Berrettini primo italiano in finale a Wimbledon (Crivelli, Mastroluca, Azzolini, Piccardi, Rossi, Valesio, Semeraro)

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Berrettini primo italiano in finale a Wimbledon (Crivelli, Mastroluca, Azzolini, Piccardi, Rossi, Valesio, Semeraro)

La rassegna stampa del 10 luglio 2021

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Berrettini primo italiano in finale a Wimbledon: “Devo crederci” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

[…] Un italiano per la prima volta è in finale a Wimbledon, un’impresa che gli annali rincorrevano dal 1877, quando lo Slam più celebre e prestigioso cominciò la sua mitologica avventura. Non è soltanto storia, le gesta di Matteo si proiettano in una dimensione soprannaturale destinata a cambiare definitivamente le prospettive dello sport tricolore. Sono trascorsi 45 anni dal trionfo al Roland Garros di Panatta (che ieri ha festeggiato il 71° compleanno, un segno del destino), l’ultimo uomo azzurro finalista (e vincitore) in un Major: prima di lui, si erano spinti così in là anche De Stefani e Pietrangeli e sempre sulla terra di Parigi. Appena quattro eroi, e solo uno nel giardino di Londra: questo dà il segno dell’enorme portata della vittoria del gigante, ora sì, del Nuovo Salario. E domani, tra «Wimbly» e Wembley, si snoderà un incredibile filo rosso, bianco e verde che potrebbe tessere la trama di una giornata indimenticabile. Il più forte Berrettini soltanto un’altra volta aveva calcato il Centrale dei Championships, negli ottavi di due anni fa contro Federer. Gli toccò una lezione memorabile: «Ma quella partita mi ha aiutato a tornare qui con uno spirito diverso». E infatti Matteo esce dagli spogliatoi con gli occhi della tigre, e dopo il pericolo di una palla break annullata nel sesto game del primo set, infila un parziale di 26 punti a 8 (e otto game di fila) che annichilisce il povero Hurkacz: il polacco, giustiziere di Sinner a Miami e qui di Federer nei quarti, non tiene in campo un colpo a rimbalzo e viene travolto dall’aggressività alla risposta dell’allievo di Santopadre, che poi e la solita sentenza sull’asse servizio dritto. «Hurcules», come lo chiamano con uno striscione dedicato alcuni aficionados, si ritempra nel terzo set, spinto da una proficua frequentazione della rete, e il tie break vinto sembra riaprire i giochi. Ma il Berretto della stagione sull’erba, già bagnata dal successo al Queen’s, è un uomo in missione, con la forza mentale di chi ha ormai acquisito consapevolezza dello status di superstar: break immediato nel primo game del quarto set e sfida messa in ghiaccio senza mai perdere la battuta, con 60 vincenti complessivi, appena 18 gratuiti e l’86% di punti vinti con la prima. La tempesta perfetta: «Sono in finale a Wimbledon: non l’ho mai neanche sognato perché mi sarebbe sembrato troppo. Credo di aver giocato il mio miglior match fin qui, per questo sono davvero contento. Specialmente dopo quel terzo set, avrei dovuto vincerlo perché ero comunque il più forte In campo. È lo stesso atteggiamento che ho tenuto all’inizio del quarto set, sapevo di essere migliore di lui e questa fiducia ha pagato». La vetta più alta Così, il bambino che insieme al fratello minore Jacopo trasformava il salotto di casa in un campo immaginario fantasticando di sfidare i più forti della Terra per poi ritrovarseli di fronte da adolescente quando faceva lo sparring agli Internazionali, adesso parla la loro stessa lingua tecnica (è terzo nella Race e se vince il torneo sale al n.7 del mondo) e può guardarli negli occhi alla medesima altezza: «Un’emozione fantastica, sarebbe stata fantastica anche se non fossi stato il primo italiano, ma così_ La mia stagione era partita benissimo, poi mi sono fatto male e ho rivisto qualche fantasma del passato. Però sono tornato più forte, me la sono meritata tutta». E se sei deciso a fare la storia, non puoi preoccuparti di chi ti si parerà davanti per impedirtelo. Domani alle 15, Matteo troverà di fronte l’ostacolo più alto che il suo sport possa riservargli, soprattutto su quel prato mitico: Novak Djokovic. il numero uno, re delle ultime due edizioni e in serie positiva da 20 partite a Church Road. Un campione monumentale alla settima finale ai Championships, dove inseguirà il sesto trionfo londinese e il 20′ Major, che gli permetterebbe di eguagliare Federer e Nadal e, sull’abbrivio, consolidare la corsa al Grande Slam, una delle più straordinarie imprese sportive che si conoscano. ll Djoker soffre all’inizio la fantasia e l’aggressività di Shapovalov, ma il canadese si scioglie quando va a servire per il primo set sul 5-4: a quel punto emerge la straordinaria solidità del più forte del mondo, che concede appena 15 gratuiti in tutto il match, combinata alle consuete doti difensive. Un mese fa, nei quarti del Roland Garros, Nole si impose in quattro set con la piccola polemica dello stop per far uscire il pubblico nel momento in cui l’azzurro stava giocando meglio. La rivincita, per Berretto, avrebbe il gusto piacevolissimo della leggenda: «Cambia la superficie, e cambiano anche le condizioni psicologiche: non c’è niente che eguagli una finale di Wimbledon. Ma adesso che sono arrivato fin qui, voglio vincere il torneo. Devo crederci». E tutta l’Italia con lui.

