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15/11/2011 14:18 CEST - Storie di tennis

Quando il tennis rompe le barriere

TENNIS – Intervista esclusiva con Dunja Imran Al-Sous, prima tennista palestinese di tutti i tempi. Cresciuta a pochi metri dal checkpoint di Kalandia, scopre il tennis grazie alla sorella maggiore. Grande tifosa di Federer, è stata seguita da Ron Steele, veterano australiano e capitano israeliano di Davis nel 2009. Si è allenata un anno da Bruguera, a Barcellona, ora studia negli Usa, dove ha trovato una borsa di studio. Alessandro Mastroluca

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Ho sognato una strada”, cantava Ivano Fossati, “E che di là da un muro alto corre l'orizzonte. Mi ci vorrebbe una scala, Mi ci vorrebbe una luce, Mi ci vorrebbe il coraggio".

Dunja Imran Al Sous il muro alto non l’ha sognato. La barriera alta sei metri del checkpoint di Kalandia, a Ramallah, lo vedeva tutti i giorni dalla finestra di casa. La scala l’ha trovata in una famiglia che l’ha spinta a praticare sport, nella sorella maggiore che ha aperto molte porte e che ha segnato la strada anche per lei. La luce l’ha trovata nel tennis. Il coraggio è una conseguenza di vivere dove la normalità è speciale e ti abitui all’eccezionalità. Dunja è la prima tennista palestinese di tutti i tempi. Al momento gioca nel circuito universitario Usa, ha una borsa di studio al Michigan Tech dove studia Business Management, e Ubitennis l’ha intervistata in esclusiva.

Se vuoi qualcosa, vai e inseguila
 «Quando hanno costruito il muro di Kalandia» mi spiega Dunja, «non ci potevo credere, anche se lo vedevo a pochi metri di distanza tutti i giorni. Ma ero ancor più scioccata dalla mentalità che aveva portato alla sua costruzione: volevano tenerci chiusi in un’area ristretta, mi sentivo umiliata. Sono cresciuta conoscendo solo il conflitto, per questo la serie di checkpoint non mi infastidivano più di tanto finché non sono andata all’estero e ho capito che da nessun’altra parte gli studenti devono stare in fila mezz’ora per mostrare i documenti a soldati armati di tutto punto».

Cresce in una famiglia che incoraggia la pratica sportiva. «Mio padre era appassionato di atletica e nuoto, mia madre guardava molto sci e molto tennis. Per questo da piccola ho iniziato a sognare di diventare una sportiva. Ma ho detto subito a mia madre che non avrei mai voluto giocare a tennis». Le ultime parole famose, verrebbe da dire. «Era mia sorella maggiore che voleva iniziare a giocare a tennis. Per questo un giorno siamo andati, con lei e mia madre, in un club vicino a una piscina. Lì, quel pomeriggio, continuava a dirmi quanto era stata straordinaria la prima lezione, quanto si era divertita. Ricordo di essermi sentita un po’ gelosa e la stessa sera ho detto a mia madre che anch’io volevo giocare a tennis. Il giorno dopo siamo tornate nello stesso club e, non c’è bisogno di dirlo, mi sono innamorata di questo sport». Fino a 12 anni, Dunja unisce tennis e danza classica, prima di accantonare definitivamente la sbarra e le ballerine.

Ma il tennis non è molto popolare in Palestina. Solo nel 1994 si è giocato il primo torneo nell’area, grazie all’iniziativa di Issa Rishmawi e Samar Araj Mousa, capo del dipartimento sportivo dell’Università di Betlemme, la più antica della Cisgiordania. Nel 1996 nasce l’Associazione Tennis Palestinese (PTA), che chiede ad ogni città la possibilità di acquistare un pezzo di terra per costruire campi da tennis, ma il progetto non riesce. Due anni dopo la PTA, presieduta ancora oggi da Rishmawi, diventa membro dell’ITF e della Federazione tennis asiatica.

«Quando ero piccola» prosegue Dunja, «non c’erano campi in Palestina, non c’erano maestri né altri tennisti con cui giocare. Per questo andavo all’Israeli Tennis Center di Gerusalemme che era a 20 minuti da casa mia ma, a causa del conflitto, per arrivarci dovevamo guidare per due ore». Lì viene seguita da Ron Steele, australiano che nel 1970 è diventato il primo coach a stabilirsi in Israele e nel 2009 ha guidato la nazionale alla storica semifinale di Davis contro la Spagna.

