Perché ci sono pochi allenatori donna?

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Perché ci sono pochi allenatori donna?

Laura Vallverdu, Direttore Associato per il Player Development alla Miami Beach Tennis Academy ed ex-coach presso la University of Miami, ha affrontato il tema per Racquet Magazine

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Amelie Mauresmo - Australian Open 2019 (foto Roberto Dell'Olivo)
 

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Come coach, enfatizzo sempre il valore dello sforzo e dell’impegno per le mie giocatrici, sia che le cose vadano bene sia che vadano male. Nel nostro mestiere, i continui alti e bassi richiedono pazienza e le capacità di ascoltare le tue giocatrici, di analizzare la situazione, e di approntare cambiamenti opportuni per costruire migliori risultati in futuro.

Quest’anno, la pandemia ha messo alla prova il mondo del tennis, imponendo uno stop improvviso al modo in cui solitamente portiamo avanti l’attività ma anche un risveglio all’interno delle organizzazioni sportive, che ora sono alle prese con il cambiamento e stanno sperimentando alcune strategie per proseguire in modo migliore. Tra i tanti cambiamenti attualmente in discussione c’è quella su un potenziale rafforzamento dei rapporti tra la WTA e la ATP per lavorare su un fronte unito.

È proprio ora che questo accada. Come ex-giocatrice, sia come junior che come professionista, ho sperimentato il tennis a diversi livelli, e con essi diversi gradi di parità tra uomini e donne. È da quando ho iniziato la mia carriera come coach, sin dal 2013 come capo allenatrice della squadra di tennis dell’Università di Miami, che sono curiosa di capire perché la demografia dei coach non sia rappresentativa della popolazione che gioca a tennis sia a livello amatoriale che professionistico. Non solo: perché il tennis, un gioco perfettamente egalitario riguardo i sessi, e che è storicamente più avanti di altri sport in termini di parità tra i generi, non ha più donne coach ad alti livelli?

Ovviamente, le cose hanno iniziato a cambiare nel 2014, quando l’allora N.2 ATP Andy Murray sparigliò le carte puntando su Amelie Mauresmo, due volte campionessa Slam, come suo coach. Tempo dopo, Anabel Medina Garrigues guidò Jelena Ostapenko al Roland Garros 2017, causando una proliferazione di ex-giocatrici di primo livello WTA nel ruolo di coach delle migliori tenniste: Rennae Stubbs e Conchita Martinez con Karolina Pliskova; Lindsay Davenport con Madison Keys; Sandra Zaniewski con Petra Martic; Biljana Veselinovic e Nicole Pratt con Daria Gavrilova; e così via.

Ma nonostante questo, alla fine del 2018 appena l’otto percento delle Top 100 lavoravano con coach donne. Nonostante alcune partnership di alto profilo – Conchita Martinez che si è unita a Garbine Muguruza un anno fa, Lucas Pouille che ha scelto Amelie Mauresmo, e Denis Istomin allenato dalla madre, Klaudiya Istomina – il tennis non è ancora riuscito a rendere questo fenomeno la normalità, soprattutto se paragonato a realtà come quella della NFL, che ha accresciuto la presenza di donne nelle posizioni di leader di alto livello da quando nel 2015 Jen Welter fece la storia diventando la prima capo-allenatrice di sempre.

Garbine Muguruza e Conchita Martinez – Roland Garros 2020 (via Twitter, @rolandgarros)

La NFL ha lavorato duramente per aumentare il numero dei coach femminili, con 16 donne ufficialmente assunte al momento. Sam Rapoport, il direttore dello sviluppo NFL, ha spiegato a ESPN nell’aprile 2019 che questo sforzo è solo “una goccia nell’oceano, e ci fa capire quale potrebbe essere il futuro”. Ha continuato dicendo che “il piano dei prossimi 10 anni è normalizzare la presenza delle donne a bordocampo nel football. Per noi la prima volta di una donna come coach o come manager non è una notizia su cui concentrarsi. Vogliamo normalizzare la cosa in modo da smettere di parlarne”.