L’erba di Berrettini si colora di azzurro (Alessandro Mastroluca, Il Corriere dello Sport)

Tanto normale da compiere un’impresa eccezionale. Matteo Berrettini è il primo italiano in finale nella storia del torneo di Wimbledon nel singolare maschile. Nessuno ci era mai riuscito dal 1877, prima edizione del torneo in cui si sono definite le regole del tennis, fino a ieri. «Mi sembrava troppo perfino sognare un risultato simile» ha detto a caldo, dopo il trionfo in semifinale sul polacco Hubert Hurkacz, bloccato per due set dalla tensione dopo aver dominato nei quarti Roger Federer. Con quella faccia da italiano allegro, davanti ai genitori, al fratello Jacopo di cui ammira la leggerezza di fronte alle avversità, con la famiglia e il team schierati al completo nel suo box, il numero 1 d’Italia ha riscritto la storia. Il 6-3 6-0 6-7 6-4 finale, sulla scia di 60 colpi vincenti e appena 18 errori gratuiti, è la fotografia di una partita mai davvero in discussione, anche se dal terzo set il polacco ha di molto alzato il suo livello di gioco. LA LEZIONE DEL 2019. «E’ entrato in campo pronto e con tanta fiducia» ha commentato John McEnroe, leggenda del tennis che segue il torneo per la BBC inglese. Un ritratto decisamente appropriato. […]. Ha condotto tutto il match senza lasciar trasparire nulla dell’emozione poi sfogata nel sorriso incredulo a fine partita. Niente a che vedere con la versione spaesata di soli due anni fa, quando raggiungeva proprio sullo stesso Centrale di Wimbledon il suo primo ottavo di finale in un torneo dello Slam. Sopraffatto dall’emozione e dalla grandezza dell’evento, perse in poco più di un’ora contro Federer, dando prova però di intelligenza brillante e fine ironia. A fine partita, al momento di stringergli la mano, gli chiese il prezzo per la lezione appena subita. Pochi mesi dopo, Berrettini avrebbe giocato allo US Open la sua prima semifinale Slam e a fine 2019 sarebbe diventato il primo italiano a vincere una partita in singolare alle ATP Finals. Ma si stava ancora adattando, abituando al nuovo status di Top 10. Panni che adesso gli stanno addosso come un abito di sartoria. LONDRA CHIAMA. Domani sarà il primo italiano in una finale Slam dopo il trionfo di Adriano Panatta, che proprio ieri ha compiuto 71 anni, al Roland Garros del 1976. «Sarà un’emozione fantastica – ha setto dopo la partita – La mia stagione era partita già benissimo con la finale in ATP Cup, poi mi sono fatto male e ho rivisto qualche fantasma del passato. Però, sono tornato più forte, penso di meritanti di essere qui. Voglio divertirmi e godermela come ho fatto in queste due settimane». Divertirsi è un obiettivo chiave, nella domenica bestiale che unirà l’Italia dello sport con gli occhi rivolti verso Londra. Con il cuore che batterà per Berrettini prima e per l’Ittalia di Roberto Mancini poi. DIVERTIRSI PER VINCERE. «Bisogna giocare con la pressione giusta, cercando veramente di andare a divertirsi. Solo così poi si vince una finale» ha detto il ct Mancini al sito della UEFA prima della sfida per il titolo agli Europei, a Wembley contro l’Inghilterra. […] Come la nazionale di calcio vince rinunciando al catenaccio, Berrettini cancella l’immagine dei tennisti italiani del passato. Il suo è uno stile perfetto per il gioco di oggi e di domani, non a caso è il primo azzurro a spingersi in una finale Slam diverso dal Roland Garros. Prima di Wimbledon, ha raccontato, ha incontrato il tedesco Boris Becker, tre volte vincitore del torneo più prestigioso al mondo. «Mi ha detto un po’ di cose su come fare ad arrivare in fondo. Mi son detto: si vede che lui quando è arrivato qui avrà subito pensato a come raggiungere la finale. Io non sono così, faccio un passo alla volta, con attenzione e prudenza. Mi sembrava il modo di giusto». Un modo molto normale per compiere un’impresa eccezionale.

