anche lui n.1 del mondo e ha vinto una Davis al fianco di Andy. Ma il quinto set, vinto 62 dallo spagnolo che aveva vinto una settimana fa il torneo di Doha, ha detto che le leggi dello sport possono anche essere impietose e se ne fregano dei sentimentalismi. Applausi molto più scroscianti, prevedibilmente, per la vittima, dell’anca, della sfortuna e di Agut, che per il vincitore. Ora Murray potrà cercare tra mille dolori di arrivare fino a Wimbledon per l’addio al gioco che aveva annunciato, oppure operarsi e rimandare il ritiro magari all’anno prossimo. Una scelta dura per uomini veri. Magari più piccoli dei due giganti yankee, Opelka, 2 metri e 11, e Isner, 2 metri e 8, che si sono sfidati a colpi di ace, 87 (47 Isner e 40 Opelka), ma alla fine ha vinto il più alto, quello che ne ha fatti di meno. Quattro set immancabilmente tutti conclusi al tiebreak: 76 67 76 76. Gli italiani, intanto, non si aspettavano forse 3 vittorie su 4 duelli. Hanno vinto Seppi (su Johnson), Travaglia (Andreozzi, che è argentino), Fabbiano (Kubler). Prevedibile la sconfitta di Berrettini con Tsitsipas, ma più che onorevole: 67 64 63 76.


Murray, una resa alla Braveheart: “Chissà, forse ci rivedremo…” (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Certe notti va così. Che ti senti padrone di un posto anche se non lo hai veramente posseduto mai. Andy Murray a Melbourne ha perso cinque finali, cinque ferite piantate nei ricordi. Ieri ci ha perso un primo turno ma alla fine il vincitore sembrava lui. E non solo di una partita. «Se questa è stata l’ultima, va bene così», ha detto alla fine Muzza, lo sguardo sottacqua fra lacrime, fatica, nostalgia di quello che è stato e di quello che potrebbe essere, ma ancora non si sa. Sullo schermo stava scorrendo un video dal sapore sgradevolmente postumo, un mausoleo in vita costruito con i saluti dei suoi colleghi, da Federer a Nadal, da Djokovic alla Wozniacki. Allora gli occhi gli si sono asciugati, la voce è tornata ferma. «Forse ci rivedremo…». Alla vigilia del torneo aveva annunciato il ritiro, spiegato che spera di reggere fino a Wimbledon per dire addio al tennis nel posto più adatto, nella sua reggia verde, ma l’idea di un funerale (agonistico) lungo sette mesi non può andargli troppo a genio. E che Murray, cartilagini a parte, sia ancora un campione vero, agonisticamente integro, lo si è visto ieri. Anche dentro ad una sconfitta. Cinque set giocati in faccia al dolore, persi, poi rimontati, poi definitivamente persi contro Roberto Bautista Agut, il più british degli spagnoli, appassionato di equitazione, che dopo un doppio 6-4 è andato in crisi davanti al campione mezzo ritirato, mezzo sciancato, mai battuto. Camminava a scatti, Murray, arrancando come un operaio stanco in un racconto di Dickens, eppure è riuscito a prendersi due tie-break consecutivi, nonostante l’anca ad orologeria che mandava scintille segrete. Un gemito ad ogni colpo, e poi botte alla coscia dolorante, lato destro, quello del diritto che non ne vuole più sapere di funzionare come un tempo. Occhi al cielo, bocca spalancata a sacramentare, come ha fatto anche nel tweet post partita: «What a fucking night…». Che notte, questa notte. Fottuta di emozioni che non sai. Una vittoria sarebbe stata subito leggenda, «ma questa è stata comunque la partita più speciale della mia carriera, anche se era un primo turno, e anche se ho perso». In tribuna mamma Judy, in abitino pitonato, l’immagine dell’orgoglio materno e british, che riprendeva la scena con il telefonino, a fianco il fratello Jamie. Poi tutti gli altri, i 10.000 della Melbourne Arena, il tifoso con il kilt e la maglia della nazionale di rugby, la groupie scollacciata, l’esercito scomposto, variopinto ed entusiasta del Braveheart femminista e indipendentista giunto all’ultima battaglia. O magari penultima, terzultima. Chissà. Il pubblico sul 5-2 per Bautista nel quinto set lo ha soffocato di amore, lui ha rischiato il lacrimone in mondovisione mentre serviva. Ha dovuto fermarsi, alzare la mano, ringraziare. «Mi sono emozionato, non credo sia successo neppure a Wimbledon quando stavo per vincere il torneo. Ho sempre amato giocare qui in Australia, i fan sanno come sostenerti, amano lo sport. Davanti a me ho la possibilità di operarmi una seconda volta, ma senza garanzia di tornare a giocare. Ora ho la sensazione che avrei potuto, dovuto fare meglio nella mia carriera. Mi sono sempre allenato duramente, a volte forse troppo duramente. Ma quello che so è che ho dato tutto a questo sport» […]


