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Figlie e figliastre in Fed Cup: il caso Giorgi inciderà sul futuro della squadra azzurra?

Camila Giorgi nega la disponibilità a giocare in Fed Cup, trovando una risposta ben diversa a quella concessa a Roberta Vinci contro la Francia. La disparità di trattamento tra componenti della stessa squadra trova analogie con la Nazionale di Cesare Prandelli e la Roma di Francesco Totti e Luciano Spalletti

Last updated: 07/04/2018 12:54
By Ruggero Canevazzi Published 06/04/2016
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10 Min Read
Camila Giorgi in conferenza stampa a Marsiglia - Fed Cup 2016 (Foto di Laura Guidobaldi)

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La spinosa e complessa vicenda dello scontro Giorgi-FIT racchiude, tra i tanti spunti che se ne possono trarre, il dibattito sull’opportunità o meno, da parte di chi gestisce un team, di concedere deroghe a un regolamento comportamentale valido per tutti i membri della squadra. La Federazione si oppone strenuamente alla richiesta di Camila e papà Sergio di non prendere parte allo spareggio di Fed Cup che l’Italia giocherà contro la Spagna di Garbine Muguruza e Carla Suarez Navarro a Lleida il prossimo 16 e 17 Aprile. Al di là degli aspetti contrattuali, è legittimo da parte dei dirigenti federali e di capitan Barazzutti aver detto sì in passato a Pennetta, Vinci e Schiavone quando hanno avanzato la stessa richiesta della Giorgi, in virtù del maggior contributo dato dalle vincitrici della competizione?

Viene naturale guardare ad alcuni esempi che arrivano dal calcio, con la raccomandazione al lettore di Ubitennis più purista (magari fervente cultore della celebre frase di Gianni Clerici, per il quale “Ubi calcium, tennis cessat” – così parlò lo Scriba durante una telecronaca di un match degli Internazionali d’Italia di una decina di anni fa, per scagliarsi contro l’ingombranza non solo fisica dello Stadio Olimpico a pochi passi dai campi del Foro Italico) a non cadere nel tranello per il quale “il calcio è sport di squadra, il tennis no”. Come ha sempre detto Adriano Panatta, Coppa Davis e Federation Cup non sono tennis, sono un altro sport. Questo vale per la particolarità delle due competizioni in termini di ambiente, tifo e superficie a favore della nazione di casa rispetto a quella ospite, ma soprattutto per il fatto che si tratta appunto di squadra di casa e squadra ospite. Con una formula superata finché si vuole, Davis e Fed Cup costituiscono la trasformazione in sport di squadra dello sport più individuale di tutti. Valgono quindi le logiche squisitamente tipiche degli sport di squadra: l’importanza del gruppo e la contemporanea valorizzazione degli elementi migliori come le tattiche utili a non rendere visibili agli avversari le proprie strategie. Si pensi ad esempio al primo turno di Davis perso nel Marzo 2015 contro il Kazakistan. Barazzutti, sul finire del primo match dell’ultima giornata nel quale Seppi stava per subire una netta sconfitta da parte di un perfetto Kukushkin, non ebbe la malizia di mandare negli spogliatoi anche Bolelli assieme a Fabio Fognini, allo scopo di non rendere palese alla squadra di casa che il match decisivo sarebbe stato giocato dal tennista di Arma di Taggia. Fognini aveva sempre battuto Golubev al quale fu quindi preferito Nedovyesov: un esempio della (mancata) classica pretattica da sport di squadra.

A proposito di calcio, il ct della Nazionale azzurra del quadriennio 2010-2014 Cesare Prandelli adottò una disparità di trattamento simile a quella dei vertici federali del tennis italiano, reagendo in modo radicalmente opposto alle vicissitudini che accompagnarono Domenico Criscito e Mario Balotelli: per il primo scattò implacabile la tagliola del “Codice Etico” appena fu accusato di frode in una delle inchieste legate alle scommesse (dalla quale sarebbe poi stato assolto), per il secondo ogni intemperanza era ben accetta, dato che di Criscito il nostro commissario tecnico poteva fare a meno, mentre del Balotelli di allora no.

In questa stagione, Luciano Spalletti ha seguito un atteggiamento del tutto diverso: alla vigilia del ritorno dell’ottavo di finale di Champions League col Real Madrid ha chiesto ai suoi uomini di non turbare l’ambiente e ha punito Francesco Totti per aver rilasciato dichiarazioni in tv in merito al suo scarso impiego inevitabilmente destinate a far discutere, giustificando la scelta dicendo che come allenatore deve pensare alla squadra e che “c’è Totti ma ci sono anche gli altri giocatori”.