Sei già storia! (Daniele Azzolini, Tuttosport)

[…]. C’è un italiano in finale a Wimbledon, e la cosa è talmente enorme, che si fatica a trovare le parole. Ma la parte più bella, e incredibile, viene dal tennis che a questa finale ci ha sospinto, uno a uno, game dopo game, tra un’esultanza e un sospiro. Un match perfetto in ogni singola partitura, grondante ace, disegnato con le geometrie di un quadro di Mondrian, capace di muovere a stupore per la difficoltà dei colpi che si sono visti. In assoluto una delle pagine più belle che il nostro tennis abbia mai scritto. In calce, la firma dell’ultimo iscritto al Club dei Più forti. Barba pizzuta, riccioli incolti, portamento da combattente. Matteo Berrettini. «Uno destinato a stare nei primi cinque del mondo per i prossimi cinque anni», Mats Wilander lo presenta così. Ed è bella anche la festa della promozione. Perché non è straripante di lacrime e commozione, ma contenuta, più intima, dedicata alla famiglia che è venuta in forze da Roma per stare intorno al suo ragazzo che ormai vede poco, perché Mat vive tra Montecarlo (casa sua) e Delray Beach (casa di Ajla, la fidanzataTomljanovic). Matteo indica con il dito il gruppo familiare, nel quale include anche il suo team di coach e amici. Sembra dire… «Questa è per voi>. Mamma Claudia è lì che balla accanto al figlio più giovane, Jacopo, che tanta parte ha avuto in questa storia, dato che fu lui – bimbetto – a spingere Matteo fuori dalla palestra di judo per costringerlo a entrare su un campo da tennis. Papà Luca sembra uscito da un incubo. È stato per tutto l’ultimo set avvolto dentro il suo cappellino, guardando da un pertugio della visiera. È come se avesse seguito il match dal buco della serratura, stretto tra foschi pensieri e le emozioni che lo facevano sussultare. La più tranquilla è Ajla. Gli manda un bacio, ma ha l’aria di chi sapeva già tutto. «Matteo vale questa finale». Lo sentiva anche Adriano Panatta, e lo ha scritto ieri proprio su Tuttosport. «Matteo è pronto per la grande impresa». Eccola. Quarantacinque anni dopo il suo Roland Garros, e proprio nel giorno del compleanno numero 71. Festa doppia anche per lui (auguri, a proposito), che non vedeva l’ora di abbandonare i panni dell’ultimo a esservi riuscito. Venerdì 9 luglio. Matteo giunge in finale a 25 anni, la stessa età di Adriano, che stava per compierne 26. Ma ha fatto prima, l’apprendistato è stato più rapido… Il 9 luglio di tre anni fa Matteo era già fuori dai Championships, aveva battuto Sock in cinque partite, ma il ritmo slow di Gilles Simon lo aveva spento. Anche l’anno dopo, il 19, era già fuori, ma con più meriti e una sconfitta di cui ha fatto tesoro. Aveva vinto il primo titolo sull’erba a Stoccarda, era giunto a un passo da Federer ad Halle, semifinalista, poi aveva ritrovato il Genio negli ottavi di Wimbledon, ed era finita 61 62 62. «Quando ti devo per la lezione?», una frase diventata famosa, sulla quale Mat ha lavorato in questi anni, per non dover più subire lo sconquasso delle emozioni. […]. «La cosa che più mi impressiona di lui è la forza mentale – dice Ajla Tomljanovic -. Si certo, il servizio il dritto sono incredibili, ma se devo indicare la sua arma segreta, Matteo ce l’ha qui, nella testa, perché riesce a imparare da tutto». Alla fine, lo stesso Hurkacz più degli scambi spesso irriverenti cui l’ha sottoposto Berrettini, ha sofferto la sicurezza dell’italiano, quel suo dimostrargli colpo su colpo che non gli avrebbe concesso una sola chance. Be, una alla fine gliel’ha data, nel tie break del terzo, e il disperato Hurcules, cui inneggiavano sparuti cartelli in tribuna (Hu Hu, l’altro soprannome) vi si è aggrappato come a una speranza di sopravvivenza, ma è stato un attimo. Matteo ha dominato il match in termini quasi totali, dal 2-3 del primo set all’1-0 del terzo ha inanellato 11 game perfetti, tali da far stramazzare avversari ben più tosti dello stranito Hurkacz. E nel quarto, la ripartenza è stata fulminante. Break nel secondo gioco, un vantaggio che Matteo si tenuto stretto da cima a fondo, arricchendolo di ace, addirittura quattro di seguito (il game perfetto) nel settimo game. Sono stati 22 gli ace del match (5 per Hurkacz), e fanno 101 nell’arco del torneo. Ma tutto il confronto si è riempito di dati palpitanti: l’86% di primi servizi andati a punto, addirittura il 40% di risposte vincenti, per non dire dei 60 winners contro i soli 18 errori non forzati. Scrosciante, Matteo. Come un acquazzone sulla testa del povero Hu Hu. Matteo sale da ieri al terzo posto della classifica Race. Sbaglieremo, ma il biglietto per le Finals di Torino è già staccato. È dietro Djokovic e Tsitsipas, ma davanti a Rublev, Zverev, Medvedev e Nadal. Ora c’è da preparare con calma la finale. Djokovic l’ha affrontato a Parigi e qualcosa di certo ha imparato. Ai british, è piaciuto. L’hanno applaudito, forse il tifo sarà per lui Forse… C’è tanta Italia dappertutto. Calcio, tennis. Dobbiamo abituarci noi, figurarsi loro. 

