Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete - Pagina 5 di 5

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Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete

Dall’assolata California fino a Boston, ecco la storia di Hazel Hotchkiss Wightman, gran signora, campionessa e innamorata del gioco fino alla fine. Senza non avremmo avuto Bilie Jean King e Martina Navratilova

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Hazel Hotchkiss Wightman
 

Ogni anno a fine estate caricavo prole e bagagli sul treno e attraversavo la nazione in visita ai miei genitori. Era una magia, man mano che la locomotiva divorava rotaie e traversine tutte le convenzioni e i manierismi della costa Est mi cadevano di dosso come foglie in autunno e quando sentivo il profumo del Pacifico ero tornata una Grizzly Beard.

Ai primi di settembre di quel 1920 mi aggiravo senza meta fra i campi in cemento dell’università di Berkeley. Si narra che alcuni scout di baseball riconoscano un campione dal suono della mazza in battuta e in un istante compresi che quelle storie sono vere. Furono colpi di ritmica e armoniosa nettezza che fecero volgere il mio sguardo verso quella ragazzina di quattordici anni.

Longilinea, trecce al vento e una visiera sugli occhi di sua invenzione, colpiva forte dalla linea di fondo senza mai sbagliare. Volli immediatamente conoscerla e chiesi di poterla allenare.

Giocavamo quattro volte alla settimana e le doti innate di Helen non smettevano mai di stupirmi. Concentrazione, volontà di migliorarsi, umiltà nell’apprendere. Unite questo al talento nel colpire una pallina di feltro e avrete una vera campionessa.

Le sole mancanze di quella macchina da tennis erano il gioco di gambe e la volée e su questo lavorammo per tutto il periodo. Anni dopo, comodamente assisa su otto Wimbledon e una montagna di altri trofei, lei ebbe ancora la gentilezza di dichiarare che solo il giorno in cui ci incontrammo iniziò veramente la sua educazione tennistica. Ma in realtà fu lei a indicarmi una nuova strada. E l’avrei percorsa fino alla fine della mia vita.

Arrivò il1924, un anno memorabile. Helen e io conquistammo Wimbledon e l’alloro olimpico a Parigi, su quegli orrendi campi in terra battuta terminati all’ultimo momento e molli come spiagge. Io mi abituai presto alle condizioni di gioco, tanto da portare a casa anche il titolo del doppio misto insieme a Dick Williams. Lui si era rotto il tendine d’Achille in semifinale ma per un sopravvissuto al naufragio del Titanic non era che una piccola noia…

Era un tennista fenomenale, colpiva piatto di controbalzo mezzo metro dentro al campo e in luna buona era imbattibile. Maestro del gioco a metà campo, la cosiddetta “terra di nessuno” era inoltre una sorta di cavalier cortese, che considerava scorretto alzare un pallonetto su una donna che giocava controsole.

Il giorno della finale tutta USA contro Vinnie Richards e Marion Jessup però Dick era immobile. Poteva colpire solo a distanza di un passo, così gli dissi: “tu prova a chiudere il punto su ogni palla che ti capita a tiro, al resto penso io”. Forse non ci credevo neanche ma funzionò. Non ricordo quanti lob ho recuperato e quante palle ho rincorso quel giorno ma l’ho fatto, e alla fine il tabellone recitava 6-2, 6-3 per noi.

Le Olimpiadi di Parigi e l’incontro con i reali

Quella magica estate però non era ancora terminata.

Si dice che una racchetta sia un passaporto per ogni città del mondo. Bene, quel che accadde nel lungo viaggio di ritorno dalla Francia conferma l’adagio.

Al termine dei Giochi parigini, l’ambasciatore statunitense Alexander Moore invitò la squadra di tennis a nome della regina di Spagna Vittoria Eugenia a trascorrere un fine settimana ospiti del tennis club di San Sebastian, località sul Golfo di Biscaglia dove i reali tenevano il loro palazzo estivo.

