Bracciali e Starace indissolubilmente legati da insolito (...tragico?) destino

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Bracciali e Starace indissolubilmente legati da insolito (…tragico?) destino

Proprio il giorno in cui viene fissata la data dell’udienza preliminare – il 18 maggio – della causa penale contro Bracciali e Starace, vediamo le contraddizioni del processo sportivo. Bracciali e Starace, dopo il pronunciamento del Collegio di Garanzia dello Sport, rischiano qualcosa in più

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Il caso Bracciali/Starace merita nuova attenzione dopo il deposito – la scorsa settimana – delle motivazioni della decisione con cui il Collegio di Garanzia dello Sport ( in pratica la Cassazione dei procedimenti disciplinari sportivi ) ha annullato la “sentenza” della Corte Federale d’Appello che aveva assolto Potito Starace e condannato Daniele Bracciali alla inibizione dall’attività per soli 12 mesi. Inibizione che, naturalmente per pura coincidenza (ci mancherebbe!), scadeva proprio lo scorso 10 febbraio, e cioè lo stesso giorno in cui il Collegio ha depositato la decisione in commento. Serve ricordare che la Corte d’Appello aveva riformato una durissima decisione del Tribunale federale di doppia radiazione accompagnata da multe salate. Sarà quindi un’altra Corte d’Appello, a questo punto, a dover riesaminare il caso anche alla luce dei principi di diritto indicati dal Collegio di Garanzia nella propria decisione di annullamento e rinvio.

Uno di questi riguarda l’adozione di criteri meno rigorosi in tema di valutazione delle prove dell’eventuale illecito, creando così margini maggiori di condanna rispetto a quelli consentiti in sede di giustizia ordinaria, sia civile che penale. A dire della Corte, infatti, a fronte di seri indizi si deve ritenere sussistente la responsabilità degli incolpati in ordine agli illeciti loro contestati anche in presenza di ragionevoli dubbi. Ragionamento, questo, che si pone fuori da ogni principio di diritto ordinario in tema di garanzia dei diritti delle persone e anche fuori dai tanto sbandierati (anche in ambito di giustizia sportiva) confini del cosiddetto “giusto processo”.
Va però detto in proposito che (purtroppo) esistono precedenti giurisprudenziali, nell’ambito della giustizia sportiva, in linea con il principio affermato dal Collegio. Principio che la annullata sentenza della Corte d’Appello federale aveva appunto cercato legittimamente di contrastare, nel tentativo di traghettare anche la giustizia sportiva (finalmente) nel comune alveo del concetto uno, indiscutibile e indivisibile di Giustizia tout court e con la G maiuscola. Troppo spesso, infatti, si tende a maltrattare il processo sportivo quasi non fosse meritevole di essere gestito con dignità pari a quella riservata ai procedimenti della giustizia ordinaria, dimenticando che anche in ambito sportivo vi è spesso in gioco la vita – quantomeno lavorativa – delle persone. Come è nel caso Starace/Bracciali .

Fatto sta che quanto scrive il Collegio in ordine ai criteri di valutazione della prova da adottare nel caso in questione sembra suonare come campana a morto per i due davisman in vista del nuovo processo. In realtà potrebbe anche non essere così, visto che lo stesso Collegio si premura di porre un altro principio di diritto, con la propria decisione, cui altrettanto i futuri giudici dovranno uniformarsi. Scrive infatti testualmente: “…… Resta fermo che l’illecito, come ogni altra azione umana contemplata da un precetto, per avere valenza sul piano regolamentare ed essere produttivo di effetti disciplinari, deve aver superato sia la fase dell’ideazione che quella così detta preparatoria e essersi tradotto in qualcosa di apprezzabile, concreto ed efficiente per il conseguimento del fine auspicato”.  Un simile principio può aprire le porte a una nuova assoluzione considerato che, se la memoria non mi inganna, dell’ipotetico e illecito “fine auspicato” dai due incolpati non vi è prova certa (nemmeno seriamente indiziaria) che sia stato raggiunto; dove per….. raggiunto debba intendersi l’aver percepito somme per vendere un match. E dunque, nel caso concreto, eventuali (quanto contestati dai due interessati) comportamenti preparatori o di semplice ideazione dell’illecito sarebbero rimasti tali, senza conseguenze “apprezzabili, concrete ed efficienti” .