Londra chiama Italia (Gaia Piccardi, Il Corriere della Sera)

“Non ho parole”. Nemmeno noi, stregati da un ragazzo romano del quartiere Nuovo Salarlo capace, in 144 anni di storia del torneo di tennis più prestigioso del mondo, di trovare quell’unico filo d’erba che non era stato ancora calpestato: è Matteo Berrettini, 25 anni, figlio di Claudia e Luca che fino a dieci anni fa rinunciavano alle vacanze per accompagnarlo ai tornei in camper, fratello di Jacopo che lo convinse a lasciare il judo per il tennis, il primo giocatore italiano a raggiungere la finale di Wimbledon.[…] Berrettini non ha parole ma gli basta restare fedele al servizio per ridimensionare il polacco Hurkacz, killer di Medvedev e di quel che resta di Federer. 22 ace, il 100° del torneo messo a segno per consolidare il 5-3 nel quarto set (6-4), dopo che l’avversario, evanescente per i primi due (6-3, 6-0) grazie alla spietata concretezza dell’azzurro, era risorto nel tie break del terzo (7-3), quando Matteo, reduce da undici game vinti di fila, ha avuto un’umana pausa di riflessione: «Pensavo di meritare il terzo set, invece l’ho perso. Mi sono detto: sei più forte. E l’energia è tornata. Possiamo chiamarla impresa? Ma sì, dai. Le emozjoni sono tantissime, non riescono ad uscire. E ora non mi accontento, non sono fatto così, voglio di più». Scalato Wimbledon da testa di serie n.7 (11° match vinto sul verde inglese incluso il trionfo al Queen s, che l’aveva fatto schizzare nelle quote dei bookmaker), resta da arrampicarsi su un Himalaya chiamato Novak Djokovic, il più forte di tutti lanciato verso tre quarti di Grande Slam, avendo domato con fatica l’estroso mancinismo di Shapovalov in semifinale. Matteo conosce bene il Djoker, si sono appena sfidati nei quarti di Parigi («Una sconfitta che mi è servita perché sono più consapevole dei miei mezzi e in campo mi sento più a mio agio»), certo per batterlo e annettersi i Championships servirà lo sforzo supremo, un atto di fiducia in se stesso e nell’esistenza, magari promettendo una grida ben fatta agli dei del tempio di Church Road. Tutto il tifo che domenica sera convergerà sull’Italia di Mancini a Wembley nel pomeriggio servirà a Wimbledon, Matteo porterà la bandiera tricolore («Mi aiuterà a crederci»), le banane da sbocconcellare al cambi di campo, la sua barbetta elettrica e quella bella faccia da bravo ragazzo che ha sedotto la collega Ajla Tomljanovic, elemento prezioso per il benessere del campione nella bolla anti Covid (ieri ha potuto salutare i genitori solo da lontano). Il successo di Berrettini è un’ipoteca sul futuro per tutto il tennis azzurro, Sinner che si è un po’ incartato e deve uscire dall’empasse, Musetti che ha sei anni meno di Matteo, una squadra di Davis giovane e fortissima trascinata da un capitano coraggioso e forzuto, capace di sognare sogni spropositati: «Da bambino, con mio fratello, facevamo finta di affrontarci nella finale di uno Slam, il tennis è nel mio dna, i miei nonni giocano ancora». Il potere della fantasia, l’ennesimo dei talenti made in Italy.

