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03/02/2012 19:18 CEST - Storie di tennis

Nel labirinto della mente

TENNIS - Nel settimo game del quinto set, Rafa Nadal ha iniziato a perdere la finale degli Australian Open. Non è certo la prima volta che un punto mancato cambia il destino di una partita, e a volte di una carriera. Dai match point persi da Coria al Roland Garros contro Gaudio alla volée di Roddick a Wimbledon 2009. Quando la mente diventa artefice del destino. Salvatore Bombello

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Il terribile settimo game. Quello in cui notoriamente si nascondono i più impensabili punti di svolta di questo sport; in cui si può prendere la via della fuga, ovvero riagguantare il proprio avversario.  E’ stato nel quarto punto del settimo game del set decisivo, che si è realizzato il turning point della finale degli ultimi Australian Open, con Nadal, avanti 4-2 e con un break di vantaggio sul suo tremendo rivale Djokovic, e 30-15 sul suo servizio: un rovescio lungolinea a campo aperto, con Djokovic ormai consegnato a rete, che lo spagnolo fallisce incredibilmente, che lo costringe al 30-pari, anziché salire sul 40-15, e che mentalmente lo catapulta fuori dal match.

Fino alla fatale rimonta e al trionfo di Re Novak. Ancora una volta.  Ci si chiede quale impatto abbia avuto quel punto, e quali strascichi abbia lasciato sul povero Rafa.

C’è chi lo chiama lo “sport del diavolo”, qualifica meritoriamente guadagnata dal Tennis per la necessità di dover comprimere in un solo momento cruciale, un insieme di sensazioni discordanti, quali pathos, adrenalina, stanchezza, timore di fallire, ricordi contrastanti e per complicare ancora il quadro anche quell’istinto di voler reprimere quell’eccessiva sicurezza di sé che a volte ti sorprende ad un passo dalla vittoria.

A questo punto, con ancora la pallina tra le mani del giocatore che serve, e con un punto, quel punto, ancora da giocare è facile perdersi in quel labirinto mentale.

Come in ogni altro contesto, c’è chi ha smarrito la via e non ne è più venuto a capo, e chi trova il modo di uscirne fuori, anche se comunque attraversare quei dintorni non è mai semplice e qualcosa dentro ti lascia.

Provare per credere, o chiedere per provare a capire, a Guillermo Coria, di professione “tennista di vertice” nella prima metà del decennio scorso.

Quando affrontò Gaudio nel 2004, in quella finale del Roland Garros tutta argentina, Coria era all’apice della carriera, al n°3 del ranking mondiale. E nel corso di quell’incontro era avanti per due set a zero, sebbene poi raggiunto dall’avversario e costretto al quinto set.  Nel set decisivo ecco materializzarsi quel momento.

Per ben due volte, Coria si trovò ad un solo passo dal trionfo: due match point sul proprio servizio, ma entrambi falliti, la delusione, e poi una lunga parabola discendente. Dapprima con quattro finali perse su cinque a cavallo tra quell’anno e il successivo, poi, in continuo declino fino al prematuro ritiro nel 2008, a ventisei anni.

E’ da notare che in tre di quelle quattro finali successive fu battuto da Nadal (ricordiamo la finale-fiume del 2005 al Foro Italico). E non è improprio il parallelismo tra le occasioni della vita (tennistica) mancate e l’avversario che si ha dall’altra parte della rete.

Si noterà che il più delle volte, le chances fallite aumentano esponenzialmente se in carriera si è sempre sofferto l’avversario di turno. Non un teorema matematicamente certo, ma statisticamente molto spesso confermato. E quindi la citazione alleniana sulla fortuna, per quanto poetica, calza anche piuttosto stretta, se paragonata alle memorie negative che possono assalirti in quei momenti.

