US Open: Kristie Ahn è finalmente profeta in patria

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US Open: Kristie Ahn è finalmente profeta in patria

La ventisettenne di origini coreane è stata la sorpresa della prima settimana, vincendo tre match nello Slam di casa a undici anni di distanza dalla prima e unica apparizione nel tabellone principale

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Kristie Ahn - US Open 2019 (foto via Twitter, @usopen)
 

Kristie Ahn, N. 141 WTA, deve aver imparato presto a pazientare, perché nel suo caso la gavetta assume proporzioni da “L’amore ai tempi del colera”: la sua unica presenza nel main draw della Grande Mela risaliva addirittura al 2008, quando, sedicenne, si qualificò per poi perdere al primo turno con Dinara Safina. La precocità di quel risultato sembra averla perseguitata per un decennio, tanto che dopo la sorprendente vittoria con Kuznetsova al primo turno ha detto di essersela finalmente lasciata alle spalle, e “che riposi in pace”.

Ora invece è la storia romantica della prima settimana degli US Open, eufemisticamente un Carneade (era 0-3 negli Slam fino a sei giorni fa), soprattutto per il pubblico di casa, un po’ per lo stato agonizzante della controparte maschile, incapace di trovare eredi per la più grande tradizione tennistica e già fuori al 100% dopo i primi tre turni, un po’ perché Ahn è nativa proprio di Flushing Meadows, tanto che il giorno dopo la sconfitta al primo turno era andata a scuola come se nulla fosse, i compagni perlopiù ignari dell’accaduto.

Omaggiata di una wild card, non ha ancora perso un set, battendo due campionesse Slam sulla sua strada, Svetlana Kuznetsova (regina di New York nel 2004) e Jelena Ostapenko. Non ha un tennis potente, tutt’altro, ma ha grande abnegazione difensiva, court coverage notevole unita a una grande velocità di piedi, e delle aperture di dritto leggermente ritardate che la rendono difficile da leggere. Soprattutto, però, sembra aver trovato una solidità mentale diversa, come ha più volte rimarcato in conferenza stampa, ribadendo un concetto talmente abusato da dover essere vero, quello del “dig deeper”: “Sono fiera di come sono riuscita a rimanere concentrata e a non farmi prendere dal nervosismo. [Ostapenko] ha probabilmente rimontato ogni svantaggio possibile in carriera, per questo volevo chiudere al primo match point a mia disposizione”.

La sua storia è paradigmatica: a 16 anni era convinta che sarebbe diventata una presenza fissa degli US Open, a 17 già non ci credeva più, classico caso di burn out tennistico, e si era rifugiata fra le pieghe dello sport universitario, ancorché di altissimo livello, a Stanford – i Cardinal hanno vinto 20 dei 38 titoli universitari femminili, di cui uno con lei in squadra, nel 2013. La sua analisi delle prime difficoltà post-universitarie è molto lucida, e dà adito a un interessante paradosso. Laureata in Science, Technology and Society (i corsi undergraduate americani hanno sempre dei nomi vaghi, specialmente per gli atleti), avrebbe potuto trovare un lavoro stabile nel mondo degli affari, come volevano i genitori, ma la decisione finale fu per il tennis pro. Il problema è che avere un’altra scelta è diventata un’arma a doppio taglio, nelle sue parole: “Da una parte sai di poterti appoggiare su un’altra carriera, ma dall’altra, la presenza di quest’alternativa può diventare demotivante quando le cose vanno male, perché ti chiedi, che senso ha continuare?”.

Pressata dalla famiglia, aveva deciso che il 2017 sarebbe stato il suo ultimo anno, con una classifica ben al di fuori della Top 200, ma da lì qualcosa è cambiato, e con una serie di ottimi risultati Ahn si era portata a ridosso delle prime 100 (best ranking di N. 105), ma a fine 2018 era scesa di nuovo al duecentesimo posto. Ironicamente, stavolta è stata la concreta prospettiva di un’altra carriera a tenerla sul circuito: eletta nel WTA Council, voleva mettere a curriculum l’intero mandato biennale, in risposta al padre che le ricordava continuamente di aggiornare il CV.

Così, nell’attesa di smettere in favore di turni “9 to 5”, i risultati hanno ricominciato ad arrivare, dapprima negli ITF (semifinali a Fukuoka e Berkeley, finale persa a Rancho Santa Fe con Nicole Gibbs a febbraio), poi al piano di sopra: la qualificazione a Wimbledon è stata una liberazione per lei (aveva giocato in Australia lo scorso anno, ma solo grazie a una wildcard), e le hanno fatto seguito un’altra semifinale ITF, a Berkeley, vicino all’alma mater, i quarti di finale a San Josè, e ora l’exploit casalingo.

Il pubblico sembra averla adottata in pieno, soprattutto nell’ultimo match, sul Grandstand. Non avete idea di quanto il pubblico mi abbia aiutata. Non avevo mai giocato in uno stadio tanto pieno, quindi è stato incredibile che la maggior parte tifasse per me”, per poi aggiungere: “È stato molto emozionante, perché ho chiuso con un ace, cosa che non mi capita mai, così mi sono un po’ lasciata andare alle emozioni quando il pubblico ha esultato. Ripensandoci mi sono detta di aver pianto come una bambina, ma tutti i miei amici hanno detto di aver pianto a loro volta, quindi immagino vada bene così”.

Elaborando sul bisogno di positività, ha detto: “Da Wimbledon in avanti sono riuscita ad accumulare tante piccole vittorie. Dopo un po’, diventano come una torre, che adesso è alta come l’Empire State Building!”. Allo stesso tempo, però, la lucidità di cui sopra sembra non averla abbandonata, almeno a parole: “Mentirei se dicessi che sono felice di non aver avuto successo da subito, ma allo stesso tempo non sono sicura che sarei arrivata fin qui se tutto questo mi fosse capitato in un altro momento. Cerco di non elaborare quello che mi sta succedendo nelle ultime settimane, per non pensarci troppo. Quando torno in albergo penso solo alla grande opportunità che sto avendo e alla grande esperienza della prima settimana. Nessuno può portarmela via, perciò sono semplicemente contenta di viverla”.

Al quarto turno la attende Elise Mertens, anche lei molto brillante fin qui – solo 14 game persi in tre match: “Non so come sarebbe andare ai quarti, di solito inizio a pensarci un’ora prima. È come procrastinare quando si scrive un saggio. Se ci penso solo un’ora prima, sarò nervosa solo per un’ora”. [N.B. di solito i giornalisti vengono accusati di abbellire le dichiarazioni degli sportivi ampliandone il lessico, ma con Ahn pare non essercene bisogno, dato che lei stessa ha usato il termine “procrastinate” in conferenza stampa].

Nel 2016, la belga le aveva precluso l’accesso al main draw newyorchese battendola all’ultimo turno delle qualificazioni, ma il mese scorso, a San Josè, è stato 6-3 6-3 per lei, quindi perché non sognare ancora un po’. L’ufficio può aspettare.

Tommaso Villa

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