Quel sabato di agosto del 1924 fummo introdotti al cospetto della famiglia reale e dopo le presentazioni di rito, attraversammo il giardino fino a un campo in terra battuta orlato da querce enormi, che avremmo presto scoperto essere un problema per i lob…

In quel momento il re Alfonso mi prese sottobraccio chiedendomi di far coppia con il secondogenito Don Jaime contro il borioso Principe delle Asturie e suo cugino e… di batterli!

Intuivo in qualche modo di non essere che lo strumento di una lezione di vita che il sovrano voleva impartire all’erede ma l’ordine di un Re non si discute, si esegue.

Don Jaime era scatenato, invadeva costantemente la mia parte e mi colpì un paio di volte in testa, ma ogni volta si scusò baciandomi la mano. Vincemmo facile in due set.

Nell’incontro seguente io feci coppia con Julian Myrick contro Vinnie Richards e la regina Vittoria Eugenia. Dopo una mezz’oretta di buon gioco ci trovammo avanti 5-3. Quando Julian mi porse le palline per servire ci bastò uno sguardo per capire cosa fare. Tutto stava nel farlo con classe. E ci riuscimmo perché a pranzo il Re mi strizzò l’occhio sussurrando di non aver mai visto un incontro ceduto così galantemente. Poi con un sorriso volpino aggiunse:

Del resto anche quando gioco a polo la mia squadra vince sempre e io sono il migliore in campo…”.

L’età è una bestia che avanza lenta e costante caro mio e bisogna sempre tenerla a bada con nuovi progetti. Avevo trentasette anni e quattro figli, il mio mezzogiorno era alle spalle ma poco mi importò. Ho scoperto di amare il gioco del tennis, se capisci cosa intendo. E una volta compreso quello tutto il resto venne di conseguenza.

Negli anni seguenti mi capitò di lavorare al gioco di quasi tutte le più grandi.

Helen Jacobs è stata l’allieva perfetta ma ebbe la sfortuna di essere di fatto contemporanea alla Wills. E non ci fu quasi mai storia, se non nella splendida, feroce, drammatica finale di Wimbledon 1930.

Scorsi Sarah Palfrey nascosta fra le sorelle maggiori e mi permisi anche qualche consiglio alla divina Alice Marble, che dopo la sospirata vittoria sul Centre Court nel 1939 mi fece pervenire segretamente un ringraziamento. Questo perché Teach Tennant, la sua allenatrice ufficiale, non l’aveva presa affatto bene.

Un giorno fui colpita da una folgorazione. Il vero tennis era a Est ma i campioni nascevano a Ovest, poche giocatrici potevano affrontare disagi e spese di un viaggio così lungo per disputare i tornei sull’erba, quindi perché non offrirsi di ospitarle per la stagione tennistica?

Il tennis B&B

Nella grande casa gialla di Boston lo spazio abbondava e mi misi subito all’opera. Le prime ospiti di casa Wightman furono proprio la Wills e sua madre, ricordo ancora il rumore tremendo che la giovane Helen faceva salendo le scale. “Ti prego cara, solleva con grazia quei piedoni” le ripetevo continuamente. E fu un successo. A partire dagli anni ’30 la mia casa in Charles street – e dopo il mio divorzio nel 1940 a Chestnut Hill – divenne il punto di riferimento per ogni tennista lontano dai suoi, da Los Angeles all’Australia. Shirley Fry non smise mai di ringraziarmi, Helen Jacobs voleva sapere in anticipo se ci sarebbe stata anche l’odiata Wills e una volta, al ritorno dal bridge serale, scoprii Margaret Court addormentata sui suoi bagagli in salotto. Senti cosa scrisse la cara Billie Jean;

At Longwood, Hazel conducted clinics and numerous tournaments. During tournament weeks her three-story home became a kind of sorority house for aspiring young girls and women from all over the world. Guests slept everywhere, from the basement to the solarium, coexisting peacefully with Mrs. Wightie’s cats, which came and went as they pleased through the open windows”.

