Quella volta che Andrea Gaudenzi gettò il cuore oltre l'ostacolo, ma non bastò

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Quella volta che Andrea Gaudenzi gettò il cuore oltre l’ostacolo, ma non bastò

4 dicembre 1998, Forum di Assago di Milano, terra rossa: finale di Coppa Davis. Andrea rimonta Norman al quinto set, poi si sente un rumore sinistro. E il sogno svanisce

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Dicembre 1998. L’anno nefasto del Cermis e dell’alluvione di Sarno volge al termine e l’Italia che si lecca le ferite prova a dare di sé la miglior versione possibile aggrappandosi come spesso gli accade allo sport. Se Pantani con la doppietta Giro-Tour ha già scritto tra primavera e estate un’indimenticabile pagina di ciclismo, l’inverno chiama all’appuntamento con la storia la squadra azzurra di Coppa Davis. I ragazzi capitanati da Pasta Kid, al secolo Paolo Bertolucci, si sono infatti guadagnati l’accesso alla finalissima contro la Svezia da disputarsi tra le mura amiche. L’epilogo, che si scoprirà poi essere amaro, restituisce agli appassionati di racchette e palline pelose un momento sportivo di rara intensità emotiva che vale la pena di ricordare proprio in questi giorni in cui, un ventennio più tardi, lo sfortunato protagonista di allora torna a essere un punto di riferimento per il tennis mondiale. Il tennis toglie e il tennis dà, dunque, un po’ come la vita, della quale la disciplina che fu di Rod Laver è sempre un meraviglioso paradigma.

Milano, Italia. La possibilità che il trofeo di Cile ‘76 vecchio più di due decadi non resti più solo nella bacheca è almeno sulla carta abbastanza concreta perché il team italiano ormai da qualche stagione si mantiene su ottimi livelli di rendimento. Merito anche di Andrea Gaudenzi, talento purissimo da giovane quando fu numero uno ITF e plurivincitore Slam poi evoluto a indomabile gladiatore nel mondo dei grandi grazie alla cura Leitgeb, il mentore di Muster, sempre a proposito di personalità forgiate nell’acciaio. Nato a Faenza nel 1973, Gaudenzi non è mai stato un ragazzo banale, non fosse altro per una qualità dialettica nelle esternazioni superiore alla media degli stereotipati colleghi.

Assegnato all’esordio tra i professionisti alle cure dell’indimenticabile doppista Bob Hewitt (che poi ha fatto cose piuttosto dimenticabili), in un rapporto peraltro mai decollato, è appunto in Austria che il faentino ingrana le marce alte. Un esempio, il suo, di abnegazione e umiltà che lo francobolla all’affetto della gente, agli occhi della quale incarna il mito di colui che ce l’ha fatta con due spicci in tasca e un cuore grande così.

Numero 18 del ranking mondiale all’età di ventidue anni, con tre titoli in bacheca, la semifinale fratricida di Monte Carlo e gli scalpi di Sampras e Federer, è appunto la Davis la manifestazione che più ne ha esaltato le doti da feroce agonista. Fascetta tricolore legata in testa e corporatura decisa, per un lustro abbondante le gesta di Gaudenzi, narrate con enfasi da un cantore ancora più corpulento, sono un must tutto italiano in un periodo storico globalmente avaro di soddisfazioni. Gaudenzi in campo suda e sbuffa; Galeazzi al microfono urla scomposto e sbuffa anch’esso. È la classe operaia che va in paradiso e che fa innamorare un’intera generazione.

Per l’atto finale di Davis la federazione attrezza così il Forum di Assago con il campo in terra battuta più lento della storia del tennis, una palude, un po’ per mettere in difficoltà gli avversari svedesi sulla carta meglio attrezzati per le superfici rapide e molto per esaltare l’attitudine terricola di Andrea che rasenta l’arte. Gaudenzi, però, è al rientro da una fastidiosa operazione alla spalla. Il nostro secondo singolarista designato è Sanguinetti, uno capace di grandi exploit ma che soffre il mattone tritato non meno di quanto Lendl in vita sua abbia subito i prati, cioè molto, ragion per cui sulle spalle muscolose di Gaudenzi poggiano gran parte delle speranze di successo.

