«Io, il tumore e le ragazze del tennis» (Piccardi). Il Natale di Sinner (Cocchi)

Rassegna stampa

«Io, il tumore e le ragazze del tennis» (Piccardi). Il Natale di Sinner (Cocchi)

La rassegna stampa di mercoledì 27 dicembre 2023

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«Io, il tumore e le ragazze del tennis» (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

Per Tathiana è stato un Natale diverso. «Riservato, ma non meno sentito: mi hanno tolto anche la milza e non ho gli anticorpi che il mio fisico dovrebbe produrre. Incontro i parenti con la mascherina, però la situazione richiedeva massime precauzioni. Quindi ho trascorso il Natale con mia moglie Ylenia, la mia famiglia, la persona che è rimasta sempre con me anche nei momenti più difficili, quando la sofferenza ti toglie qualsiasi lucidità». Un Natale diverso ma a casa, finalmente. Un mese dopo il primo intervento per il tumore raro scoperto al ritorno dall’Open degli Stati Uniti («A New York ho avuto mal di pancia ma non mi sono preoccupata più di tanto: una volta in Italia gli accertamenti hanno portato alla diagnosi»), Tathiana Garbin, 46 anni, veneta di Mestre, ex numero 22 della classifica del tennis (2007), capitana della Nazionale italiana femminile, era in panchina per la finale di Billie Jean King Cup persa con il Canada, l’impresa che le sue ragazze le hanno regalato per infonderle coraggio. Qualche giorno dopo, infatti, una seconda operazione, seguita da complicazioni indesiderate che hanno riportato Garbin in ospedale: «Occlusione intestinale. È come se, finito un match durissimo e data la mano all’avversaria, l’arbitro fosse venuto a chiamarmi sotto la doccia: Tati, sei ancora 5-5 al terzo set, devi tornare in campo. Che fai? Accetti oppure rischi di perdere la partita».

Tathiana, la domanda più banale è anche la più sensibile: come sta?

Meglio. L’Ospedale Cisanello di Pisa, dove sono stata operata tutte e due le volte (la prima dai professori Morelli e Di Candio, la seconda per un intervento molto complicato dal professor Lippolis), mi ha dimessa a ridosso del Natale, il vero regalo. Sono state settimane difficilissime, un percorso pieno di dolore ma può succedere: asportato il peritoneo, le aderenze a livello intestinale possono occludere l’intestino. Ho risolto senza necessità di una terza operazione, mi considero fortunata. Alla fine riesco sempre a uscirne in piedi.

Merito della tempra da atleta, anche.

E’ una vita che mi preparo per una sfida così grande. Ma le sfide non le scegliamo, arrivano: bisogna essere pronti ad affrontarle. Aver giocato a tennis ad alto livello, e averlo insegnato (trasferire agli altri è un passaggio fondamentale), ha avuto un ruolo importante in questa vicenda. Quando mi hanno diagnosticato lo pseudomixoma peritonei, il tumore che origina dall’appendice e che colpisce una persona su un milione, ero pronta: mentalmente e fisicamente. Sono tornata in campo per il match della vita, voglio essere d’esempio per le mie giocatrici. L’esempio è fondamentale. In Billie Jean King Cup, a Siviglia, sono andate oltre le loro possibilità, scavando dentro se stesse per trovare energie inaspettate. Le ragazze sapevano, nei loro occhi ho visto la forza che cercavo. Prima del secondo intervento sono venute a trovarmi a Pisa con una nostra foto incorniciata: non ho smesso di guardarla un attimo. Siamo cresciute insieme, negli anni sono diventate le mie figlie, la mia famiglia itinerante. L’allenatore deve accompagnare, mai imporsi: ho cercato di dare loro le mie armi, perché andassero autonome per il mondo. E nel momento del bisogno, insieme alla Federtennis, mi hanno restituito tutto.

L’Italia finalista è stata premiata dall’icona che dà il nome al trofeo: Billie Jean King. Cosa le ha detto sul podio?

