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23/10/2011 14:46 CEST - AMARCORD

Dinamite Carretero
"One Hit Wonder"

TENNIS – La storia del più clamoroso one hit wonder nella storia del tennis. Roberto Carretero doveva essere un campione, ma ha mantenuto le promesse per una sola settimana, quando vinse clamorosamente il Masters 1000 di Amburgo. Ma dopo allora raccolse solo sconfitte e tie-break perduti. Il suo viaggio nel grande tennis finì a Bologna. Ma non si è lasciato andare: oggi fa il telecronista e ha aperto un’accademia con Moya. Riccardo Bisti

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Un pesante servizio liftato da sinistra. Un terrificante dritto lungolinea, che costringe Corretja a un affannoso recupero, alto e corto. E infine lo smash liberatorio, a botta sicura. E’ l’ultimo punto del “Super 9” di Amburgo 1996, uno dei tornei più clamorosi dell’Era Open. A vincerlo fu lo sconosciuto spagnolo Roberto Carretero, numero 143 ATP e fanalino di coda dell’Armada Espanola che aveva già invaso il circuito. Già, Roberto Carretero. Nell’industria discografica, viene definito “One Hit Wonder” quell’artista ricordato per un solo singolo di successo. Il buon Roberto è il più clamoroso one hit wonder nella storia del tennis. Non è stato una meteora, no. E’ stato un lampo. Un lampo fulmineo. Ha fatto danni per un torneo, poi non ha più lasciato traccia. Ricordarlo è un affascinante viaggio negli anni 90, gli ultimi in cui il nostro sport aveva ancora una dimensione umana e non era stato travolto dall’era digitale. E c’è anche tanto da scrivere, in un mix tra storie ormai sepolte e ricordi personali.

L’incontro con Re Juan Carlos
Carretero è nato nella città sbagliata. Il cuore del tennis spagnolo è Barcellona, mentre lui è madrileno doc. Nel 1983, guardando giocare il padre, si è appassionato al tennis. Aveva 8 anni. Capì ben presto che Madrid non era il posto ideale, e a 14 anni lo portarono a Barcellona: “Dove ci sono le condizioni migliori: clima, strutture, avversari…”. Roberto è un ragazzo simpatico, esuberante. Ma soprattutto talentuoso. Il boom arriva nel 1993. Vince il Roland Garros junior, battendo in finale Albert Costa (che all’epoca si faceva chiamare ancora Alberto). Dopo la vittoria ebbe addirittura l’onore di un incontro con il Re Juan Carlos. Il capello lungo e l’aria vagamente trasandata sembravano esplodere dentro l’abito indossato per l’occasione, comprensivo di cravatta. E già si intravedevano due cosce enormi, impressionanti, le più grosse mai viste su un tennista professionista. Da far invidia a Jaroslav Drobny e Guillermo Vilas. L’ambiente era informale: il Re di Spagna, più giovanile e sportivo degli ingessati capi di stato italiani, gli concesse un sincero abbraccio. A Madrid sentivano di aver trovato un campione da contrapporre alla ricchissima (di talenti) Barcellona. Una sera del 1993, venne premiato addirittura allo Stadio Santiago Bernabeu prima di un derby (anzi, derbi) tra Real e Atletico. 100.000 persone, merengues e colchoneros, ai suoi piedi. La mattina dopo partì per Miami, dove avrebbe giocato l’Orange Bowl. Giunse in finale, sempre contro Costa. Stavolta perse, ma poco importava.

