Come si può rovinare una giovane tennista: la storia di Monique Viele

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Come si può rovinare una giovane tennista: la storia di Monique Viele

Ha solo un anno in meno di Kim Clijsters, il suo primo manager è stato un certo Donald Trump e non ha mai vinto una partita nel circuito maggiore. La storia di un tennista… che non lo è mai stata, raccontata da Ben Rothenberg

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Pochi ricorderanno la clamorosa meteora Monique Viele, classe 1984, che è stata il soggetto, accattivante anziché no, della partecipazione del giornalista Ben Rothenberg, star di Twitter, al podcast Thirty Love di Carl Bialik, che potete ascoltare qui.

Viele, ragazza prodigio, minacciò di portare la WTA in tribunale per via della “Capriati Rule Age Eligibility Rule”, norma eponima che le stava impedendo di passare professionista a 14 anni, nel 1999. La teenager vinse il braccio di ferro, esordendo (male) a Tokyo due settimane prima del suo quindicesimo compleanno, nel settembre di quell’anno, ma la sovra-esposizione mediatica (a cui contribuì in larga misura il suo manager dell’epoca, tale Donald Trump, che le fece firmare contratti milionari con Fila e Yonex) le rovinò la carriera, poiché non vinse mai un singolo match nel circuito maggiore, non superò la posizione N. 817 in classifica mondiale, e giocò il suo ultimo match a nemmeno 17 anni, nel settembre del 2001.

Rothenberg è partito da un tema che ci riporta ad un’epoca pre-YouTube: è possibile convincere il resto del mondo che si è una grande promessa? In passato il giornalista si era occupato di Darko Grncarov, shibboleth macedone che andò vicino a truffare Adidas e Wilson promuovendosi come una star all’Australian Open del 2018, mentre bel caso di Viele la questione è più controversa: aveva battuto delle top 100 a 14 anni, e aveva vinto tornei minori, eppure non esiste un singolo frame della giovane che gioca a tennis in tutto il web, cosa che già di per sé lascia spazio alle mitologie. E proprio come in una saga, l’unico filo conduttore è il passaparola di gente convinta che sì, Monique Viele era la next big thing, ed era già chiaro quando aveva 13 anni.

La sopracitata Capriati è un parallelismo importante nella vicenda sportiva di Monique: Top 10 a 14 anni (!), bruciata a 17, si fermò per due anni per poi tornare lentamente a solcare i grandi palcoscenici, riuscendo finalmente a vincere Slam e diventare N.1 a 24 – Viele avrebbe potuto fare lo stesso?

Rothenberg si è detto abbastanza convinto che sarebbe potuta diventare qualcuno, se solo fosse stata gestita diversamente (o se fosse esplosa oggi), ma allo stesso tempo ha richiamato l’attenzione sulla cultura dell’epoca, una sorta di “sindrome Williams” che prescriveva il lancio immediato nel professionismo nei casi di talento acclarato e precoce, come successo in particolare a Venus e Serena (con la grande differenza che Venus esordì senza sponsor), ma anche a Jennifer Capriati e Martina Hingis – questo sembra essere un elemento significativo della cultura sportiva americana dell’epoca, se pensiamo che dal 1995 in avanti sempre più liceali passano direttamente alla NBA saltando l’università, come nel caso di Kevin Garnett, Kobe Bryant, e più avanti LeBron James, prima che la Lega lo impedisse a partire dal 2006.

In fondo, però, è anche difficile incolpare i suoi Pigmalioni, che se da un lato hanno pensato solo ad arricchirla (e ad arricchirsi) nel breve termine, dall’altro le hanno fatto avere due milioni di dollari quando poteva a malapena guidare, fornendole dei mezzi di sostentamento che la stragrande maggioranza dei giocatori e delle giocatrici si sognano. Questo è un tema affascinante che i tifosi spesso dimenticano, perché giustamente affezionati a una visione decubertiniana del gioco, ma che negli ultimi anni è emerso sempre di più, una sorta di “siamo ciò che mangiamo” di Feuerbach in salsa tennistica che spesso spiega la riluttanza di alcuni di fare il passo ulteriore verso la grandezza, in quanto già soddisfatti della vita data loro dal tennis professionistico.

E un altro aspetto che Rothenberg sottolinea è che a quei livelli, soprattutto a quelli più alti, c’è una quantità incredibilmente numerosa di fattori che devono funzionare alla perfezione, dalla preparazione alle finanze alla salute, e basta una minima scossa per abbattere il Djenga olistico di un giocatore professionista – il paragone scelto da Ben è quello di una start-up, che può implodere rapidamente se anche solo un aspetto non è stato calcolato bene, o di un lavoro a tempo determinato, dove non c’è sicurezza a lungo termine, soprattutto per un nuovo arrivato.

