Ma perché far cominciare gli incontri di Coppa Davis così tardi, alle 15, per finire quasi sempre nei dintorni di mezzanotte quando non alle una, quando una squadra -come il Brasile che ha giocato mercoledì contro l’Italia e poi giovedì contro l’Olanda – rischia di dover giocare partite decisive con ben poco riposo, pregiudicando quindi anche la qualità del tennis?
A Bologna martedì sera il doppio di Italia-Brasile si è chiuso a mezzanotte e un quarto.
Ho seguito la Coppa Davis con il nuovo format fin dalla sua prima edizione a Madrid nella Caja Magica, quando i suoi critici più feroci l’avevano ribattezzata Coppa Piquè, attribuendo all’ex calciatore del Barcellona e delle furie rosse iberiche la responsabilità per il grande sacrilegio.
La seguii con lo spirito nostalgico di chi preferiva il vecchio format tradizionale, tre giorni in casa o fuori e quasi sempre a spalti pieni di spettatori e di genuino entusiasmo (senza che ci fosse bisogno cioè di “assoldare” bande di musicanti dotati di trombe e tamburi assordanti e asfissianti). Erano match…più veri, sulla distanza dei tre set su cinque; il doppio disputato alla seconda giornata aveva sì un peso importante, ma valeva un punto su 5 e non 1 su 3, e quindi il 20 per cento e non il 33; salvo che nel caso di un 3 a 0 dopo due giornate, il compito di decidere il team vittorioso toccava al quarto o al quinto singolare. Anche l’incrocio fra il n.2 di una squadra contro il numero 1 dell’altro era notevole motivo di interesse perché aiutava a capire un po’ meglio la profondità tecnica di un team.
Quel mio spirito nostalgico d’antan non mi impediva però di riconoscere che purtroppo quasi tutti i top-players (meno patrioti di Nole Djokovic) e soprattutto i loro agenti che con la Davis non si mettono in tasca soldi diversamente che con i tornei e le esibizioni, l’idea di sacrificare due o tre settimane a prezzi scontati (quella prima e quella dopo più il weekend di gara) dimostravano di non essere più interessati a quella Coppa Davis che a me invece piaceva ed emozionava. Soprattutto i top players avevano preso l’abitudine di snobbarla quando si erano tolti la soddisfazione di vincerla una prima volta.
C’erano, oggettivamente, anche i problemi conseguenti a un calendario imprevedibile, impossibile da preparare e gestire tempestivamente nei tre/quattro appuntamenti annuali della competizione, quando un giocatore professionista aveva l’esigenza di programmare per tempo la propria attività, i tornei cui iscriversi (o anche dove chiedere ingaggi…extra montepremi), per via di repentini cambi di superficie – dal cemento alla terra rossa e per ritornare al cemento o viceversa – trasvolate oceaniche, fusi orari da assorbire anda e rianda. Con quel che segue.
Il presidente dell’ITF, l’americano David Haggerty ebbe l’incoscienza e anche il coraggio di mettere a rischio la propria candidatura progettando la rivoluzione e il passaggio dal format tradizionale a quello attuale.
Si assicurò la vittoria del progetto e della propria candidatura elettorale garantendo soldi, tanti soldi, alle nazioni più…povere per le quali la Coppa Davis, con le trasferte da effettuare, le partite, le squadre da ospitare, tribune magari da costruire, pochi biglietti vendibili, non desideravano altro che riscuotere i tanti soldi promessi (e alle fine non so quanto mantenuti fin qui) dal gruppo di Piquè.
Quella prima Coppa Davis fu vinta dalla Spagna di Rafa Nadal e Bautista Agut sul Canada, con Nadal e Shapovalov che giocarono sotto i miei occhi una partita così bella e spettacolare che non riesco a capire oggi come sia possibile che Shapovalov si sia ridotto così.
Però le sedi coperte della Caja Magica erano solo tre, motivo per cui con 4 gironi la programmazione dovette tenerne conto e furono sbagliati i calcoli dei tempi d’inizio: una partita finì dopo le 4 del mattino. Era quella dei nostri Fognini e Bolelli che persero da Querrey e Sock alle 4,18: 6-4 al terzo, dopo due tiebreak. Anche i singolari erano arrivati al terzo set e ricordo che c’erano stati anche diversi tiebreak. Quel pomeriggio del 20 novembre 2019 diventò il mattino del 21 novembre all’alba. Noi giornalisti aspettammo massaggi e conferenze stampa, buttammo giù qualche riga e vedemmo spuntare il sole. Ma non fu la sola partita by night: diverse altre partite finirono ben oltre la mezzanotte.
Haggerty ricevette anche voti di scambio -vero FITP? – dietro la promessa (non mantenuta a lungo) di concedere i diritti TV se avesse vinto lui e quei Paesi che volevano la Davis formato mini.
Quella prima edizione ricevette tante di quelle critiche che l’anno dopo a Madrid si trovò il modo di giocare anche su un altro campo coperto e di finire un po’ più presto, ma mica tanto. I tennisti si lamentavano ma nessuno dava loro retta, gli spettatori avevano il vantaggio di potersene andare a letto quando non ne potevano più. Loro, i tennisti, no.
Ma non contavano e avrebbero contato di più soltanto se Djokovic e Pospisil con la loro PTPA fossero stati capaci di dar vita a un “sindacato” interamente autonomo. In tal caso non avrebbero mai permesso che gli organizzatori del tornei – che rappresentano metà ATP (e la cosa a Djokovic non va giù) – prendessero in qualche modo spunto da quella Davis per trasformare le loro ben ricompensate sessioni notturne in competizioni che finivano quasi all’alba.
PAGINA 1: come siamo arrivati dove siamo ora
PAGINA 2: da Vilas a Sinner, i match lunghi non sono mai mancati
PAGINA 3: il potere delle televisioni e degli organizzatori