Secondo Matteo (Paolo Rossi, La Repubblica)

Sia benedetto Matteo Berrettini. […] Con lui l’Italia si vede aprire finalmente le porte del Tempio, ed entra nella nobiltà tennistica con il sangue blu: c’è un italiano in finale a Wimbledon. Nei 134 tornei disputati, e nei 111 anni di vita della Federazione italiana di tennis, non era mai stato vissuto un momento così. Sì, si vantavano i trionfi al Roland Garros di Pietrangeli (2), Panatta e Schiavone, e lo Us Open di Pennetta, ma Wimbledon è sempre stato maledetto per i nostri tennisti. L’allergia all’erba è finita alle 17.14 dell’anno domini 2021. Matteo Berrettini da Roma ha messo fine a questo complesso d’inferiorità. Con la calma dei forti ha battuto la resistenza del polacco Hurkacz dopo quattro set e poco più di due ore e mezza: 6-3, 6-0, 6-7, 6-4. E domani, alle 15, avrà Djokovic a contendergli la Coppa.[…] Elegante, intelligente e con la capacità di manipolare quella pallina (che una volta era bianca) usando bastone e carota (smorzate assassine e contropiedi). Il luogo è simbolico, il giorno è storico: Matteo cerca di contenere le emozioni. […] “Il primo italiano…una cosa fantastica. Ma sarebbe stato fantastico anche se non fossi stato il primo”. Ride di gusto. Si è fenomeni solo avendo un carattere così, una scorza speciale che non sembri presunzione: “Che anno: avevo iniziato bene, poi ho rivisto i dolori, i fantasmi nel mio corpo. Ma sono tornato più forte. Ora voglio divertirmi. Voglio godermi la mia prima finale. Chiunque vincerà comunque finirà. Ma so che il lavoro non è ancora finito. Ora che sono qui voglio il trofeo, perché è una sensazione davvero incredibile“. Pima di Hurkacz aveva messo in fila Pella, Van de Zandschulp, Bedene, Ivashka e Auger-Aliassime. Ne resta solo uno, il n.1 e campione in carica: Novak Djokovic. Si gioca per la storia e Matteo non teme confronti con il passato, anzi. “Sono in contatto con Adriano Panatta. Dovete sapere cge ha creduto in me quando ero bambino: giocammo un doppio insieme e mi disse “Un giorno batterai a 220 km/h”, io lo guardai strano, non gli credevo. Poi andai a guardarmi i suoi risultati e mi dissi: “Okay, forse questo tizio ha ragione”. Aveva ragione e l’altro giorno mi ha scritto, dopo il quarto di finale: “Ora che sei lì fai il passo che devi fare. Fallo”. Eppure, anche di fronte alla Storia, Berrettini non dimentica le radici, i suoi valori. Confermano lo spessore umano e l’assunto che bisogna essere prima uomini e poi atleti: “Avere la famiglia qui è una forza. Sono felice, non li avevo mai visti così. Pazzesco. Mio fratello Jacopo in particolare, uno dei miei migliori amici: ci alleniamo ancora insieme. Quando eravamo bambini ci divertivamo tante volte senza palla: nel salotto di casa fingevamo di giocare una grande finale, immaginando di giocare contro i giocatori contro i quali sto giocando. Questa è la mia famiglia, da dove veniamo. Il tennis è la nostra passione, è nel nostro Dna, I miei nonni giocano ancora”. […]