Segnali azzurri. Travaglia nuova vita. Che grinta l’altra Italia (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

C’è l’amico affidabile e costante, una garanzia nelle partite che si possono vincere. Con lui, il ragazzo di talento risorto almeno tre volte e l’ex promessa tascabile sempre in bilico tra l’inferno dei Challenger e il nirvana del tennis che conta. È l’altra Italia, quella che non sogna (o non sogna più) la top ten come Fognini e Cecchinato, ma capace di illuminare Melbourne con l’orgoglio di una passione infinita e con i 66.000 euro del secondo turno già in tasca. Intendiamoci, ce ne fossero di carriere come quelle di Andreas Seppi, da 15 anni vessillo di serietà e applicazione. Solo che alla soglia dei 35 anni, con un’anca sbilenca e un futuro già disegnato sulle montagne del Colorado, chiedergli sempre il top potrebbe sembrare un azzardo. Però l’Australia, per lui, non è un posto normale: l’estate down under gli offre le condizioni che predilige, e se nelle prime sei partecipazioni allo Slam inaugurale collezionò appena 3 vittorie, nelle ultime sei è approdato quattro volte agli ottavi. La 55a presenza consecutiva in un Major viene bagnata da un successo non banale sullo yankee Johnson, testa di serie numero 31, che è un amico (lo ha aiutato nelle procedure per la green card), ma non riesce a opporsi ai colpi filanti del biondo di Caldaro, ancorato a un servizio da otto prime vincenti su dieci. Prossimo step, il non irresistibile aussie Thompson: «Oggettivamente, poteva capitarmi di peggio. Mi sento bene fisicamente, ho lavorato bene durante la off season e anche se ho perso a Sydney con De Minaur, certi risultati aiutano a svegliarti con la voglia di allenarti […] Aggressività: è la parola d’ordine che si è dato «Steto» Travaglia di fronte all’ennesimo bivio di una carriera impantanatasi troppe volte nelle cartelle cliniche. Nel 2011 cadde dalle scale di casa rompendo i vetri di una finestra e rischiando di perdere la mano sinistra, nel 2015 si fratturò lo scafoide e l’anno dopo fece crac la schiena, con tre mesi immobile a letto. Più forte del destino, l’ascolano è ripartito dal team di Cecchinato, facendosi allenare da Vagnozzi. Uscito dalle qualificazioni, con 23 ace travolge l’argentino Andreozzi e il nuovo corso si sublima pure nella scioltezza con cui affronta i 30 gradi australiani, dopo che a New York, a settembre, si era ritirato stremato per il caldo […] Quella è la linea di demarcazione tra il volgo e la nobiltà, un crinale su cui viaggia da sempre la vita agonistica di Fabbiano. A Melbourne non aveva mai vinto, si toglie lo sfizio battendo la wild card di casa Kubler, uno che due anni fa, con le ginocchia a pezzi, aveva 14 centesimi sul conto (e si è fatto tatuare il numero), prima che l’invito degli Australian Open (e i 47.000 euro del primo turno) gli restituisse il sorriso […]


Riflettori sui favolosi. Tutti in piedi per Murray (Daniele Azzolini, Tuttosport)