La prima apparizione romana
Ma il passaggio al professionismo, si sa, non è difficile solo per gli italiani. I suoi connazionali volavano: i catalani Bruguera, Costa, Corretja, il maiorchino Moya, addirittura il basco Berasategui. Lui no, niente da fare. Arrancava nei challenger e nelle qualificazioni. Chi scrive lo vide la prima volta a Roma, agli Internazionali del 1995. Aveva passato le qualificazioni, e al primo turno pescò la wild card Gianluca Pozzi. Allora, nel parco del Foro Italico non c’erano 6 campi come oggi, ma solo cinque. Era l’anno del centrale provvisorio (l’anno dopo sarebbe stato costruito quello “temporaneo”, in legno lamellare). Il campo Pietrangeli era stato rinominato “Campo della Pallacorda” (qualche nostalgico lo chiama ancora così) e in fondo al parco, accanto allo Stadio Olimpico, c’era solo un campo e non i due allineati di oggi. Era il terzo per importanza, capienza e gerarchia. Contro Pozzi – abituato alle superfici rapide – ebbe vita piuttosto facile. Vinse 6-3 6-3, ma colpì i presenti per il suo fisico e il suo tennis particolare. Basso e tozzo (l’ATP diceva 178 cm per 83 kg, ma probabilmente già allora erano di più), tirava un servizio liftatissimo, in cui piegava le gambe fin quasi a toccare terra con il sedere. Il dritto era potentissimo, e il rovescio a una mano denotava un buonissimo tocco. Pensai: “Strano che un tizio del genere sia appena numero 175 ATP”. Lo presi in simpatia. Al turno dopo pescò Corrado Borroni, reduce dall’incredibile vittoria su Kafelnikov. Con un clamoroso errore, gli organizzatori collocarono il match sul campo 2, appena 500 posti sotto i pini del Foro. La gente lo prese d’assalto, si arrampicarono persino sugli alberi pur di vedere qualche scambio. Qualcuno rischiò di farsi male. C’era un tifo da stadio, un inferno per il povero Roberto. Che lottò furiosamente su ogni palla, ma in quei giorni Borroni giocava su una nuvola. E vinse in due tie-break, mettendo a nudo il più grande punto debole di Carretero. Non era l’altezza, non era il peso, e nemmeno qualche problema tecnico: era la tenuta mentale. Il resto della stagione fu appena sufficiente. La finale al challenger di Kosice gli permise di avvicinare i top 100, ma nulla di più.

Il miracolo di Amburgo
Anche l’inizio del 1996 non fu entusiasmante. A Salinas perse addirittura con il (modesto) doppista Francisco Montana. Un importante segnale arrivò a Barcellona. Lo omaggiarono di una wild card, che lui onorò battendo Javier Sanchez e Jiri Novak prima di fare una buona figura contro Jim Courier in un match trasmesso da Eurosport. “Bene, dai, forse sta cambiando qualcosa”. Si presentò al “Super 9”di Amburgo da numero 143 ATP, umile iscritto alle qualificazioni. Dormiva nell’hotel ufficiale e non nella pensione degli sfigati solo perché i suoi colleghi più forti avevano il buon cuore di ospitarlo. Battè al primo turno il compianto Horst Skoff, poi il peruviano Americo Tupi Venero (un mancino con la faccia da Incas che Jaime Yzaga si portava dietro negli ultimi anni di carriera) e infine l’austriaco Herbert Wiltschnig. Entrò in tabellone. C’era da essere contenti, ma il bello doveva ancora venire. Si scatenò l’inferno: via Jordi “medalla” Arrese, via Malivai Washington (che due mesi dopo avrebbe fatto finale a Wimbledon), via Arnaud Boetsch (che quell’anno avrebbe regalato la Davis alla Francia), via Gilbert Schaller (terzo austriaco fatto fuori!) e clamorosa semifinale contro Yevgeny Kafelnikov. Il russo era in forma smagliante, valeva molto di più del numero 7 ATP, tanto che un mese dopo avrebbe vinto il Roland Garros. Ma stavolta sulla nuvola c’era Carretero. Vinse 7-5 6-2, mettendo in mostra un dritto spaventoso, in cui scaricava 90 chili di rabbia. “Mai visto uno così, con una palla così pesante. Mi piegava le braccia” disse Kafelnikov. In finale, sulla distanza dei tre set su cinque, c’era l’amico Alex Corretja. Dopo un primo set di assestamento, riprese la sua opera di demolizione e finì col vincere 2-6 6-4 6-4 6-4. Il mondo del tennis si innamorò di lui. Baricentro basso alla Gerd Muller, cosce enormi, coda di cavallo, occhi spiritati e una simpatia travolgente. Durante i match parlava con se stesso, lanciava sguardi accorati a coach Ricardo Sanchez, improvvisava balletti dopo ogni punto…arrivò persino a fare un pugnetto davanti alla telecamera, sospirando “Come on!”. Roba da far invidia al “Te amo, Irina” di Gabriel Batistuta. Dopo lo smash vincente diede di matto, corse ad abbracciare il coach, si muoveva come un indemoniato. L’unico capace di calmarlo fu Corretja, che lo abbracciò a lungo e si sedette con lui nel suo angolo. Carretero stava prendendo le borse per uscire dal campo, ma Corretja gli disse: “Dove vai, guarda che c’è la premiazione…”