In termini di principi sportivi, la disparità di trattamento applicata ai tempi da Prandelli in nome del diverso valore di due suoi giocatori è del tutto inaccettabile. Difficile sostenere altre argomentazioni lungo questa direzione. Molto più interessante diventa invece ragionare avendo come fine ultimo, utilitaristico ma inevitabile, il risultato di squadra. Siamo così certi che l’occhio di riguardo per i giocatori più forti sia così sbagliato? La Roma di oggi può certamente rinunciare al Totti attuale, ma l’Italia reduce dal secondo posto dell’Europeo 2012 poteva effettivamente rinunciare al Balotelli di allora?  Col senno di poi è facile rispondere sì, ma quanti alla vigilia di Brasile 2014 avrebbero appoggiato la scelta di lasciare a casa uno dei pochissimi calciatori di qualità di quella Nazionale azzurra? Ha senso perseguire rigidamente il codice comportamentale, anche a costo di rinunciare ai giocatori migliori?

Chi appoggia l’uguaglianza di tutti i membri della squadra di fronte ai canoni imposti da chi la guida si domanda, tollerando il Balotelli di turno, quale messaggio riceverebbe l’equivalente di Domenico Criscito. Come potrebbe il componente meno talentuoso continuare ad allenarsi e motivarsi per la causa della squadra, se viene trattato da figliastro mentre l’altro da figlio? Certo è più doloroso escludere il giocatore di maggiore talento e quindi dal peso specifico indubbiamente superiore, ma in una squadra servono anche i rozzi pedalatori e gli incontristi più scorbutici: i Mondiali si vincono con i Paolo Rossi e gli Andrea Pirlo ma anche con i Gabriele Oriali e i Fabio Grosso. L’occhio di riguardo verso i più forti potrebbe minare la compattezza del gruppo. È dunque più utile, ai fini del risultato di squadra, concedere alcune forme di privilegio agli elementi più forti oppure l’intesa e l’unione del collettivo sono più redditizie?

Tornando al tennis, la possibilità per capitano non giocatore e dirigenti di concedere una deroga all’obbligo di risposta alla convocazione per un turno di Coppa Davis o di Fed Cup trova terreno di discussione quando la squadra in esame dispone di diversi componenti dal valore almeno paragonabile: è evidente che Marco Chiudinelli non può e non potrà in alcun modo criticare Roger Federer se quest’ultimo gode di totale libertà di scelta quando si tratta di rispondere presente alla chiamata di Severin Luthi. Diverso è il caso di Camila Giorgi e le altre ragazze dell’Italia di Fed Cup. Non di rado la federazione ha concesso alle principali artefici dei successi azzurri del 2006, 2009, 2010 e 2013 di saltare qualche turno scomodo, in nome del forte contributo già dato in termini di vittorie e numero di presenze. Roberta Vinci ha potuto così saltare il primo turno di Fed Cup 2016 di Marsiglia, perso contro la Francia lo scorso Febbraio, mentre i rifiuti di Simone Bolelli nel 2008 contro la Lettonia e ora della Giorgi contro la Spagna hanno trovato tolleranza zero da parte della FIT.

Anche qui, i figliastri Bolelli e Giorgi possono dimenticare in caso di future convocazioni la disparità di trattamento rispetto ai figli (o per meglio dire alle figlie) Pennetta e Vinci? Nel caso di Bolelli no, in quello di Camila si potrebbe pensare che il già difficile rapporto tra lei e le altre ragazze possa essere più importante, in termini di affiatamento e compattezza del gruppo, di questa singola esclusione: in altre parole, poco male trattare con meno riguardo la giocatrice già di suo meno integrata nel gruppo. Il ragionamento potrebbe anche filare, se non fosse che l’attuale gruppo di Fed Cup, per quanto compatto e affiatato, è destinato a durare ancora per poco, molto poco. Con Schiavone e Pennetta ormai fuori dai giochi e la Vinci che potrebbe ritirarsi già alla fine di quest’anno, rimarrebbe la sola Sara Errani, ancora determinata ma inevitabilmente nella fase discendente della carriera. La logica allora viene ribaltata: Camila Giorgi nel giro di un anno o due, pur con tutti i limiti tattici del suo gioco, diventerebbe una delle due singolariste fisse, attorno alla quale costruire il nuovo gruppo azzurro, altro che figliastra! Visti i tempi di magra che ci aspettano, risulta difficile rinunciare al suo talento. Lei, Sara e Karin Knapp sono le tre tenniste su cui fare affidamento nel breve e medio termine, anche nell’ottica di dare più tempo possibile per la necessaria crescita alla diciassettenne Ludmilla Samsonova, vera speranza del tennis azzurro al femminile dopo l’ottimo esordio all’Australian Open junior e il fresco successo nel torneo Città di Firenze.


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