Usciti di scena golosi e scialacquatori, salgono sul palco eretici e iracondi.
Al servizio….
…L’ERETICO: BJORN BORG
Per alcuni uomini la rivoluzione è l’unica ragione di vita, mentre per altri è l’involontaria conseguenza delle loro azioni. Lo svedese Bjorn Rune Borg appartiene ai rivoluzionari del secondo tipo: egli fu Martin Lutero, non Che Guevara.
L’Orso svedese rappresenta lo spartiacque tra il gioco praticato dalle élite e il tennis come lo conosciamo oggi. L’aspetto fisico da rock star – un Robert Plant con la racchetta – e le vittorie ottenute già da teenager gli garantirono l’attenzione universale da parte dei mass media e l’adorazione estatica di legioni di ammiratori, molti dei quali sino al suo avvento non distinguevano il tennis dal ping-pong. Se pensiamo alla camera di un ventenne a metà degli anni ’70, non fatichiamo a vedervi appeso a una parete il poster di Borg; fatichiamo non poco a vedere quello di Rosewall o di Laver nella camera di un ventenne alla fine degli anni’60.
Sotto il profilo tecnico, l’incruenta rivoluzione di Borg fu radicale tanto quanto quella mediatica; il suo modo di colpire la palla con rotazioni esasperate con il diritto e con il rovescio bimane (o più precisamente a una mano e tre quarti) ne fanno il padre putativo di tanti giocatori venuti dopo di lui; altrettanto innovativa l’attenzione dedicata alla preparazione fisica: pochi la curavano prima di lui; tutti lo fanno oggi.
Borg fu grandissimo da fondo campo ma fu anche ottimo interprete del gioco di volo; se non lo fosse stato non avrebbe mai potuto vincere 41 partite consecutive a Wimbledon in un’epoca in cui la superficie precludeva la vittoria a chi si limitava al gioco di rimessa. Per fare un parallelo con i campioni moderni citiamo un nome: Rafael Nadal.
La sua carriera fu breve: le sue vittorie sono racchiuse nello spazio di otto anni compreso tra il 1974 e il 1982 quando – dopo il torneo di Montecarlo – virtualmente si ritirò a 26 anni. La quantità e la qualità dei successi che ottenne in così poco tempo è sbalorditiva; al suo palmarès manca soprattutto la vittoria allo US Open nonostante le quattro finali disputate; disputò solo una volta l’Australian Open, nel 1974 da diciassettenne, e si fermò al terzo turno.
Della sua vita dopo il ritiro ci restano due flash: il sobrio doppiopetto rosso indossato al matrimonio con Loredana Bertè e il tragicomico ritorno alle competizioni nel ’91 a Montecarlo con tanto di guru al fianco e Donnay di legno in mano. Risultato: sconfitta al primo turno contro Jordi Arrese.
Il tribunale dell’Oltretennis per lui ha previsto la seguente pena: “Giaccia egli ignudo in una sacca da tennis foderata di carboni ardenti e sia posto sopra il suo capo uno schermo che trasmetta 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 i dieci migliori punti del barone Gottfried von Cramm”.
SCHEDA DEL GIOCATORE | |
Nome | Bjorn Rune Borg |
Nato il | 06/06/1956 |
Nazionalità | Svedese |
Titoli vinti | 66 |
Titoli Slam | 11 (6 RG, 5 W) |
Coppe Davis | 1 |
Miglior Classifica | 1 |
N. settimane al primo posto | 109 |
L’IRACONDO: JOHN PATRICK MCENROE
Fu vera ira la sua? A giudicare dall’opinione che aveva degli arbitri – “dei vecchi che vogliono vedere gratis le partite” – e di alcuni avversari – “ho più talento io nel mio dito mignolo che Lendl in tutto il suo corpo” – parrebbe di sì. Ciò che dichiarò dopo la squalifca per intemperanze subìta all’Australian Open del 1990 solleva però qualche dubbio: quale iracondo genuino infatti affermerebbe che se avesse conosciuto meglio il regolamento avrebbe evitato di incorrere nella squalifica?
Iracondo o meno fu un artista del tennis, il più grande secondo molti autorevoli critici. Ne citiamo due: Gianni Clerici e Beppe Viola. Gianni Clerici: “Se fossi un po’ più gay di quello che sono mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volèe di McEnroe”; Beppe Viola: “Sarei disposto ad avere 37 e 2 di febbre tutta la vita in cambio della seconda palla di servizio di McEnroe” .
