La vittoria di Djokovic a Wimbledon contro Berrettini (Crivelli, Mastroluca, Bertellino, Piccardi, Rossi, Semeraro)

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La vittoria di Djokovic a Wimbledon contro Berrettini (Crivelli, Mastroluca, Bertellino, Piccardi, Rossi, Semeraro)

La rassegna stampa di lunedì 12 luglio 2021

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Battuto da un DJOkovic (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Grazie, Matteo. Anche se le porte del paradiso restano chiuse, presidiate dal Djo di 20 Slam. FenomeNole: si sdraia trionfante per la sesta volta sul prato sacro di Wimbledon, ne assaggia ancora l’erba benedetta e aggancia nei Major gli eterni rivali Federer e Nadal

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E ora, nella corsa al più grande di sempre, Djokovic può giocarsi la carta che farebbe saltare il banco: il Grande Slam. Dopo 52 anni, dalla seconda perla personale di Laver nel 1969, un giocatore si presenterà agli Us Open con la possibilità di completare una delle imprese più esaltanti e straordinarie che il romanzo dello sport possa raccontare: Nole avrà già i brividi. A testa alta Ma la domenica che potrebbe cambiare per sempre la storia del tennis è anche la giornata di uno splendido campione italiano che non solo ha portato per la prima volta in 144 anni il tricolore all’ultimo atto dei Championships, il torneo più affascinante e che ogni bambino che prenda in mano una racchetta sogna di conquistare, ma ha dimostrato definitivamente di appartenere all’empireo, fenomeno tra i fenomeni. Perché dopo un avvio tesissimo da tutte e due le parti non si rimonta da 5-2 sotto (e set point contro) nel primo parziale se non si possiedono orgoglio, tecnica e coraggio: il tie break di Matteo, sigillato dalla fiammata con il dritto che gli regala l’allungo decisivo sul 5-3, è un pugno in faccia a chi immaginava che 29 finali Slam di differenza (30 per il serbo, una per l’azzurro) fossero un ostacolo psicologico insormontabile. Ma quello dall’altra parte della rete è Djokovic, il più forte di tutti, l’uomo che intorno alla concentrazione e alla forza mentale ha costruito una corazza invincibile. E cosi, non appena il numero uno pianta i piedi ben dentro il campo e comincia a mettergli pressione sul rovescio e a rispondere anche alle fucilate, la contesa scivola di mano a Berretto per consegnarsi al Djoker, chirurgico nel limitare gli errori e nello sfruttare le occasioni sul servizio di Matteo, e come sempre tetragono al consueto tifo contrario del Centrale: sul 3-2 per lui del terzo set, per dire, rimonta dal 15-40 e soffoca le velleità di recupero dell’azzurro con quattro punti di fila di pura rabbia contro il pubblico. Per la storia Copertura del campo, rapidità negli spostamenti, strategia illuminata che prevede anche le sortite a rete (per la gioia di coach Ivanisevic, che non poteva festeggiare meglio i vent’anni dal trionfo a Church Road del 2001): c’è ancora troppo Nole per Matteo. Eppure gli applausi palpitanti riservati dai 15.000 del tempio all’eroe sconfitto sono il segno del rispetto per il suo valore e della speranza che non sarà l’ultima volta, mentre Djokovic, finalmente sorridente, spazia verso confini mitologici.

[…] Nel 2010, dopo la scoperta di essere celiaco e la vittoria in Coppa Davis, Nole trovò dentro di sé l’energia per opporsi al dominio che pareva inattaccabile di Federer e di Nadal: lui in bacheca aveva un solo Slam, Roger 16 e Rafa 9. Li ha raggiunti, e adesso rischia di allungare la sua ombra mitologica sulle carriere di entrambi

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Berrettini: “questo è il mio inizio” (Alesandro Mastroluca, Corriere dello Sport)

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II numero 1 azzurro si mostra fiero per come ha giocato la sua prima finale Slam, che matura dopo una stagione sull’erba da incorniciare. Ma esserci non gli basta. DISPIACIUTO. «Nell’ultimo mese ho vinto al Queen’s e raggiunto la finale a Wimbledon: come ho detto dopo la semifinale, è qualcosa che non osavo nemmeno sognare – ha spiegato dopo la finale persa contro Novak Djokovic -. Sono dispiaciuto per la sconfitta, e perché non credo di aver giocato la mia partita migliore. In questo perd c’è grande merito di Djokovic, che tra le sue qualità ha proprio quella di neutralizzare il gioco dei suoi avversari. Dopo queste due settimane, ora so che posso vincere questo torneo.