Billie non sapeva del tumore ma era estasiata dallo spirito delle mie ragazze. Era venuta nello spogliatoio a parlarci prima della finale, ci ha ricordato quanto è importante lottare per i nostri diritti di donne e atlete. In Italia si parla di patriarcato, c’è ancora tanto da lavorare, ecco perché bisogna dare visibilità ai risultati delle ragazze. […]

A cosa si è aggrappata, quando il buio era più fitto?

Alla positività che ho sempre insegnato: non potevo tradire me stessa sul più bello. Ho usato la mindfulness, la respirazione consapevole. Mi sono parlata molto, rassicurandomi sul fatto che avrei trovato la forza che alleno da una vita. Evert e Navratilova, impegnate in percorsi di malattia simili al mio, non le ho contattate, no. Ho guardato in loop le immagini delle mie ragazze in campo: Supertennis mi ha mandato un file video che ho consumato. L’importante è volersi bene, non perdere mai la speranza. C’è una nuvola? Okay però dietro c’è sempre il sole, basta che quella nuvola si sposti.

Non ha mai pensato di tenere per sé la malattia? Perché la scelta di condivisione?

Ci ho pensato tanto, la malattia spesso viene vissuta con vergogna e a Siviglia, in Billie Jean King Cup, era giusto che tutta la luce l’avessero le ragazze. Finito il torneo, mi sono convinta di poter dare un contributo alle persone in difficoltà: ho visto tanta sofferenza, e qualcuno che non ha reagito e non ce l’ha fatta. Ho iniziato a scrivere per aiutare me, per osservare da fuori cosa mi stava accadendo. Rileggermi, anche oggi, mi serve. Mi hanno scritto in tantissimi. Comunicare la malattia significa anche farsi aiutare: tendere la mano è un grande atto di coraggio. […]

Pochi giorni e siamo nel 2024, Tathiana. Cosa vede?

Un ultimo esame istologico che mi permette di avere pensieri positivi e sensazioni buone. Nella visita del 15 gennaio l’oncologo mi dirà se le cure chemioterapiche sono state sufficienti: sembrerebbe di sì. È partito tutto dall’appendice senza alcuna familiarità tra i parenti anche se è vero che i miei fratelli l’appendice l’hanno tolta, quindi non abbiamo la controprova.

Tornare sulla panchina della Nazionale, che la Federtennis le conserva con affetto, è il primo obiettivo?

Vorrei riprendermi la mia vita, quello che ho sempre amato, ciò che ho sempre voluto fare. Ho la fortuna che il mio lavoro sia la mia passione. Mi sveglio ogni mattina più motivata che mai.

Si sente cambiata dalla malattia?

Sì, profondamente. Ma non per forza in peggio. Ho toccato con mano la mia forza: non immaginavo di contenerne in quantità da poterne dare agli altri. Sono ben più resiliente di quanto non pensassi. Sento di voler regalare le mie esperienze, voglio mettermi al servizio. Spesso nella vita ci si perde in solenni cavolate: beh, non sarà più così. Quando dai troppa importanza alle cose futili, rischi di perdere la via. Questa avventura mi ha insegnato che se cadi è perché per terra c’è qualcosa che va raccolto. Io ho raccolto la vita, il bene più prezioso. Oggi non mi sfugge più: ho imparato che ogni giorno va assaporato come se fosse l’ultimo. Non ho paura di morire, davvero: ho avuto un’esistenza ricchissima, di cui non cambierei un istante. Mi sono conosciuta meglio attraverso lo sport che amo.

Sedersi in panchina, a Siviglia, tra due operazioni drammatiche. Perché?

Non volevo che le mie ragazze si sentissero sole.