C’è un tennis che non esiste, «perché il tennis vero è un’altra cosa». E uno che non dovrebbe esistere, «perché troppo punitivo». C’è anche un tennis ai confini della realtà, e non ne siamo mai sazi. L’anno che attende l’avvento del nuovo, si ritrova già dopo la prima giornata del suo Slam d’avvio stretto nell’abbraccio di chi il tennis lo sa giocare davvero. E non c’è niente di nuovo. Lo stesso fa il pubblico di Melbourne che di tennis se ne intende, perché a quei richiami non rinuncia, anzi, li evoca, li insegue, e alla fine li raccoglie facendoli propri, ancora una volta, come accade ormai da quindici anni. Sempre più stropicciati, ammaccati e tormentati, i Favolosi del tennis conquistano le luci della ribalta, anche fra le torture di un mestiere che molto ha preteso da loro, anche fra le ambasce di non essere più quelli di una volta. È una pubblica ostensione quella che mette in scena Andy Murray non rinunciando a perdere svelto contro Bautista Agut come sarebbe stato utile al suo fisico ormai stremato; è una cerimonia di addio (il suo ultimo Australian Open) in cui si mostra fragile senza pudore, e senza infingimenti. L’arte non ha senso, dicono, senza una manifestazione della realtà. E il tennis? Non ha anch’esso qualcosa d’artistico? Risoluto, anche Rafa s’iscrive alla setta dei tennisti estinti che succhiano il midollo del nostro sport, negando all’avversario che fuori da certi schemi, là dove quello ha cercato di condurlo, possa ancora esistere – anche solo per un attimo fuggente – una disciplina chiamata tennis. «Non so a che cosa abbia giocato – dice Nadal dell’anatra meritevole James Duckworth che ha cercato di far punto su ogni colpo, nella speranza di non farlo giocare -, ma non credo si possa definire tennis, e non lo dico con malevolenza, ma solo perché è un modo di costruire il match che non rientra nei miei modi di fare o di pensare». Deve aver pensato qualcosa di simile Denis Istomin, uzbeko oggi moscovita, che agli Australian Open del 2006 perse 6-2 6-3 6-2 da Federer alla sua prima apparizione nello Slam, e oggi, dopo tredici anni, ancora ci perde 6-3 6-4 6-4. Ma qui il discorso è ribaltato, ed è Denis a scontare le umili origini tennistiche. Federer mette in mostra cose che lui, umano, mai avrebbe potuto immaginare. Lo tormenta di palle corte, lo sfiletta come uno sgombro passandolo ai fianchi le poche volte che quello tenta una sortita, e non gli lascia una sola palla break per farsene vanto con gli amici del circolo. L’applausometro segna quota cento per Andy Murray, per il suo eroismo non ripagato. Si vede da lontano come sia costretto a poggiare timidamente la gamba (la destra) per non aumentare il dolore all’anca sfrigolata, e Bautista, sempre sconfitto quando Murray era sano, ha buon gioco di rimessa. In fondo, basta allungare lo scambio ed è Andy a rabberciare i suoi colpi. Eppure Murray non vuol perdere, quanto meno vuol salutare il pubblico dando battaglia […] Al quinto, Murray non ne ha più e rotola via dal confronta. Ma questa era una sfida impossibile, già persa in partenza, l’ultima di Murray a Melbourne dove ha giocato cinque finali smarrendole tutte […] Doveva essere l’anno degli annunci questo 2019, dei ricambi, delle rottamazioni, del Futuro a un passo. Ma i Favolosi si sono già ripresi la scena.


Ciao Murray. No happy end. Ma non siamo ai saluti finali (Gianni Clerici, Repubblica)

Andy Murray, che io davo ritirato dopo aver letto non una diagnosi del suo medico, ma una attendibile informazione, mi ha smentito. Avevo scritto sabato 12 gennaio che, dopo un’annata di sofferenze culminate con un’operazione chirurgica, non ce la faceva più con l’anca. Aveva difficoltà a togliersi anche un calzino. Da questo avevo creduto di desumere che il suo match contro Roberto Bautista Agut, fresco vincitore di Doha giusto la settimana scorsa, torneo precedente lo Australian Open, sarebbe stato l’ultimo. Invece ha giocato a Melbourne e dice che forse ci riproverà a Wimbledon, come qualcuno che rifiuta non solo di morire, ma di identificare l’abbandono del tennis con una fine simbolicamente mortale. Essere rimasto più di quattro ore su un campo di cemento, contro un tipo che ha trionfato a Doha vincendo, tra l’altro, terzo e quarto set entrambi ai tie-break (lo spagnolo s’è imposto con un 6-4, 6-4, 6-7, 6-7, 6-2) e, dopo, aver dichiarato in press conference: «È importante avere un buon ricordo, e tanti amici nel tour» non rappresenta certo il tipico addio che si potrebbe immaginare in un film sul tennis quanto una precedente affermazione: «Ho fatto tutto quello che era possibile per guarire, ma non ha funzionato». Si aggiunga che la partita è durata quattro ore e venti, e che Bautista Agut ha confermato tutte le qualità dei suoi vecchi amici valenciani, Juan Carlos Ferrero e David Ferrer, il primo salito al numero 3 del mondo nel 2013, il secondo addirittura al numero 1 nel 2003. La curiosità, segnalata dal mio amico Stefano Semeraro, che era fisicamente presente a Doha, è che Bautista Agut poteva essere un calciatore, avendo fatto parte, tredicenne, della squadra juniores della sua città, e addirittura un fantino, se ancora conserva nella sua fattoria qualcosa come ben tre purosangue. Quanto a infortuni, senza raggiungere i livelli di Andy Murray, ricordo l’anno passato quando, dopo il Roland Garros, rimase a lungo ai margini per delle crisi addominali mentre ora la fortuna di Doha seguita dal primo turno di Melbourne, lo spinge a immaginarsi nei Primi Dieci. Non ha, in fondo, più di trent’anni, e nell’ottobre del 2016 aveva comunque raggiunto la posizione numero tredici.


