Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete - Pagina 2 di 5

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Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete

Dall’assolata California fino a Boston, ecco la storia di Hazel Hotchkiss Wightman, gran signora, campionessa e innamorata del gioco fino alla fine. Senza non avremmo avuto Bilie Jean King e Martina Navratilova

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Hazel Hotchkiss Wightman
 

Pavimentazione grezza di cemento, soffitto altissimo, una rete da tennis tesa a metà.

Le quattro pareti sono coperte da pannelli di legno ed è contro uno di quelli che una minuta signora, i capelli più bianchi della gonna ampiamente sotto il ginocchio, mi dà le spalle e gioca con ardore.

E mentre la candida pallina colpisce sempre lo stesso punto – tre dita sopra la linea della rete – ritornando docile dalla sua padrona, la sento dire con voce gioiosa “ritmo ed equilibrio, mai incrociare i piedi. È così facile! Potrei farlo per sempre”. Tutto di quella scena sembra appartenere al passato eppure si sta svolgendo sotto i miei occhi. Rimango impalato sul portone a guardare. D’improvviso e senza girare la testa lei si rivolge a me.

La storia che comincia con la traversata della Mayflower

Buongiorno giovanotto, deve essere un sincero appassionato di tennis se è giunto fin qui”. Allibito, non riesco a proferire parola.

Lei mi guarda e increspa le labbra in un sorriso di benvenuto, poi posa l’antica racchetta in legno e si dirige svelta verso di me. È così leggera e aggraziata che sembra non toccare il pavimento. La dama ha occhi grigioblu che non riesco a smettere di fissare e per qualche strano motivo mi è impossibile darle un’età.

Tendo la mano e mi presento nel mio inglese casereccio, scusandomi per l’intrusione.

Nessun problema” risponde, “qui è la regola. È da tanti anni che insegno a chiunque varchi la soglia, e non ho mai chiesto un penny in cambio”.

Mi perdoni signora, con chi ho il piacere di parlare?”

Sono stato troppo diretto, goffo e inopportuno e la mia ospite sottolinea la cosa inarcando le sopracciglia. Poi mi fa la gentilezza di rispondere.

Chi sono io? È una lunga storia che non racconto da tanto… Ma se hai voglia di sentirla, e soprattutto di bere una buona tazza di té, mi farà piacere ricordare.

Prima però devo finire l’allenamento”.

E così dicendo riprende a martellare la povera parete. Poco dopo siamo seduti comodamente in un angolo del garage su due poltrone che hanno visto anni migliori.

Dunque giovanotto – mi chiede secca – cosa vuoi sapere?”

Tutta la storia, dal principio”, rispondo io sempre stregato da quegli occhi.

Oh, bé, allora! Se vuoi il principio, quello avrai. Dunque…

Tutto è cominciato in mezzo al mare nel 1638, a bordo dell’Hector, un elegante vascello dalle linee affilate che faceva la spola fra le due sponde dell’Atlantico.

Confuso fra i passeggeri che cercano una nuova vita nei vasti orizzonti del nuovo mondo c’è un giovanotto inglese di 15 anni, il suo nome è James Hotchkiss.

Viaggia da solo, i parenti sono rimasti in patria nella contea di Shropshire.

Giunto a New Haven la vita non si rivela facile per lui. Ai tempi della prima migrazione seguita alla traversata del Mayflower la morale puritana nelle colonie d’America era soffocante. Le cronache del tempo riferiscono che James venne multato due volte perché portava una pistola arrugginita e dormiva in servizio di guardia. Era solo un ragazzo ma le regole erano dure, e duramente fatte rispettare. Nel 1642 lui e una certa Elizabeth Cleverley vengono frustati sulla pubblica piazza per “filthy dalliance”, una relazione sporca dal momento che entrambi erano minorenni. Il giorno dopo la gogna ottengono dallo stesso giudice che li aveva condannati il permesso di sposarsi. Nascono sei figli e così inizia il radicamento degli Hotchkiss oltremare. Ma il cammino è solo all’inizio.

Lo spirito di avventura e il coraggio che spinsero il quindicenne Samuel oltre l’Oceano scorre misto a sangue nelle vene della nostra famiglia e ai primi del 1800 un pronipote di nome Benoni si stabilisce a Campbellsville, Kentucky. Qui si afferma come il più ricco mercante dello stato. Intanto la giovane nazione costruisce sé stessa cavalcando verso Ovest e tutte le contraddizioni che la agitano stanno per esplodere nel conflitto fra Nord e Sud. Manca meno di un anno al colpo di cannone sparato a Fort Sumter che segna l’inizio delle ostilità quando il figlio Benoni jr carica averi e famiglia su un carro coperto per percorrere l’Oregon Trail, il tragitto di oltre duemila miglia che portava fino in California.

Alla conquista del West

Era un tuffo nel buio, era il West.

Oltre il Mississippi le grandi pianure erano popolate da Sioux, Cheyenne e Comanche, popoli pacifici che solo la mendace storia scritta dai vincitori ha fatto apparire come bellicose e sanguinarie. Il loro sterminio da parte dell’uomo bianco venne programmato minuziosamente.