Il noto adagio molto spesso ricordato dai più grandi esperti, sulla rivalità tra Federer e Nadal, che forse avrebbe potuto prendere una piega diversa se Federer avesse realizzato quei due match point nella memorabile sfida del 2006 a Roma, pur plausibile e molto suggestivo, forse dimentica che quel Nadal ancora diciannovenne aveva già battuto quattro volte su cinque (e a Miami nel 2005, unica eccezione, era comunque stato avanti di due set e un break), e non solo sulla terra, un Federer a quei tempi formato monstre. La storia della loro rivalità ha seguito il corso che conosciamo, ma dopotutto forse non per puro caso.

Roddick, nel 2009, arrivava in finale dopo un torneo sontuoso, con un servizio letale, andando ad affrontare per la quarta volta a Wimbledon Roger Federer, nella terza riedizione della loro sfida in finale. Il record dei loro incontri diretti recitava prima di quel match, addirittura 17-2 in favore dello svizzero.

Lo statunitense va avanti un set a zero, e poi addirittura 6-2 nel tie-break del secondo set: dopo tre set point falliti, ha la ghiotta chance di aggiudicarsi anche il secondo set, venendo a chiudere a rete il suo classico schema servizio-dritto, con una volée alta di rovescio comoda. Ma la volée atterra in corridoio.

Forse non è un caso, se al cambio di campo, sul punteggio di 6-6, Roddick non mette la prima di servizio, poi smarrisce la pallina, si distrae mentre cerca la concentrazione per servire la seconda, e poi dopo uno scambio di tre colpi per parti, venendo a rete, finisce per sbagliare un’altra volée, stavolta bassa, ma sicuramente non impossibile. La sua chance di conquistare il suo primo Wimbledon svanirà, e quel pomeriggio londinese incoronerà Roger Federer come primatista nei tornei dello Slam. Il Roddick attuale, dopo due anni e mezzo, è fuori dalla Top ten, e attualmente due dei suoi connazionali lo hanno scalzato dalla posizione di numero uno tra i giocatori americani.

Molto probabilmente, nessuno dei giocatori degli episodi ricordati, in quel momento fondamentale stava pensando ai brutti ricordi accumulati nei match precedenti. Non è sicuro che le loro carriere potessero prendere un corso diverso, più vincente e costellato di successi. Forse la loro carriera sarebbe rimasta identica, senza discostarsi dalla realtà attuale, e senza venire inficiata dal pensiero di come quei punti avrebbero potuto cambiarla.

Ma chissà come, quei pensieri rimangono, annidandosi in quel labirinto, ed è in questa speciale prova, che il vero campione deve fare la differenza: perché il vero campione ha scarsa memoria.

Tornando a Nadal: ovviamente il maiorchino ha acquisito una forza mentale che non lo porterà mai e poi mai a perdersi nelle elucubrazioni di Coria, e dalla sua ha ancora un’età (e un talento) che gli consentirà di ottenere ancora successi; dopotutto il suo è un unico grande problema.

Affinché i contorni della sua rivalità con Djokovic non assumano lo stesso dramma che lui stesso aveva imposto a Federer è necessario oltre ad un passo avanti nel profilo del gioco, anche uno scatto mentale, che può prendere la forma di un semplice processo di rimozione.

A chi gli chiedeva di quel famigerato punto ha detto:
La sua risposta al servizio è incredibile, una migliori della storia, non ho mai giocato contro un giocatore in grado di rispondere così.  E’ vero, ho commesso un grave errore sul 30-15, ma è solo un momento all’interno di un match di sei ore. Bisogna dimenticare e pensare che comunque ho avuto delle possibilità molto concrete di battere un giocatore da cui avevo perso per ben sei volte lo scorso anno”.

Anche la sua, di risposta, non è stata affatto male, avendo già posto le basi di un duplice piano di lavoro per disinnescare quella terribile arma da fuoco che oggi appare Djokovic: un miglioramento al servizio, che nel 2010 era stata la sua arma in più nella sfida contro Nole, e che gli consentiva di batterlo in maniera perentoria a New York, e soprattutto dimenticare questi momenti. Prima studiarli, comprenderli, successivamente sfruttarli, e poi rimuoverli.

Per non finire nel labirinto.

Salvatore Bombello

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