All’esordio di un venerdì che finirà per essere maledetto, l’avversario è Norman, un vichingo che qualche anno più in là raggiungerà la seconda piazza del ranking mondiale grazie a colpi di rimbalzo che filano come traccianti, e si intuisce fin dagli albori che il match non sarà una passeggiata per nessuno dei contendenti. Tennis brutale, più passionale che bello, nel clima da torcida che notoriamente unicizza la più importante kermesse per nazioni dove anche il pubblico è differente, tendente al calcistico. Nel pomeriggio che diventa sera, Gaudenzi sporca i colpi esasperando le rotazioni per disinnescare il rivale e Norman, imperterrito, lascia andare il braccio come un cecchino al fronte. Stratega il primo, colpitore quell’altro. Ciò che però li accomuna è una feroce voglia di prevalere.

Benché imbottito di antidolorifici, Andrea soffre le pene dell’inferno per quella spalla non ancora del tutto ristabilita al punto che non serve avere l’occhio lungo per capire che l’azzurro possa contare solo sulle traiettorie incrociate, quelle che per biomeccanica meno sollecitano l’articolazione malandata, come se al ciclista prima della volata venisse a mancare il lungo rapporto. Dopo cinque ore che a definire collose si sbaglia per difetto, è tempo di quinto set. Norman ha più benzina nel serbatoio, lo certifica un inequivocabile linguaggio del corpo, e in un amen vola sul 4 a 0 con a monte tutta l’inerzia del mondo. “Non volevo prendere un 6-0 in una finale”, dirà qualche anno dopo Gaudenzi, fatto sta che sospinto da quindicimila tifosi indemoniati, trasfigurato dal dolore ma con il fuoco dentro di chi riconosce l’occasione per cui ci si è dannati l’anima una vita, Andrea risale la montagna.

Intorno all’adagio pallonaro per il quale se con l’attacco si vendono i biglietti è con le difese che si sollevano i trofei, l’azzurro scolpisce nel marmo la rimonta. Corre spingendo forte sui quadricipiti e rispedisce al di là della rete tutto ciò che gli capiti a tiro, è un muro di gomma, e il risultato è che le certezze dell’avversario col passare dei minuti si sgretolano, una a una. La bordata liberatoria scagliata con il servizio che vale l’eroico sorpasso è però accompagnata da un rumore sinistro: il palasport è una bolgia dantesca ma lo sentono tutti. È il tendine della spalla, quella spalla, che si spezza in due come un elastico messo in croce dalla ripetizione di tensioni al limite del sopportabile. Il cambio di campo che fa seguito all’undicesimo gioco, con l’azzurro avanti per sei giochi a cinque, è un minuto surreale avvolto dal silenzio assordante che rammenta quanto lo sport sia talvolta un esercizio ludico crudele.

Come fu per Dorando Pietri, il sogno di Gaudenzi si inceppa con lo striscione d’arrivo a un palmo. L’Italia tutta implode su sé stessa in quel frangente e, incapace di reagire alla resa del suo uomo simbolo, l’insalatiera d’argento finisce per essere sollevata dagli svedesi. Andrea non era pronto per la guerra ma per quella guerra scelse di sacrificare il resto della carriera ritagliandosi un posto d’onore nella storia dello sport italiano, quello puro, fatto più di emozioni che almanacchi. Quando si dice innalzare l’asticella dei propri limiti.

Appesa la racchetta al chiodo qualche anno più tardi, Gaudenzi, laureatosi in giurisprudenza a Bologna si è rapidamente affermato come imprenditore di successo. Dopo un Master in Business Administration all’università di Monaco e diversi incarichi nell’ambito dei digital media si è occupato anche della produzione delle immagini televisive dei tornei quale membro del Board della divisione media dell’Associazione dei tennisti professionisti. Risultato di un lavoro evidentemente apprezzato dall’establishment è che dallo scorso gennaio, e per i successivi quattro anni, Gaudenzi ricopre il prestigioso ruolo di Chairman proprio dell’ATP. Dai playground alla scrivania il passo è dunque stato breve per l’uomo che ha preso il posto dell’uscente Kermode, stimato e sostenuto dai suoi ex colleghi tennisti in questa nuova avventura dirigenziale.

Gaudenzi è oggi parte di un tennis italiano che risolleva la testa in maniera impetuosa, sul campo come nella politica che gravita intorno. Al faentino – en passant, uno dei tre soli italiani menzionati da Agassi nella celebre autobiografia Open a testimonianza dello spessore internazionale conseguito negli anni di attività – vanno pertanto i complimenti per l’impegno assunto. Laureato ad honorem all’università della fatica estrema, non sarà certo una responsabilità da Presidente, anche in questo periodo sui generis di lockdown, a intimorirlo. E allora game, set and match Gaudenzi, per questa seconda carriera. Come in quelle giornate intrise di polvere rossa e passione in cui ha inchiodato al televisore l’esigente popolo del tennis senza mai risparmiare testa, cuore e gambe.

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