L’estetica sublime del suo gioco rischia però di fare passare in secondo piano il fatto che McEnroe fu anche un vincente e un innovatore.
Quando McEnroe apparve sulla ribalta mondiale, il tennis maschile, sulla scia di un campione del calibro e del carisma di Borg, sembrava infatti destinato ad allontanarsi sempre di più dagli schemi offensivi. Lo statunitense dimostrò con i fatti che era ancora possibile vincere attaccando, soprattutto se si era in grado di colpire la palla con grande anticipo in modo da togliere il tempo all’avversario e guadagnare metri di campo. Non è forse il gioco d’anticipo il mantra dei coach moderni e il punto di forza di Federer e Djokovic, per citare solo i più grandi tra i tennisti contemporanei?
McEnroe non fu il primo a colpire la pallina con grande anticipo (anche Jimmy Connors lo faceva con il rovescio), ma fu il primo a farlo sistematicamente ed a giocare da fondocampo dei diritti e dei rovesci a guisa di demi-volée.
Per riuscirci ci volevano il genio sportivo di un atleta capace già a 18 anni di raggiungere la semifinale di Wimbledon da qualificato e dei riflessi straordinari. Quando i riflessi si appannarono iniziò il declino. McEnroe raggiunse il suo apogeo sportivo a 25 anni; nel 1984 a New York conquistò la sua settima e ultima prova in un Major, e nell’arco dell’intera stagione vinse 82 partite perdendone 3. Tra queste 3 spicca la sconfitta nella finale del Roland Garros, un suicidio sportivo che fa di lui un buon candidato per interpretare anche la parte di Pier della Vigna.
Crediamo che ci siano validi argomenti per sostenere che McEnroe al suo meglio sia stato il più grande singolarista di sempre, ma non ne troviamo alcuno per negare che fu il più grande doppista. A tale proposito citiamo il suo storico compagno di doppio Peter Fleming: “Il più grande doppio del mondo è costituito da John McEnroe con chiunque altro”.
A differenza di Connors, che trovava inconcepibile sudare su un campo da tennis esclusivamente per la gloria e non anche per il denaro, McEnroe non negò mai il suo contributo alla squadra statunitense di Davis, con la quale trionfò in 5 occasioni come giocatore e che guidò in veste di capitano non giocatore dopo il ritiro.
Anche con John il tribunale celeste è stato severo. La sua pena prevede infatti che “giochi per l’eternità in doppio alternando al suo fianco un set Lendl e un set Gilbert. Tra una partita e l’altra riposerà arbitrando gli incontri Barazzutti-Higueras”.
SCHEDA DEL GIOCATORE | |
Nome | John Patrick McEnroe |
Nato il | 16/02/1959 |
Nazionalità | Statunitense |
Titoli vinti singolare | 77 |
Titoli vinti in doppio | 77 |
Titoli Slam | 7 (4 USO, 3 W) |
Coppe Davis | 5 |
Miglior classifica | 1 |
N. settimane al primo posto | 170 |
L’ERETICO DANTESCO: FARINATA DEGLI UBERTI (a cura di Gianmarco Gessi)
“O Tosco che per la città del foco
vivo ten vai così parlando onesto,
piacciati di restare in questo loco”.
(Inferno Canto X, vv 22-24)
Manente degli Uberti, noto come Farinata, nacque a Firenze agli inizi del Duecento, probabilmente nel 1212, e fu un protagonista di assoluto rilievo in un momento storico particolarmente critico e doloroso per la sua città, lacerata dalle lotte intestine tra guelfi e ghibellini. Appartenente a una nobile famiglia ghibellina, si distinse ben presto per valore militare divenendo una delle figure più illustri della Firenze dell’epoca. A capo della sua consorteria, giocò un ruolo primario nella sconfitta dei guelfi del 1248, a cui seguì la cacciata di questi ultimi dalla città.