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FASCIATURA. ll romano, terzo italiano arrivato a giocare la finale di uno Slam in singolare maschile, è sceso in campo con una fasciatura alla coscia sinistra. «Mi faceva male, ma era un leggero fastidio, non ho perso per questo – ha detto, cancellando dal suo orizzonte ogni alibi -. Abbiamo deciso di fasciarla perché pensavamo avrebbe aiutato, e in effetti così è stato. Sono arrivato a Londra direttamente da Parigi, ho giocato tante partite al meglio dei cinque set. Quando arrivi in finale, è come se sentissi il tuo fisico andare un po’ in pezzi. Ma è normale. Non è stato un problema, è solo qualcosa a cui dovrò pensare un po’ di più nelle prossime settimane». CONSAPEVOLEZZA. Dopo questa finale, ha spiegato, il numero 8 del mondo può guardare in positivo al suo percorso e al suo futuro. «La cosa positiva è che adesso sto perdendo contro i migliori del mondo. A Parigi mi ha battuto Djokovic e ha vinto il torneo. Al Queen’s ho vinto io, e qui ho perso di nuovo contro di lui. Significa che il mio livello sta crescendo, che le mie armi e il mio tennis in generale migliorano. Vuol dire che sono sulla strada giusta. Ma per battere Novak devo ancora migliorare. In fondo, Djokovic perdeva contro Roger e Rafa e grazie a loro ha fatto progressi». COSA GLI MANCA. Adesso, ha analizzato Berrettini, il serbo è l’avversario più difficile da sconfiggere. Il romano ha spiegato anche perché, ha provato a definire come mai la missione di battere Djokovic sembri sempre impossibile. «È difficile da dire. Prima di tutto, per me dipende dal modo in cui riesce a neutralizzare le mie armi migliori, servizio e diritto. È incredibile come copre il campo. È l’unico giocatore che mi faccia sentire così, non avevo sperimentato niente di simile – ha dichiarato -. In più, negli anni è molto migliorato. È precisissimo, tira sulla riga quando vuole e su questa superficie è importantissimo. infine, tatticamente è il giocatore migliore insieme a Roger, studia il tuo tennis, e si adatta durante la partita: non è una cosa facile. Sa perfettamente come mettere in difficoltà i suoi avversari, li studia e fa in modo di farli giocare male».

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Nole poco amato ma il più grande come il suo slam (Roberto Bertellino, Tuttosport)

Novak Djokovic è tra le stelle, al di là del piacere o meno che generano le sue vittorie. II serbo ha qualcosa in più di tutti, anche di Roger Federer e dello stesso Rafa Nadal. Ora possiamo dirlo, con i numeri ad evidenziare il concetto. Sesto Wimbledon vinto, il terzo consecutivo, 20° Slam come gli altri due citati “mostri sacri”. Era dal 1969 che un giocatore non vinceva tre tornei “major” nello stesso anno e agli US Open il n.1 del mondo cercherà l’impresa che ha un nome quasi da pronunciare in silenzio, perché fa parte del patrimonio degli dei… Grande Slam. Solo in due sono riusciti a conquistarlo: Donald Budge nel 1938 da dilettante e Rod Laver in due occasioni (nel 1962 da dilettante e nel 1969 quando il tennis era già entrato nell’era Open). Gli Slam targati Djokovic sono 9 agli Australian Open, 6 a Wimbledon, 2 al Roland Garros e 3 agli US Open, l’ultimo nel 2018. A Flushing Meadows, dove lo scorso anno il serbo venne squalificato per aver colpito accidentalmente una giudice di linea, Djokovic arriverà con motivazioni ancora più alte delle solite e vista la capacità ribadita ieri di gestire le emozioni, partirà ovviamente da favorito. La sua versatilità di dare il meglio su più superfici ha quasi dell’innaturale. E’ il miglior ribattitore al mondo, ma anche colui che mette in campo recuperi impossibili. Serve chirurgicamente quando le situazioni si fanno pericolose. Quando viene a rete sa stupire anche con stop volley d’alta scuola.

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«E’ stata più di una battaglia – ha detto Note al termine della finale -: complimenti a Matteo per il tennis potente che ha saputo esprimere, ne porto i segni sulla pelle. Vincere Wimbledon è sempre stato il mio più grande sogno da bambino e sono contento di ripetermi non dando nulla di scontato.