La Guerra Civile è agli sgoccioli nell’inverno del 1864. Presso un’ansa del fiume Sand Creek in Colorado sono accampati circa seicento Cheyenne, per due terzi donne e bambini. È fine novembre, il freddo intenso e dalla cima dei tepee esce il fumo del focolare domestico. Gli uomini sono a caccia e le donne raccolgono i frutti della terra quando un drappello di soldati irregolari comandato dal colonnello John Chivington compare all’orizzonte. Costui in un discorso pubblico tenuto a Denver poco tempo prima aveva dichiarato che “…bisogna uccidere e scotennare tutti gli indiani, anche i neonati, perché le uova di pidocchio generano pidocchi”.

Le tribù accampate sono tranquille, si sentono protette dai trattati firmati poco prima e del resto da tempo intrattengono rapporti commerciali con il vicino Fort Lyon.

Quel che purtroppo non possono sapere è che l’infame colonnello agisce sotto preciso mandato del governatore del Colorado John Evans, un alfiere della linea dura.

È l’alba, il drappello di soldati arriva a 400 metri dal villaggio e apre il fuoco. Il capo Cheyenne si chiama Pentola Nera, un nome ben poco bellicoso. Quando il cuoio della sua tenda viene squarciato dai proiettili si precipita fuori e raduna donne e bambini intorno a un palo con issata la bandiera statunitense. Gli avevano promesso che sotto di essa sarebbero stati al sicuro. Ma l’uomo bianco parla con lingua biforcuta e il gruppo viene falciato senza pietà dai winchester. Il vecchio capo Antilope Bianca va incontro alle truppe gridando di fermarsi in un inglese comprensibilissimo, secondo il racconto di Robert Bent, un meticcio costretto a far da guida al drappello.

Crolla immediatamente crivellato dai colpi e si dice che con gli ultimi aliti di vita abbia intonato il canto di morte della tribù.

Niente vive a lungo, solo la terra e le montagne…

Quando tutto finisce sul terreno si contano centotrentatré morti. Solo ventotto sono uomini, il resto donne e bambini orrendamente mutilati. Fra gli assalitori le vittime non arrivano a dieci.

Quando la Guerra Civile termina il nuovo nemico da eliminare sono proprio i pellerossa. Dopo il 1865 l’avanzata verso Ovest riprende a pieno regime e le tribù indigene si vedono rubare la terra sotto i piedi.

Grandi capi come Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa e Toro Seduto non hanno alternativa ma mandano un’ultima ambasciata al governo.

Se esiste un viso pallido che dice la verità mandatecelo e noi lo ascolteremo”.

L’incaricato scelto da Washington è George Crook, il più grande avversario degli indiani nella storia americana ma l’unico al quale prestassero fede. La via è tracciata. Lui è un uomo di guerra, non un macellaio come Chivington. Quando accettò l’incarico aveva appena condotto una cruenta campagna contro gli Apache e alla domanda se non fosse troppo duro ricominciare daccapo rispose: “…Sì, è duro! Ma la cosa peggiore è andare a combattere contro coloro che sono nel giusto”.

A Little Big Horn vinsero una battaglia, ma la guerra era già persa da tempo.

Questo era quel mondo quando Benoni Hotchkiss attraversa le pianure insieme a mia nonna Virginia e ai due figli. Il maggiore ha due anni e si chiama William Josephus, per tutti W.J.

Giunta in California dopo mesi di viaggio in terre ostili – Virginia odiò sempre i picnic perché, diceva,“…ne ho avuto abbastanza di fuochi da campo e vita all’aperto!” – la famiglia acquista 375 acri di terra a Healdsburg, un centinaio di chilometri a nord di San Francisco.

Il tennis arriva in California

W.J. cresce e si innamora di Emma Grove, di cinque anni più grande di lui, la cui famiglia, che possedeva il ranch adiacente, aveva percorso l’Oregon Trail quasi in contemporanea alla sua ma in treno, portandosi dietro pure un pretenzioso pianoforte a coda. La corte fatta di andirivieni in calesse su strade polverose ha successo. Wiliam e Emma si sposano il 25 novembre 1880 e nei dieci anni seguenti mettono al mondo cinque figli, quattro sono maschi. L’unica femmina fui io, la luce degli occhi di mio padre. Mi hanno chiamata Hazel Virginia e sono nata nella casa di famiglia il 20 dicembre 1886. È lì che comincia il mio viaggio.

Devi sapere che a quei tempi il tennis si giocava a Est.

Era naturalmente approdato su quelle coste dalla madre Inghilterra e nelle piovose estati lì si tenevano i primi tornei importanti sui prati verdi di circoli esclusivi quali il Newport Casino, il Philadelphia Cricket Club o il Longwood di Boston.

Le dame in ombrellino e i cavalieri in tuba e redingote che li popolavano avevano solo una vaga idea di quel che ci fosse oltre il Mississippi. La California era distante come Marte, i suoi abitanti probabilmente vivevano in capanne di tronchi cacciando castori. La conoscenza reciproca e l’integrazione viaggiavano lente, al ritmo del telegrafo e del treno a vapore. La realtà era ben diversa e presto quei prestigiosi prati diventeranno terra di conquista per i Grizzly Beards che giungevano da lontano.

La prima pallina rimbalzò in California pochi anni prima che io nascessi.

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