Il numero 7 a Roma si carica sempre di molteplici significati. Sette come i colli romani. Sette sono stati i leggendari re di Roma. E durante la settimana degli Internazionali d’Italia, nella Capitale riecheggia ancora questa cifra.
Sette finali per sette tornei disputati. È la striscia aperta che ha messo a segno Jannik Sinner da agosto 2024. Numeri che forse non ci impressionano più se riferiti al numero 1 del mondo, ma che ci ricordano, se mai ce ne fosse bisogno, perché Jannik si sia messo tutti gli avversari alle spalle da un anno a questa parte. Impossibile tacciare questi dati come semplice “continuità di risultati” quando si parla di sette finali in serie. Anche perché per Jannik sono arrivati cinque trionfi su sei con zero set lasciati per strada, in attesa di sapere cosa succederà domani contro Carlos Alcaraz. L’unica finale persa in questa sfilza di vittorie è quella di Pechino, quando l’altoatesino ha ceduto in tre set proprio a Carlitos.
Tutto è iniziato al 1000 di Cincinnati, dopo un’estate rocambolesca, contro Frances Tiafoe ed è proseguito sempre con uno statunitense dall’altra parte della rete, Taylor Fritz, a New York per gli US Open. Poi, l’ATP 500 di Pechino, appunto. E in seguito tre nuovi successi, prestigiosissimi: il 1000 di Shanghai, le ATP Finals di Torino e gli Australian Open 2025. Da Cincinnati a Roma, dal cemento nordamericano alla terra di casa, niente pare essere cambiato, eppure è tutto così diverso. Siamo forse dinnanzi a una situazione gattopardesca?
Erano nove anni che un giocatore non faceva segnare questi numeri. L’ultimo a riuscirci è stato Andy Murray in quel 2016 che lo ha consacrato tra gli eterni della racchetta. Per il tennista scozzese in sette finali consecutive sono arrivate quattro vittorie e tre sconfitte, su tre superfici diverse. E ben tre di quei successi sono stati di fila, quando tra il Queen’s e le Olimpiadi di Rio Sir Andy sembrava inarrestabile. In mezzo il suo secondo Wimbledon, in quella che è stata l’ultima impresa in uno Slam, prima che il fisico ne fermasse la corsa. Terra, erba, cemento. Non esiste terreno di gioco su cui Murray non abbia saputo farsi valere. E non a caso quella stagione si coronò con il raggiungimento della prima posizione del ranking, davanti a Djokovic, Nadal e Federer. Roger e Rafa sono stati assenti agli alti livelli in quell’annata, come testimonia il fatto che Andy non se li sia ritrovati contrapposti in nessuna finale.
Jannik Sinner ha già uguagliato in termini di finali il britannico, seppur con più trofei portati a casa, e contro Alcaraz ha la possibilità di ampliare la striscia di trionfi consecutivi, che per Andy si è fermata a tre. Per amor di precisione, è bene segnalare come le finali ottenute da Murray siano state centrate senza soluzione di continuità. Per Jannik, invece, non è stato possibile per le note vicende legate alla WADA e al clostebol, indipendenti dalla volontà dello stesso Sinner. Ci sarebbe da chiedersi se tornare dopo uno stop di tre mesi e spingersi alla prima competizione fino all’atto finale non sia un’ulteriore prova di forza.
Oltre al numero sette, c’è un altro trait d’union tra Jannik Sinner e Andy Murray che risponde al nome di Novak Djokovic. Il tennista serbo si è visto opposto a entrambi durante il loro periodo trionfale, con fortune del tutto opposte. Se con lo scozzese l’ex numero 1 al mondo nel 2016 ha raccolto due vittorie e una sconfitta, tutte su terra rossa, contro Jannik nell’unico incrocio in finale degli ultimi mesi si è arreso in tre set a Shanghai. Quando in Cina è andata in scena quella partita Andy Murray non si era ancora seduto sulla panchina di Djokovic, quel colpo di scena clamoroso avrebbe sorpreso tutti qualche settimana dopo. Tutto si intreccia. Giocatori diventati leggenda, poi divenuti allenatori di altre leggende. Insomma, così funziona il Panta rei tennistico.
Beatrice Becattini