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II Grande Slam? «Posso immaginarmi che possa succedere, lo spero e ci proverò senza dubbio. Gioco il mio miglior tennis nei tornei Slam e questa è la mia priorità di carriera arrivato a questo punto. Non lascerò nulla di intentato». Il pubblico lo segue ma non lo ama troppo, questo è il suo cruccio. Anche ieri la folla era dalla parte di Matteo Berrettini durante il confronto, poi si è sciolta in fase di premiazione perché non è possibile non riconoscere il suo peso specifico.

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Berrettini si arrende al muro di Djokovic (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

Ricorderemo le nuvole come panna, i cori (Matte-o, Mat-te-o) per un’Italia seria ed educata, mai sopra le righe, complimentata anche da Mario Draghi

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ricorderemo i lampi di classe sprigionati da Novak Djokovic, il campione costretto dall’eccellenza di Berrettini alle prodezze per conquistare il Sacro Graal, Wimbledon 2021, lo Slam che gli permette di agganciare quegli altri due satanassi, i sodali Federer e Nadal, alla stratosferica quota di 20 titoli Major, cioè tre quarti di Grande Slam. E stata una bellissima domenica di tennis, vigilia della grande sfida di Wembley tra l’Inghilterra e un’altra Italia, quella collettiva di Mancini, mentre a Wimbledon Berrettini era solo contro il gigante però non ha sfigurato, quattro set di erba e cuore senza risparmiarsi

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Vince 6-7, 6-4, 6-4, 6-3 il diabolico Djokovic, al terzo match point l’ultimo rovescio in back si spegne in rete e la resistenza del romano lascia il posto alla festa del n.i che si annette il sesto titolo in Church Road, mastica un ciuffo d’erba, scala la tribuna, regala un selfie a un ragazzino e la racchetta a una bimba, ringrazia gli dei del tennis. La storia è fatta. L’inseguimento di un’esistenza è sublimato. Il sorpasso agii altri Immortali è programmato per l’Open Usa, magari dopo un oro olimpico a Tokyo, mentre il totem Rod Laver aspetta di stringere la mano a chi, 52 anni dopo, sarà in grado di imitarlo. Matteo ha il merito di aver riaperto una finale cominciata malissimo, break del 3-1 per l’avversario, un set point annullato a Djokovic sul 5-2 (servizio vincente) e poi la reazione trascinato dall’energia del centrale schierato a suo favore, contro-break con un gran recupero sulla palla corta del serbo e dritto delizioso Djokovic non ci sta, si arriva al tie-break che Berrettini domina: 7-4 con un ace (saranno i6 alla fine, a fronte di una percentuale di prime non eccelsa: 60%). Specialista in resilienza, Djokovic fa il break all’inizio del secondo, complice un comprensibile calo nervoso del rivale, gli errori di Matteo sono quasi fisiologici perché la pressione del Djoker è mostruosa («Bravo, sei un vero martello italiano» gli dirà), il pareggio va in cassaforte (6-4). Nel terzo Berrettini trova la forza di andare a cercare tra fili d’erba due palle per il contro-break sul 3-2 ma è ormai scarico e poco reattivo, le energie in esaurimento: il secondo set point basta al Djoker per allungare (6-4) e un break al settimo game decide il quarto (6-3) e il match.

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a Matteo manca solo un ultimo atto di fiducia in se stesso per fare il definitivo salto di qualità. Parte da Londra cresciuto, più uomo, lasciandoci in eredità una domenica di nuvole e sogni, il più bello spinto in là dal vento come un aquilone ma pronto per essere riacchiappato altrove, da qualche parte nel cielo, presto.

Wimbledon tradisce Berrettini, il re resta Djokovic. Draghi:”Sei nella storia del tennis” (Paolo Rossi, La Repubblica)

È che a un certo punto ti svegliano, anche se non lo vuoi. A Matteo Berrettini hanno dato un maledetto pizzicotto, lo hanno ridestato di soprassalto, e lui s’è ritrovato con qualcosa che non voleva: un piatto d’argento invece di una coppa, a Wimbledon. Davanti a nobili di sangue blu, al mondo che guarda in diretta tv. Ha vinto Djokovic, che corre per la storia. Matteo invece cercava l’estate, un pomeriggio tutto azzurro. Purtroppo è stato picchiettato.