Nel caso specifico, più che di minima scossa si può parlare di un vero e proprio cataclisma, perché Monique perse suo padre proprio in quegli anni, perdendo il riferimento principale e cadendo preda di tutti coloro che volevano un pezzo della sua ascesa. Dell’empatia è perciò d’obbligo, visto che tanti si sono persi per molto meno, come detto nel podcast in riferimento al caso emblematico del tennis americano contemporaneo, Jack Sock, passato dalla Top 10 a non avere ranking in due anni.

La sintesi della deriva della carriera di Monique Viele dopo il lutto è il modo in cui un’adolescente venne trasformata in oggetto sessuale a scopo di marketing, una Lolita solo marginalmente più consenziente – ma d’altronde anche il personaggio di Nabokov viene inizialmente presentato come complice nelle memorie del suo carceriere. Qui il modello diventa Anna Kournikova: se la bella russa era così diventata l’atleta donna più pagata al mondo in quel periodo, perché non riprodurre il suo modello? Quanto il mondo sia cambiato è visibile nel modo in cui sta venendo promossa Coco Gauff, il cui brand viene descritto da Rothenberg come fondato sulla sua genuinità di quindicenne, senza la minima reificazione carnale, e il modo in cui la carriera di Genie Bouchard si è arenata una volta avviata una carriera a latere di questo tipo, cosa che peraltro era successa anche a Caroline Wozniacki per un certo periodo.

Ma come si approcciavano i media dei tardi anni 90 a questo fenomeno inesploso? Rothenberg riporta la grande contraddizione che pervade anche il giornalismo contemporaneo: da una parte, grande scetticismo, in particolare dall’arrivo di Donald Trump (definito “una barzelletta” al tempo), dall’altra, però, una enorme copertura mediatica, all’insegna del “non esiste cattiva pubblicità”, il grande regalo che la stampa fa a personaggi che non vedono l’ora di essere sulla bocca di tutti, ma che diventa un anatema per giovani di talento, soprattutto nello sport, anche se in questo campo va sottolineata la frequente complicità dei campioni del passato, spesso solerti a incoronare il nuovo pur sapendo a cosa andranno incontro.

Va detto che, come sottolinea il reporter americano, ora c’è molta più attenzione a fare le cose con calma, cercando di incanalare i giovani nei tornei junior (ad eccezione di Naomi Osaka), anche se sarebbe interessante parlare dell’effettivo rapporto causa-effetto in questo caso, soprattutto nel maschile: c’è più attenzione a non causare l’implosione di un ragazzo prodigio perché si è imparato dagli errori del passato, o ce ne si occupa di meno perché i giovani hanno effettivamente più difficoltà a sfondare nel tennis di oggi? Impossibile stabilirlo con certezza, anche se Rothenberg si dice sicuro che la vicenda di Viele sia diventata un exemplum che ha fatto da monito per tutte le parti in causa, e ha probabilmente ragione.

Monique Viele e suo papà Richard

L’epitome di questa attitudine è Rick Macci, noto coach americano (fra i suoi assistiti Capriati, le Williams, Sharapova, e Roddick), che la prese sotto la sua ala per poi sostanzialmente abbandonarla dopo la sconfitta all’esordio da pro. Macci ha dedicato alla vicenda un capitolo delle sue umilissime memorie, Macci Magic, e ha parlato con Rothenberg nella preparazione dello speciale su Monique: ciò che il giornalista riporta è la mentalità imprenditoriale del coach, che ancora oggi non considera la sua breve esperienza con la giovane come un capitolo negativo della sua carriera, perché gli diede, ancora una volta, tantissima pubblicità presso genitori convinti di avere il prossimo Sampras in fasce.

E lo stesso vale per Trump, che negli anni 90 aveva spesso cercato una partnership commerciale nel tennis femminile, desideroso di consolidare il proprio status di imprenditore del lusso, e molti erano rimasti sorpresi quando di fatto divenne il manager di Viele, e perché non avvezzo al mondo del tennis (in questo caso Rothenberg fa un parallelismo con Jay-Z e Frances Tiafoe, altro talento la cui carriera sta andando a sud molto in fretta), e perché il suo gruppo, T Management, era tecnicamente una modeling agency, e qui si ritorna ad Anna Kournikova e al successo misurato in guadagni.

Monique Viele appare dunque il prodotto di un sistema ormai decaduto, e di cui forse è stata la vittima perfetta, come testimoniato da tenniste che preferivano non associarsi con l’oggettivazione del proprio talento (Monica Seles, in particolare, stando al libro Venus Envy di Jon Wertheim, non reagì bene all’immagine di Monique che canta l’inno nazionale con annesso tacco 12 prima di affrontarla in un match del World Team Tennis del 2000), ed è tuttora oggetto di scherno per tanti fan di lunga data, e quindi la domanda è sempre la stessa: se si continua a parlare di lei (generando interesse e dibattito per lo sport), davvero non esiste la cattiva pubblicità?  E se è così, qual è il limite? Forse una quattordicenne che è stata coperta di soldi senza aver mai giocato nel circuito maggiore, che come limite sembra un po’ tenue, ma forse ha contribuito a salvare chi è venuto dopo.     

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