Il Natale di Sinner (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

L’ultima sciata sulle nevi di casa, una full immersion tra gli affetti famigliari per le feste e via, oggi è già tempo di allenarsi a Montecarlo per Jannik Sinner che il 2 gennaio volerà a Melbourne per iniziare la stagione 2024. Un anno importante, in cui cercherà di confermare gli straordinari risultati raggiunti negli ultimi due mesi. Il suo è stato un finale tutto in crescendo, con il numero 4 del mondo messo al sicuro grazie alle vittorie di Pechino e Vienna, la finale delle Atp Finals raggiunta a Torino e l’impresa di Davis, da vero leader azzurro, con la doppia vittoria su Djokovic (in singolare e doppio) per poi condurre la squadra alla conquista dell’Insalatiera d’argento che mancava dal 1976. Sinner è molto legato alla sua terra d’origine, la Val Pusteria, dov’è nato 22 anni fa e che ha lasciato molto presto per poter crescere come tennista. Gli inizi da sciatore, campione Under 12 di gigante, e poi la scelta definitiva per la racchetta. Sinner è un ragazzo che non lascia niente al caso, non lo è mai stato fin da ragazzino quando scelse di mettere da parte gli sci e la neve per trasferirsi a Bordighera da coach Riccardo Piatti che lo ha forgiato e cresciuto fino al distacco del 2022, immediatamente dopo l’Australian Open. Sinner aveva scelto il tennis perché «concede sempre una seconda possibilità Se nello sci cadi, la gara è finita. Nel tennis puoi ricominciare a ogni punto, fino a che la partita non finisce», è solito raccontare. Concetto dimostrato in maniera esemplare proprio a Malaga, durante la semifinale di Coppa Davis contro la Serbia. Quei tre match point annullati a Novak Djokovic quando tutti, capitan Volandri compreso, non credevano più a un approdo in finale. «Non è finita finché non è finita», forse sarebbe questa la frase che Jannik si tatuerebbe se amasse farsi disegnare la pelle, ma al momento preferisce dimostrarlo sul campo, con una forza mentale rara. Ma se il tennis è la sua vita, il lavoro, il pensiero costante («parlo, gioco e vedo tennis tutto il giorno») la neve, le piste immacolate sono il suo modo di ritrovarsi, di riconnettersi con la sua natura più profonda, le radici. Lo aveva fatto anche subito dopo la vittoria in Davis, prima di volare ad Alicante per la preparazione invernale: «Ho bisogno di sentire il contatto con la natura, con le mie montagne quando posso. Quando scio mi riconnetto con le mie origini e con la parte più profonda di me». E dopo aver concluso le due settimane intense di lavoro in Spagna, il 23 dicembre, la neve è stata ancora una volta il primo posto dove ritrovarsi, fare il pieno di energie. Per la gioia di chi ha potuto incrociarlo. Jannik non si è negato ai tifosi che gli hanno chiesto una foto con gli sci ai piedi: «Da bambino – ha detto al Tg 1 – ho sempre avuto il sogno di avere una foto con i miei personaggi preferiti, e adesso che sono io quello a cui chiedono le foto, cerco il più possibile di accontentare tutti» . […] In questi giorni ha potuto anche passare qualche ora col fratello Mark, di tre anni più grande e a cui legatissimo: «E’ più di un fratello – è solito ripetere – è un migliore amico, la persona con cui posso parlare anche nel cuore della notte se ne ho bisogno. Con lui mi confido ma mi diverto anche». Con lui ha anche potuto sciare, piste non troppo impegnative, percorse in scioltezza, perché va bene il relax e il contatto con la natura, ma un infortunio sulle piste alla vigilia dell’avvio di stagione sarebbe stata una mezza catastrofe: «Mi era mancato tutto questo – ha scritto nel post dedicato alla sua giornata sugli sci -. Ma adesso e il momento di tornare al lavoro». Oggi Jannik inizia a Montecarlo, sui campi del Country Club, la rifinitura prima della partenza del 2 gennaio, destinazione Melbourne insieme a coach Vagnozzi, al preparatore atletico Umberto Ferrara e al fisioterapista Giacomo Naldi, mentre Darren Cahill li aspetta in Australia. Lì dal 10 al 12 gennaio il n. 1 Italiano sarà in campo nell’esibizione di Kooyong, vecchia sede dell’Australian Open, e poi, dal 14, nel tabellone del primo Slam della stagione.

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