Tu chiamala, se vuoi, serendipità
La fortuna è difficile da studiare” scrive Rebecca Webber in un articolo su Psychology Today del maggio 2010. “Siamo come palline in un biliardo più che capitani al timone”. È un caso, quello che Nassim Nicholas Taleb definisce nel suo bestseller un Cigno nero positivo, un biglietto vincente di una non-lotteria, a dare la prima svolta alla vita e alla carriera di Dunja. Quando ha 11 anni, Ron Steele incontra Freddie Krivine, che si occupava di avvicinare giovani arabi al tennis. Darà poi vita alla Freddie Krivine Foundation, Co-existence and Equal Opportunity for Jewish and Arab Children in Tennis, associazione no-profit che porta avanti brevi programmi coesistenza scolastica tra arabi e ebrei e ha creato impianti per il tennis in dieci comunità per aiutare giovani di provenienza araba con uno staff misto di coach israeliani e palestinesi. Krivine è morto nel 2005, a 84 anni, e ora l’associazione è gestita da sua figlia Jane. Ma nel 2003 Krivine accetta di pagare il costo dei taxi per aiutare la famiglia di Dunja, che già mostrava di essere molto promettente. A questo periodo risale il suo più bel ricordo tennistico. «Siamo andati in Croazia, con qualche altro giocatore dell’Israeli Tennis Center, e ci siamo allenati parecchie ore al giorno. Ho passato dei momenti straordinari, unendo il viaggio in un posto molto bello e il tennis. È stata anche una delle prime opportunità di passare più tempo con i miei compagni fuori dal campo».

Nel 2006 Steele ha aperto una sua accademia a Herzliya e mamma Ursula, svizzera di origine, accompagnava Dunja una volta a settimana sulla costa. Il coach continuava a seguirla gratis e occasionalmente si faceva aiutare dal figlio Saar che frequenta il circuito ITF (è numero 1102 dell’ultimo ranking ATP). Nel 2008 Ursula riesce a ottenere dall’autorità palestinese un visto per andare per un anno alla Bruguera Academy di Barcellona. La Krivine Foundation paga le spese per l’assicurazione sanitaria.

«Avevo sempre desiderato frequentare un’accademia dove il tennis fosse una priorità» mi dice. «Ho imparato più sul tennis in un anno a Barcellona che in tutti gli anni precedenti. Ho incontrato persone di culture diverse, che parlavano lingue diverse. La barriera della lingua non è stata semplice da superare, a volte, ma è stato un anno stupendo».

Dopo l’esperienza catalana, Dunja resta in Europa, in Svizzera con sua madre, e studia Business Management. Insieme continua a prendere lezioni di tennis una volta alla settimana. È triste, però, perché il tennis ha smesso di essere una priorità: il suo coach le suggerisce di provare ad andare a studiare in America. Con l’aiuto della fondazione, che paga le tasse per il primo semestre, Dunja riesce a entrare in un piccolo junior college a Fresno, in California.

«Volevo allargare le mie esperienze» racconta, «come aveva già fatto mia sorella, che studia negli Stati Uniti ormai da cinque anni. È stata lei a suggerirmi di chiedere l’iscrizione a qualche scuola che avesse una squadra di tennis femminile». A Fresno vince 24 partite sulle 25 giocate e il Michigan Tech le offre una borsa di studio per un anno.

«Mi sento molto più sicura quando studio all’estero» racconta, «sono sempre preoccupata per la mia famiglia. Per questo ogni volta che posso, torno a casa per passare un po’ di tempo con loro. Mi piace nuotare, andare al mare. Adoro la musica e il cinema, mi è rimasta la passione per i viaggi, per vedere nuovi Paesi e incontrare persone nuove. Mia madre è una chef e mi ha trasmesso l’amore per la cucina».

Suo padre rimane una figura chiave. Un po’ come il Chris Gardner ritratto da Gabriele Muccino nel Ritratto della Felicità, «mi ha insegnato a non arrendermi di fronte a nessuna sfida, a nessuna difficoltà, a ricordarmi che avrò sempre una famiglia che mi ama, qualunque cosa accada. Ma soprattutto mi ha incoraggiato a trovare l’equilibrio giusto tra il tennis, lo studio, la famiglia, la salute e tutti gli aspetti della vita che per me contano».

Un padre che l’ha resa la ragazza ambiziosa e testarda che Dunja vede ogni mattina nello specchio. La ragazza che non si arrende nonostante lunghe notti e giorni solitari, nonostante le carte le abbiano assegnato una mano difficile da giocare. La ragazza che salirà su quella scala da dove vedere l’orizzonte quando l’alba sorgerà e un nuovo giorno inizierà. Una ragazza che ha sognato una strada, che sta lavorando sul suo sogno. E un giorno lo renderà reale.
 

Alessandro Mastroluca

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