Matteo, impresa storica (Piero Valesio, Il Messaggero)

Nella notte di Capodanno dell’anno domini 1894, a Roma, il conte Gino De Martino aveva una scommessa da vincere: lanciarsi nel Tevere a bordo di una bicicletta. Gli stupefatti astanti lo videro posizionare una passerella di legno dalla riva e lanciarsi nelle acque con la stessa eleganza con cui eseguiva il dritto sui campi da tennis, compresi quelli nei pressi di Porta Pia. Nel 1911, giusto centodieci anni fa, il conte fu il primo italiano a giocare a Wimbledon: le cronache riferiscono che fu eliminato al primo turno e che a fine anno si ritirò. Centodieci anni dopo Matteo Berrettini, su quella stessa erba, ha conquistato l’accesso alla finale di tennis più importante del pianeta, primo nostro connazionale a riuscirci. […] E conferisce ancora maggior splendore all’impresa di Matteo: come tutte le grandi storie la sua non è frutto di estemporaneità ma di una storia lunga un secolo. Finalista a Londra. Nella stessa giornata in cui la Nazionale di Mancini disputerà, poche ore dopo la finale degli Europei contro l’Inghilterra. C’è da domandarsi se le rispettive diplomazie non stiano riflettendo sull’opportunità che il Presidente Mattarella, che ha già assicurato la sua presenza in tribuna a Wembley, sieda anche nel Royal Box di Wimbledon alle 15 di domani, al fianco di William, Kate, patrona del club, e di Edward, duca di Kent. Sarebbe stupendo. SPETTACOLO Perché non si tratterà soltanto di una, per quanto importante, partita di tennis: ma della prova che mettendo assieme passione e lavoro, metodo e coscienza di sé si può arrivare in alto. E in tempi di post (speriamo) pandemia cosa ci può essere di più simbolico, di più entusiasmante per l’intero sistema-paese? E non è forse lo stesso messaggio profondo di cui si sta facendo tramite il gruppo assemblato da Mancini? Dice Matteo: «Io in finale a Wimbledon? Non lo sognavo nemmeno, mi pareva troppo perfino sognare. Sto vivendo un’emozione fantastica e in più sono anche il primo italiano ad arrivare fino a qui…pazzesco. Specie perché, dopo essermi fatto male in Australia, ho rivisto alcuni dei miei vecchi fantasmi. Certo non mi aspettavo di vincere così tante partite di fila: ma dopo il Queen’s ho incontrato Becker (che nell’85 vinse sia il Queen’s sia Wimbledon ndr) e mi ha spiegato come arrivare in fondo: fai questo, non fare quell’altro… Allora mi sono detto: perché non provarci? E penso di essermi meritato quanto mi sta succedendo». Matteo, che si è conquistato il diritto di essere tutto questo superando in quattro set il polacco Hurkacz, è oggi un effettivo top player per il quale Wimbledon può diventare il giardino di casa. Perché su questa superficie sa esprimere non solo 100 aces (tanti ne ha realizzati nel torneo fino ad oggi) ma anche quelle improvvise accelerazioni alternati a tocchi di mano, dritti devastanti intervallati da rovesci ben direzionati che possono far vedere i più classici sorci verdi a chiunque. Compreso Nole Djokovic che domani sarà l’avversario di Matteo dopo aver strapazzato Shapovalov. La tanto immaginata rivincita del problematico match nei quarti di Parigi è arrivata. Nole giocherà la trentesima finale Slam, settima ai Championships; vuole eguagliare Nadal e Federer a 20 titoli major. Nole insegue il sogno di diventare lo Steffi Graf dei maschietti (vincere i quattro tornei Slam e l’oro olimpico nello stesso anno solare). Però Matteo è l’uomo della Storia. Della sua, ma anche della nostra. E si sa la Storia dà torto e dà ragione. Decide lei

Matteo nella storia, un italiano nel Tempio per la prima volta (Stefano Semeraro, Il secolo XIX)

