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Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete

Dall'assolata California fino a Boston, ecco la storia di Hazel Hotchkiss Wightman, gran signora, campionessa e innamorata del gioco fino alla fine. Senza non avremmo avuto Bilie Jean King e Martina Navratilova

Last updated: 06/12/2022 17:51
By Raffaello Esposito Published 05/12/2022
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63 Min Read
Hazel Hotchkiss Wightman

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Come tutti i dominatori May Sutton non reagiva bene quando le cose in campo non marciavano secondo i suoi desideri, ed è comprensibile considerando che fra il 1900 e il 1910 perse solo tre incontri, e tutti in Inghilterra. Lei chiudeva lo scambio in tre colpi, non sapeva cosa significasse combattere punto a punto e neanche le interessava. Così, pur continuando a perdere, mi concentrai nel renderle sempre più difficile la vittoria e quando ci riuscivo notavo chiari segni di dispetto sul suo volto. Li registrai tenendoli a mente per il futuro.

Sezioni
La grande sfidaLa divina Suzanne Lenglen

Poi nel febbraio 1910, nel corso della finale al Coronado Country Club di San Diego, finalmente vinsi un set. Rimasi in partita fino al 4 pari del terzo, il pubblico tutto dalla mia parte e il fumo che usciva dalle narici di May, prima che lei trovasse le righe in un paio di punti decisivi. Nessuno al di fuori della famiglia aveva mai strappato un set alla grande Sutton e quello fu un ceffone in piena faccia.

L’avevo finalmente ferita, gli incontri seguenti si trasformarono in battaglie ma il mio momento stava per arrivare, lo sapevo, lo sentivo.

E nessun dio del tennis avrebbe saputo scegliere meglio la cornice.

La grande sfida

Era il 23 aprile 1910. Ci incontrammo nella finale dell’Ojai Valley Tournament, una competizione che esiste ancora ed è ospitata in uno dei club più belli del mondo. Si gioca a nella contea di Miramonte, fra Los Angeles e Santa Barbara, su splendidi campi che querce dal tronco enorme ombreggiano.

Giovanotti in flanella con dame a braccetto si aggiravano leggiadri sui prati circostanti i campi ma il giorno della finale erano tutti accalcati intorno al Centrale. Spesso è il pubblico ad avvertire come una sorta di premonizione che qualcosa sta per accadere e quel giorno ebbero proprio ragione. Io mi sentivo perfettamente a mio agio mentre fin dall’inizio compresi che per May non era così. È buona norma nel corso del riscaldamento consentire all’avversario di colpire in scioltezza e continuità ma lei non ne aveva la minima intenzione. Sparava a tutto braccio spedendo volontariamente la pallina il più lontano possibile da me, senza darmi la possibilità di palleggiare. La situazione era imbarazzante e quando il giudice arbitro chiese a May se avesse intenzione, così facendo, di ritardare l’inizio del match la sua risposta lo fulminò sul seggiolone. “Se non ti piace il modo in cui sto giocando, non giocherò del tutto!”. Il clima era ormai questo fra noi due.

Non iniziò bene, primo set 6-2 netto per lei. Ma non era un punteggio giusto, stavo giocando benissimo, riuscivo ormai a prevenire la direzione dei suoi fendenti dal suono della pallina sulle corde e solo qualche punto sfortunato e un paio di volée out di un dito decretarono il risultato. E questo lo sapevano benissimo sia il pubblico che May, la quale alla ripresa non era per nulla baldanzosa come d’abitudine. E aveva ben ragione perché da quel momento in poi tutti i pezzi del mio gioco andarono magicamente a posto. Riuscivo a piazzare sempre i miei colpi nel fazzoletto di campo del suo rovescio e avevo ormai imparato a ribatterne il dritto giocando praticamente in controbalzo per annullare gli effetti di quel topspin esasperato. A rete poi mi trovavo d’incanto nel posto esatto per chiudere i passanti. Ero in stato di grazia e sorvolai gli ultimi due set lasciandole sei giochi in tutto. Al match point tutti stavano trattenendo il fiato e per un istante ci fu silenzio assoluto, quello stesso che sempre intercorre fra un lampo accecante e il tuono che lo segue.

Poi il boato, ce l’avevo fatta. May era attonita quando chiusi l’ultima volée e non fece altro che avviarsi decisa all’uscita del campo, che distava solo pochi metri. Io ero a rete con la mano tesa e quando la vidi scappar via la raggiunsi di corsa ma non mi guardò neanche. Così era la Grande Sutton, la sconfitta non faceva parte della sua esistenza e quello era il suo modo di fingere che non fosse avvenuta.

Fu solo uno degli episodi rimarchevoli che caratterizzavano i nostri incontri. Eravamo come due pietre di selce, ogni urto generava scintille.

A settembre dello stesso anno accadde ancora. Fu durante la semifinale dei Pacific Coast Championships a Los Angeles, forse la più bella partita che giocammo mai.

Bé, stai a sentire. Tanto pubblico da non poterci far cadere uno spillo in mezzo, lei con una luce assassina negli occhi che cerca di spaccarmi a pallate e vince un primo set tirato. Ma ci ero abituata e il mio momento arriva. May non poteva reggere quel ritmo, nessuno avrebbe potuto, Infatti a metà secondo set ebbe un netto calo fisico. Senza quello il suo gioco non esisteva, strategia o tattica non trovavano posto nel suo vocabolario. Ero padrona dell’incontro, sentivo che avrei vinto, avvertivo già quel dolce sapore in bocca. Rimasi lucida durante la sosta che preludeva al set decisivo, sapevo cosa fare e come farlo quando mi alzai e presi posto in campo. Poi mi girai e dall’altra parte non c’era nessuno. May Sutton, la regina, era ancora comodamente seduta al suo posto. “I would like to have a cup of tea if possible” chiese all’arbitro con tutta l’aterigia e la naturalezza del suo rango, dopodiché si sedette e attese finché non giunse in campo un cameriere in livrea bianca spingendo un carrello con tazzine e teiera fumante. Io non lo davo a vedere ma fumavo di più. Quando sua maestà volle il gioco riprese e lei vinse 6-4.