La lite con Philippoussis e l’inizio della fine
In colpo solo divenne numero 58 ATP. Era la nuova stella del tennis spagnolo. Interviste, punti, soldi, gloria…e donne. “Ma scherzo! Non mi monto la testa…poi ho già la mia Rachele”. La settimana dopo c’erano gli Internazionali d’Italia. Stavolta entrò dalla porta principale grazie a uno “special exempt”. Sembrava l’inizio di una nuova carriera. Ma era l’inizio della fine. Dopo l'allenamento mattutino firmo autografi a chiunque, era raggiante. Al primo turno pescò il bello e famoso Mark Philippoussis. Il match fu programmato sul campo 5, lo stesso dove l’anno prima giocò con Pozzi. Nel 1995 era semivuoto, stavolta era stracolmo. C’era una folla oceanica, stipata anche sulle tribune dei campi attigui. Non ci si riusciva nemmeno ad avvicinare al campo. Ben presto divenne una corrida. Philippoussis mal sopportava la guasconeria di Roberto e la mise in rissa. Gli tirò addosso un paio di pallate, deliberatamente, e i due vennero quasi alle mani. A un cambio di campo, Carretero gli disse: “Chiedimi almeno scusa!”. Il gigante rispose: “No, non ti chiedo scusa, ti ho colpito di proposito”. Era guerra psicologica, dopo ogni punto c’era un boato, ma il 75% del pubblico era schierato con Philippoussis. Mi sono sempre domandato perché. Non aveva senso. Ad ogni modo, vinse l’australiano con il punteggio di 6-3 4-6 7-6. Da allora, Carretero fu incapace di vincere una sola partita nel circuito maggiore, esattamente per un anno. Un dramma sportivo. Vinse due partite al challenger di Braunschweig e passò un turno allo Us Open (ma solo perché il suo avversario, Jordi Burillo, si ritirò all’inizio del quarto set). Per il resto solo sconfitte. C’è un dato che fa riflettere: da Amburgo 1996 ad Amburgo 1997 giocò 13 tie-break, perdendone 12. L’unico lo vinse contro Diego Nargiso a Palermo, in una partita comunque persa 6-4 6-7 7-6 (e 11-9 del tie-break finale). Il blocco era mentale, dannatamente psicologico.