Il tennis mi ha reso una donna indipendente e l’ho amato tanto anche per questo.

Ho amato soprattutto le migliaia di ore trascorse sul campo, e in questo stesso garage, circondata da ragazzi e ragazze con la racchetta in mano. Spesso non mi interrompevo neanche in pausa pranzo e continuavo a insegnare con la racchetta in una mano e un sandwich al tonno nell’altra. Una volta mi infortunai al polso e feci lezione per una settimana con la sinistra.

Ho conosciuto i più grandi ma sono felice soprattutto di aver condiviso e diffuso la mia passione con migliaia di volti anonimi, ai quali ho insegnato che la cosa più importante è scoprire il proprio tennis. So che non mi hanno dimenticata.

Un pomeriggio di aprile, doveva essere il 1973 o giù di lì, venne a trovarmi una mia allieva di tanti anni prima. Si chiama Janice Kaplan, oggi è una brava giornalista e scrittrice. Erano giorni che non mi sentivo bene e non riuscivo ad alzarmi dal letto, così feci accomodare Janice in camera. Ricordavamo i tempi andati e lei mi raccontava di non essere mai riuscita ad avere il pieno controllo dei suoi colpi.

Il solo parlare di tennis mi aveva rinvigorito, balzai in piedi e presi due racchette dallo sgabuzzino. Giusto il tempo di un aiuto per allacciare le scarpe – sai, dopo milioni di smash la mia schiena scricchiola – e ci siamo dirette al garage.

Abbiamo giocato forse un’oretta, prima con cautela, poi con entusiasmo. A un certo punto l’ho lasciata immobile con un dritto lungolinea e in quel preciso istante tutti i miei anni mi sono caduti di dosso. Una sensazione magica.

Ricordalo sempre ragazzo, il tennis fa miracoli!

Mentre il giorno declinava e io cercavo di orientarmi in quell’incredibile storia le parole dell’anziana signora cominciarono a perdere coerenza. Mi sembrò anche che i suoi contorni si sfocassero mentre a fatica e con gentilezza mi invitava ad andarmene.

Si è fatto tardi per me” disse.

Il sole era tramontato da un po’ quando mi avviai per tornare all’albergo riflettendo su quello strano incontro. Dopo qualche centinaio di metri mi accorsi di aver dimenticato la giacca e mi affrettai a tornare alla casa gialla, sperando che Hazel non si fosse ancora coricata.

Maledicendomi per la mia sbadataggine bussai alla porta e attesi. Bussai una seconda volta ma nessuno rispose. La casa sembrava vuota, abbandonata.

Con cautela provai quindi a entrare nel garage con l’intento di recuperare la mia giacca e fuggir via alla chetichella ma appena dentro mi si mozzò il respiro.

Il campo, la rete e le pareti di legno non c’erano più, al loro posto un banco da lavoro attrezzato e due fuoristrada Ford Ranger.

Sono uscito barcollando e dovevo avere una faccia sconvolta perché un simpatico vecchietto affacciato a una finestra vicina mi chiese se avessi bisogno di aiuto.

Mi scusi” dissi farfugliando “lei sa per caso dov’è andata la signora Wightman?”

Ma figliolo, Hazel è morta da più di cinquant’anni…

Impossibile! Abbiamo parlato tutto il pomeriggio, mi ha anche offerto il tè, eravamo faccia a faccia dieci minuti fa…”.

L’uomo mi guardava con un sorriso enigmatico e non scorderò mai la sua risposta:

Figliolo, il tennis fa miracoli e quando si tratta di miss Wightie tutto è possibile…

Non so dire se ho sognato tutto questo ma io la giacca non l’ho più trovata.

Mi piace pensare che serva a tenerla calda lassù in cielo.

Wham, Bang!

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