Durante la pandemia, visto il dibattito sulla fusione tra ATP e WTA, la curiosità mi ha spinto ad approfondire questo tema. Ho quindi parlato con Nicolas Pereira, mio amico da sempre, che ha giocato nel circuito ATP, è diventato un commentatore per ESPN nel 2000, e ora lavora come analista per Tennis Channel. “Se abbiamo imparato qualcosa da questa pandemia, è il fatto che il tennis nel suo insieme dovrebbe essere unificato, ha detto. “Se donne e uomini gravitassero negli stessi luoghi con una potenziale fusione tra i due organi, penso che ci sarebbe decisamente una maggiore possibilità di aumentare il numero dei coach femminili nel nostro sport”. Ha poi proseguito: Se ci fossero più eventi combined, sarebbe più facile attrarre pubblicità e sponsor, perché avrebbero decisamente più appeal presso i clienti. E ci sarebbe maggior possibilità che le donne venissero maggiormente considerate in ogni posto di lavoro nell’industria del tennis”.

Nel corso degli anni, vari fattori (calendario compresso, problemi di percezione da parte del pubblico, difficoltà finanziarie, mancanza di inclusione e potenziali interruzioni dell’attività causa gravidanza) hanno scoraggiato le giocatrici dal diventare coach. Rennae Stubbs, un’ex-giocatrice australiana, coach d’élite e commentatrice a tempo pieno per ESPN, quando interpellata sul tema ha risposto molto volentieri.

“Prima di tutto, non c’è dubbio sul fatto che molte ex-tenniste abbiano messo su famiglia una volta smesso di giocare e che questo abbia impedito loro di diventare coach. Non tutte possono permettersi di portarsi dietro la famiglia nei viaggi. In secondo luogo, alcune giocatrici cercano un coach uomo per la maggior forza che imprime alla palla negli allenamenti. Insomma, cercano uomini per fare sia da coach che da sparring. Secondo me non è facile rivestire entrambi i ruoli allo stesso tempo: alcuni coach ci riescono, ma questa è sicuramente una variabile. Inoltre, il fatto di assumere un coach donna è vissuto come un rischio da molti. Ma penso che più questo sarà fatto, più continuerà a succedere”.

Rennae ha concluso così: Ha un valore il fatto che le donne coach abbiano un approccio più realista e più onesto con le giocatrici. In molti casi, le coach possono capirle meglio. Ti faccio un esempio: con Genie Bouchard [la giocatrice che attualmente Stubbs allena, ndr], quando c’è un problema sono la prima a dirle: parliamone. In questo le donne possono avere un rapporto più diretto. Nel mio caso, io ero una giocatrice molto emotiva e quindi posso immedesimarmi nel suo vissuto. Genie è una delle atlete più famose in Canada; da questo deriva una grande pressione, e qualcuno che non ha voglia di immergersi mani e piedi in questo problema non riuscirà ad attingere da lei il massimo del potenziale”.

Che ci sia un lato positivo nella pandemia, visto che ha costretto i due organi di governo del tennis a pensare a una potenziale unione? In questo sport, il fatto che l’ATP abbia fatto lo sforzo di condividere la luce dei riflettori con la WTA riconoscendo l’apporto delle donne ha fatto apparire una luce in fondo al tunnel e ha fornito loro una concreta apertura affinché si sentano più incluse ed accettate.

Il dibattito sul tema è sempre partito dal presupposto che uomini e donne possano lavorare assieme, senza che un sesso prevalga sull’altro. Si è iniziato a parlare di questo quando nel 2014 Andy Murray ha fatto da guida e ha smosso le opinioni nella comunità del tennis, e da allora se ne è parlato sempre di più. Flash forward al 2020, quando i temi dell’inclusione, del dare il giusto valore a ciascuno, dell’avere sensibilità e dell’avere correttezza sono concetti che occupano le prime pagine dei giornali. Questo spirito è stato giustamente traslato anche nel mondo del tennis.

Traduzione a cura di Gianluca Sartori

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