Dieci anni più tardi, nel 1258, dopo molteplici conflitti, la fazione guelfa riuscì a sconfiggere gli avversari e a riprendere il governo di Firenze, costringendo all’esilio gran parte delle famiglie ghibelline, tra le quali quella degli Uberti. Rifugiatosi a Siena, con il sostegno di Manfredi di Svevia, figlio dell’imperatore Federico II, Farinata organizzò le truppe di una coalizione toscana di ghibellini che, nel 1260, portò alla vittoria nella sanguinosa battaglia di Montaperti, ‘lo strazio e lo grande scempio che fece l’Arbia colorata in rosso’ (If X, 85-86).
Unico a essersi opposto a ’viso aperto’ (If X, 93) al proposito delle forze alleate di distruggere di Firenze, rientrò vittorioso nella città natale e vi rimase fino alla morte, nel 1264. Dopo la battaglia di Benevento nel 1266, che portò alla riaffermazione dei guelfi al governo di Firenze, la famiglia degli Uberti fu bandita dalla città. L’esilio fu l’inizio di una ‘persecuzione’ politica e giudiziaria dell’illustre condottiero e della sua discendenza, che si protrasse per moltissimi anni e, nel 1283, portò alla condanna postuma del nobile ghibellino per eresia.
Al ‘magnanimo’ Farinata, oltre alla menzione, nel VI canto dell’Inferno, tra coloro che ‘a ben far puoser li ‘ngegni’ (If VI, 81), Dante dedicò il X canto della cantica infernale. Nonostante l’inevitabile (nell’intransigente visione cristiana dantesca) collocazione tra ‘li eresiarche’, il cui peccato fu il non aver creduto nell’immortalità dell’anima, il sommo poeta celebra il capo ghibellino delineando una figura che per statura morale si erge con imponenza tra i più memorabili personaggi della Commedia. Una figura immensa, la cui grandezza evolve dall’austera integrità nella rivendicazione dei propri valori civili al conflitto interiore che ne tormenta la coscienza, di uomo e padre, per la consapevolezza delle dolorose conseguenze delle proprie gesta.
L’IRACONDO DANTESCO: FILIPPO ARGENTI (a cura di Gianmarco Gessi)
«E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
prima che noi uscissimo del lago”.
Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
di tal disïo convien che tu goda”.
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.»
(Inferno Canto VIII, vv. 52-63)
La Pietà e la compassione sono i sentimenti che più frequentemente animano le parole di Dante Alighieri nel corso della prima parte del viaggio ultraterreno di Dante, soprattutto quando sulla sua strada incontra le anime dei dannati ivi reclusi. Desta quindi sorpresa nel lettore vedere come queste emozioni cedano il passo allo sdegno nell’ottavo Canto, incentrato sull’incontro/scontro di Dante con Filippo Argenti.
Chi fu in vita Filippo Argenti e per quale ragione Dante provava nei suoi confronti una così fiera ostilità, al punto di desiderare di poterlo vedere “attuffare nella broda”, ovvero la palude Stigia nella quale giacciono immersi gli iracondi, condannati per l’eternità a mordersi e colpirsi a vicenda?
Filippo Cavicciuoli, soprannominato “Argenti” a causa del vezzo di ferrare il cavallo con ferratura d’argento, era un membro della famiglia fiorentina degli Adimari. Non sono note né la sua data di nascita né quella di morte, ma si presume possa essere nato intorno al 1260 e deceduto prima del 1300, anno in cui Dante lo colloca nel girone infernale degli iracondi.
Argenti fu un politico schierato con la fazione dei guelfi neri. Quando sul finire del ‘200 la lotta tra guelfi neri e bianchi si fece più accesa, Dante si schierò con i bianchi, che miravano a difendere l’indipendenza di Firenze dalle mire egemoniche della Chiesa all’epoca guidata da Bonifacio VIII, il Papa a cui Dante riserverà – ancora vivente – un posto nella bolgia dei simoniaci. I neri a inizio ‘300 ebbero il sopravvento sui bianchi, e Dante a partire dal 1304 fu così costretto all’esilio dalla sua amata Firenze, ove non fece più ritorno. A questo evento traumatico si aggiunsero episodi di vita quotidiana che videro contrapposte la famiglia Adimari e la famiglia Alighieri.
Da qui con ogni probabilità deriva l’odio implacabile di Dante nei confronti di Argenti. Non dimentichiamo che Dante fu un genio sublime, ma anche un fiorentino di spicco del ‘300, ovvero un uomo fortemente coinvolto dalle passioni politiche e civili che scosserò la sua città.