60 anni di McEnroe, la prima rockstar del tennis

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60 anni di McEnroe, la prima rockstar del tennis

Auguri all’uomo che ha preso uno sport per pochi e lo ha proiettato nell’immaginario collettivo

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John McEnroe - Roland Garros 2018, torneo delle leggende (foto Roberto Dell'Olivo)
 

Se si va sulla pagina Wikipedia di John McEnroe si trovano ben pochi record che sono rimasti nella storia del tennis. Quasi tutti riguardano la sua magica stagione 1984, terminata con quasi il 90 per cento di set vinti e undici vittorie consecutive nei tornei dello Slam senza perdere un set. Oltre che l’edizione di Wimbledon più dominata della storia del tennis maschile per percentuale di game vinti. I suoi 7 Major, concentrati tutti tra Londra e New York, impallidiscono se confrontati ai 20 di Federer, ai 17 di Nadal e ai 15 di Djokovic.

Ma descrivere la rilevanza di McEnroe nella storia del tennis con i semplici numeri è come pretendere di descrivere Guernica di Picasso guardandolo da un metro di distanza. Impossibile insomma. E la bigger picture, come la chiamano gli americani, racconta tutta un’altra storia. Racconta della prima rockstar del tennis. Forse ancora oggi la più grande di sempre. Fuori dalle regole, fuori dagli schemi, fuori dalle etichette. Un “supermonello” irriverente che all’inizio degli anni ottanta ha fatto irruzione in un club per gentiluomini e lo ha proiettato nell’immaginario collettivo, nella cultura pop.

E così uno sport apparentemente inaccessibile, fatto di freddi dritti, rovesci, servizi e volée ha preso i colori vividi e i contrasti nitidi di una soap opera facilmente comprensibile ad ogni persona. A partire da quelli della rivalità tra lui e Bjorn Borg, per molti versi la più grande del tennis: serve and volley contro gioco da fondocampo, carattere estroverso ed esuberante contro personalità mite e schiva, fascetta sui capelli ricci contro fascetta sui capelli lisci. E non è importante che quella finale di Wimbledon, del quale non c’è nemmeno bisogno di dire l’anno, l’abbia persa. Anzi è persino utile a ricordarci di quanto la sua eredità trascenda dalle vittorie, comunque tantissime.

L’importante è che lui fosse lì, in quel preciso momento, con quell’aria un po’ imbronciata e il look da giovane cantante rock che ha fatto troppo tardi la sera precedente, a mostraci qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo. A presentarsi come un personaggio riconoscibile e a rendere tale l’anti-personaggio Borg di riflesso. A lui va dunque il merito di aver spettacolarizzato, nel senso migliore del termine, questo sport, e a portarlo dove non era mai arrivato, nel cuore di tante nuove persone, che si sono trasformati rapidamente in appassionati.

Ci è riuscito più per merito della sua personalità che della sua inimitabile volée. E il carisma non è di certo una qualità che si perde. Tanto che ancora oggi quell’irriverente ragazzo newyorkese nato per caso in Germania, è un amato protagonista della scena tennistica mondiale. Che sia in campo per un match d’esibizione, in cabina di commento o sulla panchina del Team World alla Laver Cup. Perché Mac è ancora lui, ancora provocatorio, ancora pungente, ancora imprevedibile. Ancora capace di avvicinare con ironia il tennis alla gente. E viene da chiedersi se sia lui, quello che non può essere serio, quando qualcuno ci ricorda che oggi debba spegnere ben sessanta candeline.

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