WTA, non si ritirano solo le stelle - Pagina 2 di 4

Al femminile

WTA, non si ritirano solo le stelle

Da Klara Koukalova a Sofia Arvidsson, da Nicole Vaidisova a Mathilde Johansson, nel 2016 giocatrici di diverso livello hanno deciso di ritirarsi: ecco perché le loro storie meritano di essere ricordate

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Mathilde Johansson
Johansson si è ritirata a 31 anni appena compiuti. Francese di origini svedesi (è nata il 31 maggio 1985 a Goteborg), ha deciso di chiudere nello scenario per lei più importante: al Roland Garros. Non avendo più la classifica necessaria per essere ammessa al tabellone principale (prima degli Open di Francia 2016 era numero 218) ha preso parte alle qualificazioni, perdendo al secondo turno. Mathilde è stata seguita da un cameraman per tutte le fasi di preparazione ai match, e così la sua ultima avventura parigina è diventata poi soggetto di un documentario per Eurosport France.

Fra il 2008 e il 2012 è stata in grado di raggiungere posizioni di classifica di un certo prestigio, con un best ranking al numero 59 e lunghi periodi fra le prime 100.
Questi alti e bassi di classifica le hanno consentito di misurare sulla propria pelle le diverse condizioni economiche di una tennista, e anche l’aspetto finanziario ha inciso sulla sua scelta di dire basta. Ecco cosa ha raccontato: “Una giocatrice nella top 100 guadagna decentemente; nella top 50, guadagna bene; quando appartiene alla top 10 ha gli organizzatori ai suoi piedi”. Tutt’altra cosa quando invece si scende in classifica: “Nei tornei minori le spese di viaggio e alloggio sono a proprio carico. Si deve quindi prestare attenzione alla minima spesa. Niente a che vedere con gli Slam in cui tutto è curato”.

In passato ho seguito diversi match di Mathilde Johansson e, anche se non credo di avere mai scritto una riga su di lei, alla luce dei risultati effettivamente raggiunti devo confessare a posteriori di aver sopravvalutato le sue possibilità.
Ma per spiegarlo occorre una piccolo preambolo. Nei primi anni di attività, sembrava quasi fragile in campo; giocatrice con una muscolatura abbastanza sottile, in realtà era una vera atleta: forse non mobilissima, ma capace di far viaggiare la palla in modo perfino sorprendente.
Quando trovava le giornate giuste era in grado di comandare il gioco e “mettere sotto” anche avversarie di ranking superiore. Ma, e qui stava a mio avviso il suo principale problema, soffriva molto la pressione del punteggio. Fino a che giocava punti normali poteva sfoderare vincenti a ripetizione; ma quando i momenti si facevano decisivi molto spesso andava in crisi, fino a commettere errori sconcertanti, quasi incredibili se paragonati al livello espresso sino a qualche minuto prima.
Con queste premesse risulta intuibile la mia sopravvalutzione: ipotizzavo che prima o poi sarebbe riuscita a rafforzarsi mentalmente e ottenere così risultati più significativi. Magari non in continuità, ma pensavo che almeno una volta avrebbe trovato la settimana della vita, quella durante la quale funziona tutto e si riescono a superare i propri limiti, paure incluse; invece non è mai accaduto, e ha chiuso la carriera senza tornei vinti nel circuito WTA.

Mathilde nel 2011 era finita sua malgrado al centro di una vicenda sgradevolissima: dopo aver perso una partita aveva ricevuto diverse minacce di morte su Facebook. La maggior parte erano in inglese, molto probabilmente provenienti da scommettitori che non avevano digerito la sua incapacità di vincere un match nel quale pareva assolutamente dominante.

Quella partita l’avevo seguita, e mi è rimasta impressa come un tipico incontro “Johansson style”: Pennetta def Johansson 4-6, 7-5, 7-5, disputato sulla terra battuta di Palermo.
Allora Johansson era numero 67 del mondo, mentre Pennetta era numero 21 e testa di serie numero 1 del torneo; eppure Flavia non riusciva proprio a contenere il gioco dell’avversaria, che la costringeva a remare a ridosso dei teloni. Dopo aver vinto il primo set 6-4, nel secondo Mathilde era salita 5-3 e servizio. E qui si era bloccata, fermata dalle proprie paure, perdendo 5-7.
Stessa cosa nel terzo set: di nuovo dominante sino a a sfiorare il 4-0, e poi ad una passo dalla vittoria sul 5-3 e servizio. E al dunque di nuovo il braccino fatale, che distrugge tutto il vantaggio, perdendo quattro game di fila. Tre ore di lotta con un finale amarissimo per lei.

A distanza di cinque anni, e a carriera terminata, penso proprio che se Johansson non è mai riuscita ad andare oltre un certo livello sia soprattutto perché è stata frenata da quei limiti psicologici. E non è difficile ipotizzare che la mie sensazione di aspettative mancate l’abbia avuta per prima lei stessa: non deve essere facile sapere di poter esprimere un certo livello di gioco e non riuscire a farlo quando conta davvero. Sotto questo aspetto il tennis è uno sport che può essere così duro da apparire crudele.

Nella pagina 3: Nicole Vaidisova, la doppia carriera di una superstar mancata

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