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Dopo quattro set (6-7, 6-4, 6-4, 6-3) e quasi tre ore e mezza di gioco. Dopo quel primo set strappato da Berrettini (era 2-5) che aveva illuso. Peccato, ma cosa importa? Un giorno così, questo Wimbledon 2021, lo ricorderemo come una luce abbagliante e il sorriso — certo, anche amaro — di Matteo resisterà alla storia.

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Resterà il ricordo del primo italiano che si è battuto per la corona sull’erba, non certo le statistiche sulle percentuali delle prime palle oppure gli errori non forzati,

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La vita, alla fine, è plasmata dalle emozioni, esattamente quelle che ha trasmesso in queste due settimane questo ragazzo. Una dote inestimabile, senza prezzo, un regalo al tennis per i posteri, per i ragazzini che oggi hanno sentito parlare di questa impresa, e magari in casa si immagineranno sul Centrale di un torneo dello Slam.

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Ieri sera Matteo Berrettini era a Wembley, invitato dal presidente della Federcalcio Gravina. Oggi andrà dal presidente Mattarella, e porterà con sé la fierezza di aver meravigliato l’Italia. Un sentimento, la meraviglia, che è l’unica reazione possibile quando mancano le parole. Le emozioni sono tante, troppe. Irresistibili. E sgorgano le lacrime. «I pensieri stanno uscendo fuori adesso, ma devo fare ancora chiarezza. Non so, il ricordo che mi tengo è che alla fine del primo set urlavo e non mi sentivo, tanto era il tifo della gente. So che sono sulla strada giusta, che queste sono le partite che mi servono. Mi sono reso conto di come Djokovic riesca a studiare il gioco altrui nella partita. Io devo prendere questo, ispirarmi a lui per migliorare, come lui ha fatto avendo contro Federer e Nadal in tutti questi anni. Potrei dire che sono stanco, il corpo mi chiede riposo. Lo farò per qualche giorno, ma non è ancora il momento. Ci sono le Olimpiadi. Ci tengo, punto a una medaglia, posso provarci».

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A un passo dalla gloria (Stefano Semeraro, La Stampa)

Il ricordo che ci terremo addosso, di questa giornata comunque fantastica, la luce da accendere nei giorni storti, è il coro che ha accompagnato Matteo Berrettini per tutta la sua prima – e immaginiamo, speriamo, fortissimamente crediamo – non ultima finale Wimbledon. «Mat-te-ò! Mat-te-ò», tre sillabe, un verso d’ amore per l’italiano che ha stregato il torneo, che ha continuato a piovere dalle tribune anche quando, alla fine del quarto set, era chiaro che il finale era già scritto.

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ma la coppa di Wimbledon è rimasta materialmente qui, nella teca dell’All England Club, e virtualmente in Serbia, per la sesta volta alzata dalle mani di Novak Djokovic. Un fuoriclasse immenso, non sempre, non da tutti amato, ma che ieri ha timbrato l’ennesimo cartellino per l’immortalità (sportiva, non esageriamo). Il sesto Wimbledon gli vale il 20esimo major, a pari merito con Roger Federer e Rafa Nadal, e anche un tram il martello che dicono: l’ho provato sulla mia pelle, qui e a Parigi polino verso il Grande Slam che potrebbe raccogliere a settembre agli Us Open. Berrettini, contro un Mostro del genere, ha fatto quello che doveva e quello che ha potuto.

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Dopo l’ultimo errore di diritto si è piegato sulle ginocchia, con il Djoker steso sul prato, le braccia a croce prima di assaggiare, come da tradizione, l’erba del Centre Court. «È stata una battaglia», ha ammesso dopo 3 ore e 24 minuti Djokovic. «E Matteo è davvero il martello che dicono: l’ho provato sulla mia pelle, sia qui sia a Parigi». Berrettini ci ha creduto, ha lottato, non ha nulla da rimproverarsi. Nessuna percentuale e nessuna statistica dà la misura di cosa significhi giocarsi una finale a Wimbledon, contro un vampiro del genere. Ha ricevuto il premio dal venerando duca di Kent, al suo ultimo red carpet, anche Kate gli ha sorriso regale. «Ora le emozioni sono troppe – ha detto -. Era la mia prima finale in uno Slam, ed è stato un viaggio lunghissimo. Ma per me non è la conclusione, è solo un inizio».

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