Ma adesso avevo incrinato le sue certezze e alla fine del 1911 la battei ancora. Quella fu per me la stagione perfetta, vinsi per il terzo anno filato singolo, doppio e misto ai Campionati Nazionali di Philadelphia e per la prima volta avevo il permesso di rimanere a Est per i tornei della stagione. Non so com’è ma fra il pubblico scorgevo sempre la figura allampanata di tale George Wightman, un bostoniano che studiava legge ad Harvard. Per motivi che avrei presto compreso da qualche tempo me lo trovavo costantemente intorno.

George era fra il pubblico anche ad agosto, quando May e io ci trovammo nuovamente di fronte nella finale del torneo di Niagara on the Falls. Si giocava su erba che un temporale aveva reso simile a una risaia, le palline schizzavano via bassissime e dopo pochi colpi pesavano un quintale. In quelle condizioni non riuscivo a controllare le sassate di May, sbagliavo moltissimo – cosa inusuale per me – e in un battito d’ali persi il primo 6-0 e finii sotto 1-5 nel secondo. Non ci potevo credere, tanta fatica, un inseguimento lunghissimo per poi finire massacrata così. Sono sempre stata una combattente e non smisi di pensare neanche con i piedi sul baratro. Ed ecco, improvvisa, la svolta. Non riuscivo a essere stabile sul campo e quindi chiesi all’arbitro il permesso di indossare le scarpette chiodate, anche May avrebbe potuto ma rifiutò sdegnosamente. Tutto migliorò all’istante, ora mi piegavo bene per raccogliere quei rimbalzi assassini mentre recuperavo gioco dopo gioco. Probabilmente lei stava già pensando ad alzare la coppa e quando si accorse che io non avrei mollato era troppo tardi. Strappai quel secondo set sul filo di lana e nel terzo la mia avversaria non c’era più. 0-6 7-5 6-0, quando chiusi il match point non riuscivo a credere al tabellone. Ancora una volta dovetti rincorrerla per la stretta di mano e quando la raggiunsi mi sibilò “Giochi proprio un tennis di merda”.

May Sutton era fatta così, niente era mai abbastanza pur di raggiungere la vittoria ma non gliene faccio una colpa. È difficile per me criticarla perché lei non conosceva altro oltre il tennis, non volle andare a scuola e fin dall’inizio fu la migliore con una racchetta in mano.

Ma non aveva testa, un bue avrebbe potuto analizzare un colpo o una tattica meglio di lei.

Il matrimonio interruppe la nostra faida quando nel 1912 io sposai George Wightman di Boston, figlio di Henry, braccio destro del barone dell’acciaio Andrew Carnegie e May convolò a nozze col mio ottimo amico e gran tennista George Bundy. Non so più quante volte l’ho sentito ripetere: “Hazel, May ha bisogno di una buona lezione, cerca di batterla per favore”.

Il trasferimento sulla costa Est fu una delle partite più complicate che mi toccò giocare, ma oggi posso dire a buona ragione di averla vinta. E a modo mio.

Fu dura agli inizi perché un marito, quattro figli e una grande casa da mandare avanti divoravano ogni attimo della giornata e all’alba del 1920 mi scoprii irrequieta e alla disperata ricerca di qualcosa, di un’ispirazione per il futuro. Se credevano di tenermi inchiodata a un’esistenza fatta di dame coi capelli azzurrati che servivano il tè alle cinque si sbagliavano di grosso!

È stata una lettera ricevuta all’indomani della mia ultima vittoria in singolo ai Campionati statunitensi – e soprattutto la firma in calce – a riaccendere la lampadina.

La divina Suzanne Lenglen

La scrivente era una giovane francese di nome Suzanne Lenglen, la quale si complimentava con me e auspicava un futuro incontro fra noi. Quell’incontro non ebbe mai luogo ma tanto bastò per farmi balenare in mente un’idea. Perché non organizzare un incontro internazionale fra le migliori tenniste sulle sponde opposte dell’Atlantico prendendo a modello l’iniziativa di Dwight Davis che tanto successo aveva avuto? Giusto il tempo di pensarlo e già varcavo la soglia di N.G. Wood & sons di Park street, Boston. Avevo in mente la ormai classica insalatiera ma il sig. Wood non aveva niente di simile. Così optai per una coppa d’argento snella e alta ventotto pollici, che sembrava più adatta ad accogliere rose recise piuttosto che l’inebriante vino della vittoria. Diventerà, io non volevo quel nome, la Wightman cup, la nostra Davis.

Nonostante l’iniziale entusiasmo ci volle qualche anno perché riuscissi a convincere la federazione del mio paese, allora capeggiata dal mio buon amico Julian Myrick, a organizzare la contesa. Si decise di coinvolgere nella sfida solo l’Inghilterra, anche se la sottoscritta premeva per una competizione mondiale. Non fu così ma l’importante era il primo passo, che si compì fra l’11 e il 12 agosto 1923 quando la nostra selezione, capitanata da me, sconfisse le cugine inglesi per 7 a 0. Helen Wills e io vincemmo insieme uno dei due doppi.

Già, Helen Wills…

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