Seppi, 55 slam di fila ma non li dimostra (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

In Colorado, vicino a Denver, dove vive adesso insieme alla moglie Michela, quelli come lui li chiamano “unsung heroes”: gli eroi trascurati. Non celebrati, non cantati. Okay, il termine eroe, come eccepirebbe Roger Federer, uno dei tanti che contro Andreas Seppi in carriera ci hanno rimesso la partita almeno una volta, per lo sport è sempre sovradimensionato. E poi Andreas sotto il cappellino nasconde molta autoironia, molto understatement e poca retorica, ma insomma ci siamo capiti. Il “Seppiolo”, come lo chiamano quelli del tennis, al 55° Slam consecutivo in carriera (ma in tutto sono 56), di certo è uno dei membri più sottovalutati di un club molto frequentato – di over 30 ce ne sono 43 in tabellone quest’anno a Melbourne – che peraltro comprende ormai la meglio società tennistica, da Federer a Nadal, da Djokovic a Murray, Del Potro, Berdych e via invecchiando. Invecchiando bene però, visto che nonostante un’anca acciaccata come “Muzza”, che lo costringe a periodiche infiltrazioni, a quasi 35 anni Andy è risalito al numero 35 del mondo e adesso se la vedrà con Thompson quando in molti lo davano per smarrito nel Far West (a maggio del 2017 era sceso al numero 102) e tre giorni fa è arrivato in finale a Sydney, la sua nona in carriera, arrendendosi solo ad un tipetto indemoniato e più giovane di lui di 16 anni, il padroncino di casa Alex De Minaur. Al debutto agli Australian Open ieri ha rimandato a casa in quattro set Steve Johnson, che in classifica gli sta avanti un posto, con cui aveva perso tre volte su tre in passato, e che insieme con John Isner e Sam Querrey gli ha dato una mano ad ottenere la green card di residente negli States. La riconoscenza gliela mostrerà in altro modo. «Ho fatto una buona preparazione – ha spiegato, il cowboy di Caldaro, aggiustandosi il cappellino – come del resto anche l’anno scorso. Stavolta ho avuto l’impressione che la mia palla gli desse più fastidio, e lui ha sbagliato qualche rovescio in più rispetto al solito». A Sydney peraltro si è visto un Seppi un po’ diverso: meno muretti da fondocampo, meno scambi vinti in progressione e più soluzioni rapide, ad accorciare lo scambio, come prevede a pagina 1 il Manuale del Tennista Maturo (copyright Federer). Le good vibration, i ricordi buoni, poi nello sport aiutano sempre a trasformare la teoria in pratica, e a Melbourne Andreas è decisamente nel suo brodo: quattro ottavi di finale, un successo epocale contro Federer nel 2015 e altre vittorie da raccolta premi contro Kyrgios, Cilic, Hewitt, Clement. A Doha, sconfitto al primo turno da Rublev, era ancora un po’ imballato, a Sydney ha iniziato a carburare alla perfezione […] In premio potrebbe arrivare un terzo turno con Kevin Anderson: altro emigrato negli States che vince molto, parla poco e bada il giusto ai complimenti. Un anti-eroe di successo, proprio come Andy.

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