Crollo tecnico e mentale
I punti del trionfo di Amburgo lo tennero a galla e gli permisero di restare tra i top 100, ma Amburgo era la resa dei conti. Si presentò al Rothenbaum Club, ma sembrava un’altra persona. Il sorriso era sparito, e con lui i capelli e il cappellino. Completamente rasato, vinse in 3 set contro il modesto Knippschild e perse 6-1 6-1 contro Mantilla. L’incantesimo era finito. La classifica del lunedì successivo lo vedeva al numero 335. Grazie ai regolamenti dell’ATP, che consentono di iscriversi a un torneo con 6 settimane di anticipo, potè giocare i grandi tornei ancora per qualche settimana. Venne a Roma, lo incrociai su Viale dei Gladiatori. Lo fermai e gli dissi: “Forza Roberto, non mollare, io credo ancora in te”. Si fermò, fu gentilissimo, mi fece quasi le feste. Pensava di essere stato dimenticato. O forse voleva essere dimenticato. Il sorteggio lo mise contro Tim Henman, gli organizzatori sul Campo 4. Giocò una buonissima partita, vinse il primo 6-4 e prese un break di vantaggio nel secondo. Arrivò a 5-4 e servizio, ebbe un paio di matchpoint ma non riuscì a chiudere, anche con un pizzico di sfortuna. L’inglese prese fiducia, vinse 7-5 e si portò avanti 2-0 nel terzo. “No mas”. Si ritirò. Non si era infortunato, niente. Semplicemente non ce la faceva più a stare in campo. Lo vidi ancora un mese dopo, a Bologna, nell’ultimo torneo che potè giocare con la classifica vecchia. Sfiduciato, sotto il sole cocente del Cierrebi Club, perse 6-3 6-4 contro Fernando Meligeni. Coach Ricardo Sanchez, commovente, era ancora al suo fianco. Lo incitava a mettere in campo la prima di servizio. Uscì dal campo con lo sguardo spento, rassegnato. Lasciò una bottiglietta semivuota sulla ringhiera del campo. L’avventura di Roberto Carretero nel tennis che conta finì lì. Stavolta il lieto fine non c’è stato.

Il ritiro e la nuova vita
Il resto è storia di sudore e fatica nei tornei minori. Ebbe un sussulto d’orgoglio nel 1999, quando vinse due tornei challenger, a Weiden (guarda caso, vincendo 3 tie-break su 3) e a Sopot. Aveva rischiato di uscire dai primi 500, e i pochi mesi rientrò tra i primi 200, ma ormai il treno era passato. L’ultimo sussulto arrivò nel 2000 al torneo ATP di Umago, dove raggiunse i quarti di finale. Oltre ad Amburgo 1996, fu l’unico ATP in carriera in cui passò due turni. Ma non c’era più voglia, volontà, passione. La parabola di Roberto appassì definitivamente nel novembre 2001, quando al Future di Gran Canaria perse contro Ivan Navarro. Se ne andò così, senza lasciare traccia, il più clamoroso “One Hit Wonder” nella storia del tennis. In realtà, il buon “Roberto Dinamite” (come titolò Matchball all’indomani della vittoria ad Amburgo) è rimasto nell’ambiente. Si è trasferito ad Andorra (un buon regime fiscale non lo disdegna nessuno…) aveva aperto un’accademia di Tennis e Paddle, e nel 2006 ha giocato – per puro divertimento – il torneo di doppio a Umago insieme all’amico Carlos Moya. Vinsero pure una partita. Per qualche anno ha organizzato un’esibizione dicembrina a cui partecipavano alcuni dei migliori giocatori spagnoli. Attualmente fa parte dell’equipe di telecronisti di Canal+ (la Sky spagnola), e pare sia piuttosto bravo. Di lui si è parlato appena un mese fa, poiché ha aperto insieme a Carlos Moya un’accademia a Madrid. Il progetto, inaugurato lo scorso 17 settembre, si chiama SD Tennis Academy ed è ospitato dal Santo Domingo Club Social, impianto situato nel nord di Madrid. Nel giorno della presentazione, Carretero ha detto: “La nostra idea è offrire un ampio ventaglio di opportunità, in modo da accontentare tennisti di tutti i livelli. Ci sarà un programma personalizzato per tutti: sia per i giovani che vogliono entrare nei circuiti ATP e WTA, sia per coloro che giocano per divertirsi e vogliono migliorare. La qualità del nostro team farà si che ogni tennista possa offrire il meglio di sé”. Il lampo di Amburgo è durato lo spazio di un respiro, ma Roberto ha trovato la forza di non lasciarsi andare. Cadere rovinosamente dopo aver assaggiato il paradiso può avere conseguenze terribili. Lui è ancora lì, con le cosce sempre più enormi, ma con il sorriso che conquista. Ed è quello che conta.

Il trionfo di Amburgo

La videostoria di Roberto

Roberto Carretero oggi, insieme a Carlos Moya

Riccardo Bisti

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