10 – i rappresentanti italiani ammessi di diritto nel tabellone del singolare maschile degli US Open. Un record per il nostro movimento – arrivato negli ultimi anni in quattro occasioni a nove presenze, contando però in quei casi su qualificati e lucky loser – che nello Slam newyorkese tra l’altro è secondo in tal senso solo agli USA con 13 tennisti (più sette wild card) e uguagliato unicamente dalla Spagna. Non si può però certo dire che questo ottimo risultato sia stato raggiunto grazie a quanto avvenuto nella decina abbondante di settimane nelle quali si è giocato quest’anno.
Il 2020 ha infatti sin qui regalato scarsissime soddisfazioni ai nostri tennisti, che nei tabelloni principali del circuito maggiore hanno vinto complessivamente 30 degli 81 incontri disputati nei main draw: una percentuale di successo pari a un mediocre 37%. Un aggettivo non esagerato, pur considerando a riguardo il fisiologico handicap dovuto ai tanti nostri giocatori intorno alla centesima posizione: non va dimenticato che della foltissima truppa azzurra, in assenza di Fognini – ancora in convalescenza dall’operazione alle caviglie avuta a maggio – in questo US Open solo Berrettini è testa di serie. Andando nel dettaglio dei risultati nel 2020 dei nostri rappresentanti, il nostro numero 1 ha un bilancio di due partite vinte e due perse, Fognini è 4-6, Sonego 2-7, Sinner 3-5, Mager 5-2, Travaglia 2-4, Marcora 2-1, Seppi 6-3, Caruso 2-6, Cecchinato 1-7, Lorenzi 1-3, Gaio 0-2, Fabbiano 0-1, Giustino 0-1, Musetti 0-1.
Va ricordato che i nostri due attualmente più forti rappresentanti quest’anno sono incappati in problemi fisici di varia natura, che Sinner sta facendo esperienza ad alti livelli imparando dalle inevitabili sconfitte, così come è innegabile Sonego viva uno sfortunato momento (ha perso al primo turno in undici degli ultimi dodici tornei ai quali ha partecipato): è tutto vero. Ma purtroppo lo è anche che sinora i tennisti italiani hanno raccolto nel 2020 solo due finali (Seppi all’ATP 250 di New York e Mager a Rio) e tre quarti (Sonego a Rio, Marcora a Pune e Sinner a Rotterdam). Con due Slam e due mesi abbondanti di circuito ancora da giocare, ci sono sia il tempo che le occasioni per invertire la rotta: non resta che incrociare le dita e sperare.
24 – le partecipazioni ai Masters 1000 necessarie a Milos Raonic per tornare a giocare una finale in un torneo di questa categoria. L’ultima volta in cui il canadese vi era riuscito, prima di questa edizione del Western & Southern Open giocata eccezionalmente nell’impianto di Flushing Meadows e non a Cincinnati, fu a Indian Wells nel 2016, quando, come accaduto sabato, perse in finale contro Djokovic. Il 2016 fu la migliore stagione di Milos, che quattro anni fa chiuse al numero 3 del mondo, grazie – oltre al citato piazzamento nel Masters 1000 californiano – alle finali sui prati londinesi a Wimbledon e al Queen’s, alle semifinali all’Australian Open e alle ATP Finals (dove perse nonostante l’occasione di un match point a favore contro Murray) e al titolo a Brisbane.
Raonic sembrava pronto a continuare nei miglioramenti, ma una lunga serie di infortuni ha continuato a minare il fragile fisico – già in precedenza operato all’anca destra nel 2011 e al piede destro nel 2015 – non consentendogli di vincere più alcun torneo e soprattutto di avere la continuità per stazionare nella top ten, lasciata ad agosto 2017 (l’anno scorso ha chiuso la stagione fuori dalla top 30, come non gli accadeva dal 2011). Nel 2020 il tennista nato in Montenegro e trasferitosi in Canada all’età di tre anni è tornato a esprimersi ad alti livelli: dopo i quarti di finale raggiunti agli Australian Open, la finale della scorsa settimana (quarta della carriera in un Masters 1000 dopo quelle di Montreal nel 2013, Bercy nel 2014 e Indian Wells, per un tennista che ha vinto tutti i suoi otto titoli sul duro, cinque dei quali in condizioni indoor) ha confermato l’inversione della tendenza che tra 2017 e 2019 lo aveva invece visto sconfitto contro i top ten ben 11 volte su 14.
Nel torneo di Cincinnati Milos in semi ha confermato il successo di Melbourne su Tsitsipas, dopo aver sconfitto due top 50 come Querrey ed Evans, un Murray in forte ripresa e, nei quarti, aver annullato un match point a Krajinovic. In finale, opposto alla “bestia nera” Djokovic (contro il serbo non aveva mai vinto in dieci incontri ufficiali, vincendo in totale due soli set) ha giocato alla pari, dimostrando di meritare il rientro nella top 20 del ranking ATP, dalla quale mancava da poco più di un anno.
31 – la percentuale (più precisamente è 30,70) di Novak Djokovic nel rapporto tra i titoli vinti e le sue partecipazioni nei tornei della categoria Masters 1000. Il campione serbo ha infatti conquistato 35 dei 114 tornei di questo livello a cui ha preso parte, riuscendo in pratica a vincerne quasi uno su tre. Numeri straordinari, che lo portano in tal senso allo stesso livello di un altro fenomeno come Rafael Nadal, che per una curiosissima coincidenza ha vinto anche egli 35 dei 114 tornei della categoria più importante del circuito, dopo gli Slam. Tuttavia il maiorchino si fa al momento preferire a Nole perché ha vinto più partite, 384, mentre il serbo è ad oggi fermo a 360. D’altro canto, Djokovic, con la vittoria della scorsa settimana al Western & Southern Open ha però vinto almeno due volte tutti e dieci i tornei che compongono la categoria dei Masters 1000, mentre Nadal non ha mai alzato al cielo il trofeo a Miami (dove è arrivato in finale cinque volte), Shanghai (due finali) e Bercy (una sola volta è arrivato alla domenica del torneo).
Più dietro in questa graduatoria, pur sempre con ottimi numeri, un’altra “divinità” di questo sport, Roger Federer, che con 28 successi in 136 partecipazioni vanta il 20,59%. Ad ogni modo, impressiona il dominio attuale di Nole – gran favorito agli US Open in partenza oggi- che ha vinto tre degli ultimi sei Masters 1000 a cui ha partecipato, cinque su sette degli ultimi Major a cui ha preso parte e 39 delle ultime 42 partite giocate (e nel 2020 è ancora imbattuto, avendo vinto tutti e 23 i match che ha disputato). Una supremazia testimoniata dai 1010 punti di distacco sul secondo in classifica, Nadal: senza avere scadenze di punti da difendere nei prossimi mesi si fa sempre più concreta per Djokovic la prospettiva di colmare le 26 settimane che ad oggi lo separano dal record assoluto, detenuto da Roger Federer, di tempo trascorso da numero 1 ATP (310 settimane complessive).