Lasciando per un attimo il caso concreto e tenendo invece conto dei riflessi generali che il principio di diritto in questione, indicato dal Collegio di Garanzia, potrebbe comportare nell’ambito della giustizia sportiva, non si può non evidenziare come un simile principio, inaspettatamente e contraddittoriamente (con quello indicato in precedenza) garantista, creerà non pochi imbarazzi ai giudici federali che, in futuro, dovranno adeguarsi a tale principio ma nello stesso tempo fare i conti con la previsione di punibilità dei comportamenti posti in essere dai tesserati in violazione dei doveri di “lealtà, correttezza e probità sportiva” così come regolati dall’articolo 13 bis dello Statuto del CONI e dall’articolo 1 del Regolamento di giustizia della Federtennis. Insomma, un bel pastrocchio, indotto forse dal desiderio del Collegio, con la sentenza in questione, di dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E fin qui diciamo che la decisione del Collegio di Garanzia potrebbe essere discussa e non condivisa (per esempio da me) ma resterebbe comunque all’interno dei normali canoni di personale convincimento dei Giudici nell’esprimere la propria valutazione giuridica di un caso.
Ciò che invece è assolutamente aberrante nella sentenza in commento è il modo in cui sono state trattate le così dette questioni pregiudiziali che, se accolte (come avrebbero dovuto assolutamente essere!), avrebbero addirittura determinato la improcedibilità e la inammissibilità del procedimento apertosi avanti il medesimo Collegio di Garanzia del Sport. Con la rilevante conseguenza che la sentenza sostanzialmente assolutoria della Corte d’appello federale sarebbe oggi assolutamente definitiva per entrambi gli incolpati ma, di certo, quantomeno per Potito Starace. Con riferimento alla posizione di quest’ultimo, infatti, il Collegio ha violato, fornendone una interpretazione impossibile da condividere, una norma basilare e chiarissima delle regole che prevedono l’attività e la competenza proprio di questo massimo organismo di giustizia sportiva. Ed infatti è stabilito che al Collegio ci si possa rivolgere contro le sentenze definitive emesse in ambito federale (quelle d’appello), ma escluse quelle che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni inferiori a 90 giorni. Nel caso specifico Potito Starace non solo non ha subito una pena di 90 giorni, ma neanche di 60 e neanche di 30: è stato addirittura assolto! Cerca di argomentare sul punto il Collegio (che dovrebbe appunto…. garantire il rispetto delle norme da parte della giustizia federale): “….. non esiste una norma che vieti espressamente l’impugnazione delle sentenze favorevoli agli incolpati, e quindi si può fare….. se ci fosse stata la volontà di impedirlo, sarebbe stato previsto da una norma di cui invece non vi è traccia…..”.

In realtà altro che traccia! Esiste, infatti, una norma (quella sopra richiamata) che addirittura è più favorevole e garantista per l’incolpato, considerato che prevede la non impugnabilità nemmeno delle condanne fino a 90 giorni, figuriamoci delle assoluzioni! Cerca ancora di argomentare – per altro verso – il Collegio : ” …… ma il senso di questo limite è che la Cassazione non debba occuparsi di bagatelle , mentre qui addirittura c’era stata in primo grado la radiazione degli incolpati……”. Peccato però per il Collegio che in secondo grado quelle radiazioni erano state cancellate e che la norma in questione non dice che in “Cassazione” si possono impugnare solo sentenze che riguardino fatti che possano essere puniti con pene superiori al 90 giorni, bensì testualmente dice che possono essere impugnate solo sentenze che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni superiori ai 90 giorni! La differenza è chiara ed enorme, mi sembra. Ecco perché il povero Starace proprio non ci si doveva trovare davanti al Collegio di… garanzia. E ancora meno dovrebbe trovarsi davanti a una nuova Corte d’appello federale in “virtù” di un altro ragionamento aberrante (sul piano giuridico) del Collegio per il quale, in ogni caso, non si potrebbe certo ipotizzare che, in caso di più incolpati nel medesimo procedimento, questo possa continuare nei confronti di uno e non anche dell’altro (!). E così Potito si ritrova, a causa di una malaugurata decisione del massimo organo di giustizia sportiva e di garanzia, indissolubilmente legato ai destini del suo ex compagno di doppio in Coppa Davis.

Ma anche per Bracciali vale lo stesso discorso e lo stesso destino – ancorché per motivi diversi – di indissolubile legame con Starace. Ed infatti anche l’ex consigliere federale avrebbe tutte le ragioni per contestare la protratta esistenza di questo procedimento, considerato che la decisione che lo aveva condannato alla radiazione era arrivata abbondantemente oltre il termine di 90 giorni imposto dalle norme e che doveva quindi considerarsi nulla e inefficace. Dice al proposito il Collegio di… garanzia: “…… Ma il termine di 90 giorni per la decisione è stato sospeso e quindi prolungato in ragione dei rinvii chiesti dalla difesa di Starace…. …di questi rinvii ha notoriamente beneficiato anche l’altro incolpato , e dunque l’allungamento del termine vale anche per lui….” (!). Ma perché, viene da chiedersi, un rinvio deve necessariamente considerarsi un beneficio? Soprattutto per chi nemmeno lo ha chiesto e magari ha interesse a una decisione rapida del procedimento?! In realtà delle due l’una: o i giudici di primo grado respingevano le richieste di rinvio di Starace oppure stralciavano la posizione di Bracciali mandando avanti più speditamente il procedimento per lui, o meglio, secondo i tempi in cui Bracciali aveva diritto di essere giudicato. È così che i due malcapitati si ritrovano, come in un film della Wertmuller, indissolubilmente legati uno all’insolito e tragico destino dell’altro, reciproci destinatari dei rispettivi errori giudiziari. Ma si sa, la Cassazione è la Cassazione, sempre e comunque.

Massimo Rossi 

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