[…] «Le emozioni sono tante, troppe forse. E per quello faticano a uscire. Non posso neppure dire che è un sogno che diventa realtà, perché io sono abituato a sognare cose possibili. E questa onestamente non lo sembrava». Invece è tutto vero. Matteo che all’una e mezzo entra sul Centre Court applauditissimo dal pubblico che inizia a stappare bottiglie di Pimm’s e di champagne quando il match è ancora fresco, ma Berrettini già caldo. Hubert Hurkacz, il polacco che ha messo in prepensionamento Federer, che va sotto due set — e nel secondo per 6-0, groggy come un avversario di Mike Tyson — che risorge nel tie-break del terzo, ma si deve arrendere nel quarto alle percussioni ferocemente razionali di Berettini. Perché Matteo serve come pochi, soprattutto sull’erba, e piazza il break decisivo in apertura del quarto set: proprio come i grandi. Come Federer (quello vero), Nadal, Djokovic, Murray, i tennisti alfa, gli squali da Slam. Un campione maturo, Matteo, e un erbivoro nato anche se fa strano dirselo in un Paese abituato a stare molto con i piedi per terra. I due trionfi di Pietrangeli a Parigi (1959 e 1960, più le finali del ’61 e del ’64), quello di Panatta nel 1976, la vittoria di Francesca Schiavone nel 2010, le finali sempre della Schiavo (2011), di Sara Errani (2012) e quella archeologica di De Stefani nel ’32. Tutta roba vinta scommettendo sul rosso, il nostro azzardo congenito. Tanto che la finale all italian fra Pennetta e Vinci a New York, sul cemento esotico di Flushing Meadows, nel 2015 era sembrata un refuso felice. Ma l’erba, quella no. Non avevamo mai osato sperarci, nonostante i successi under 18 di Nargiso e Quinzi, nonostante i quarti di un Panatta sciroccato e di un Sanguinetti in stato di grazia. «Anch’io ero stato qui da juniores — dice Matteo — e l’erba mi era sembrata una cosa folle. Mi ero chiesto se mai ci sarei tornato, in futuro, magari per giocare le qualificazioni. E adesso sono in finale, capite?». Con la testa, sì. Con la pancia ancora no. Wimbledon era una galassia lontana, una favola straniera, una storia troppo diversa da noi. Troppi re, troppi te alle cinque, troppo Kipling, facile da citare ma complicato da applicare per i nipotini di Machiavelli e Guicciardini; troppe tradizioni e regole da rispettare, confini da non oltrepassare; e poi l’eterna paura di farci conoscere (anche se a grattare la vernice verde scopri che non siamo così diversi, noi e loro; e in fondo ai vialetti fioriti di begonie vedi un pizzico di Napoli). Non è un caso se su questi prati in 133 edizioni avevamo raccattato la miseria di una semifinale, 61 anni fa, con Pietrangeli. Decenni in cui ci siamo sentiti sopportati, compatiti, mai veramente considerati, sfiorando anche eliminazioni di massa al primo turno. Poi bang. Matteo Berrettini. Che piace anche ai british perché è un po’ Mastroianni e un po’ Vialli, bello e tutt’altro che impossibile da amare, intonabile all’atmosfera del posto, italiano senza averne (troppo) l’aria; grintoso, educato, in possesso di un inglese quasi perfetto. Ieri hanno tifato quasi tutti per lui, sul Centre Court; per il bel Matteo che esorcizzala paura per la Nazionale di calcio che domani a Wembley sfiderà l’Inghilterra. Circola il sospetto che sia l’anno italiano, da queste parti, che stavolta non abbiamo sfidato la quarantena e la variante Delta solo per ammirare il British Museum e la National Gallery. A voi il tennis, a noi il pallone – con Beckham al solito elegantissimo nel Royal Box a fare da anello di congiunzione -, questa è l’idea, ma sorry, non funziona così. Anche perché di mezzo c’è un dettaglio di nome Novak Djokovic, il Cannibale che Wimbledon l’ha vinto già 5 volte e ieri ha fatto piangere – letteralmente -il giovane Shapovalov nella seconda semifinale. Nei quarti di Parigi Matteo lo ha portato al limite, l’amico Novak, se non ci fosse stata l’interruzione per il coprifuoco forse sarebbe riuscito a batterlo. Il Centre Court da anni è diventato casa Djokovic, ma per la prima volta abbiamo un serio candidato all’esproprio. Un Peter Pan con i riccioli pronto a trasportarci, a forza di sorrisi e prime di servizio, nell’Isola verde che per noi, fino a ieri, non c’era. 

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