ATP Finals al via: timidi outsider, assenze pesanti e solito Fedal

Rubriche

ATP Finals al via: timidi outsider, assenze pesanti e solito Fedal

Una Race dal finale thriller ha portato alla O2 Arena nomi nuovi, outsider di razza e un recuperato Nadal, alla ricerca del primo sigillo in una manifestazione prestigiosa e discussa. Possibilmente contro il favorito Federer

Pubblicato

il

 

Se l’ATP Race fosse una gara di atletica leggera, poniamo un 1500 metri, li avremmo visti piantarsi a un passo dal traguardo. Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Superati a velocità tripla all’ultimo metro da un giovane che si porta dal nativo Nebraska un coinvolgente sorriso Durbans. Lui, trionfante, braccia al cielo e occhi fuori dalle orbite. Gli altri, piegati per la fatica e la delusione a rimuginare sull’occasione perduta. L’incertissima corsa agli ultimi posti per le ATP Finals è andata più o meno così. Una lotta dai contorni vagamente surreali, vinta da Jack Sock, capace di portare a casa il primo Masters 1000 della carriera e la conseguente qualificazione alla competizione che animerà la O2 Arena nei prossimi giorni.

Tonfi clamorosi e inattesi trionfi

Riportiamo indietro il film della Race e fermiamolo al fotogramma che ritrae il gruppo compatto. Siamo a fine ottobre, in terra cinese, all’indomani dell’ennesimo trionfo di Roger Federer ai danni della sua nemesi (ex?) Rafael Nadal. L’obiettivo, per una volta, si sposta su quella manciata di coprotagonisti impegnati in una partita che può segnare un’intera carriera. Due i posti ancora disponibili per l’evento londinese, almeno quattro volte tanto i pretendenti. Compagine eterogenea, che conta giovani come Goffin e Carreño Busta. Veterani alla ricerca del colpaccio mai riuscito, come Anderson e Querrey. E due pezzi da novanta, del Potro e Tsonga. Sullo sfondo, inclusi nel gruppone solo da un pallottoliere possibilista, gli americani Sock e Isner, il francese Pouille e gli spagnoli Ramos-Vinolas e Bautista Agut, questi ultimi meno accreditati più per la minor attitudine ai campi indoor che per la loro classifica.

Ognuno di loro è arrivato alla stretta finale attraverso un suo percorso, fatto di piazzamenti, vittorie pronosticabili, finali inattese. Fortune e inciampi ora azzerati da quel fermo fotogramma che impone al cronometro un reset, prima del rush finale. Lo sprint si rivela caotico, intriso di casualità, comunque divertente. Alcuni faticano, vedi del Potro, gambe in acidosi per via dell’accelerazione troppo violenta con cui sta tentando da mesi di recuperare il tempo perduto nella prima parte dell’anno. La sua cavalcata trova in Long John Isner un ostacolo troppo alto per i suoi garretti attuali.

Lo stesso americano cui l’ex promessa serba Filip Krajinovic nega l’accesso alla O2 Arena in un tie-break roulette, la formula che tante altre volte ha visto il pivot statunitense pescare il jackpot. È stanco anche Carreño Busta, a corto di gas proprio quando viene chiamato a giocarsi le sue carte su superfici poco amiche. Di altri lasciano di stucco le emblematiche retroprestazioni, un passo del gambero a indicare forse il desiderio inconscio di scappare da un palcoscenico troppo grande per loro. Anderson, Tsonga e Querrey, pure attrezzati per il tennis indoor, si incartano con avversari caldi quanto battibili. Per Goffin va fatto un discorso a parte. Il belga, seppur non in forma smagliante, si assicura l’ingresso fra i magnifici 8 grazie al vantaggio che ha in classifica e alla sconfitta di Pouille. Che invece spreca una ghiotta occasione di qualificarsi per Londra.

In sostanza, i potenziali Maestri si rivelano contendenti impantanati nel corridoio delle opportunità, come i carpet crawlers del magnifico brano degli ultimi Genesis gabrielliani: a bruciarli di slancio è Jack Sock. L’unico capace di affrontare a testa bassa l’ultimo torneo della stagione regolare, Paris-Bercy, per muovere la classifica. Consapevole della sua scomoda posizione, è numero 24, va ad agguantare l’ultimo pass disponibile all’ultima partita utile. Tutto definito, quindi. A chiudere il cerchio, la conferma della presenza del numero uno del mondo Nadal. Che relega al ruolo di alternate, il panchinaro dei Maestri, il compatriota Carreño Busta, affossato dal pessimo bilancio post-US Open (1-6).

Il prestigio di un torneo discusso

Raccontato il film di questo anomalo finale di stagione, cerchiamo di analizzarne i perché. Intanto, dandogli una prospettiva, uno scopo ultimo: le ambite quanto discusse ATP Finals. In quanto a importanza e spettacolarità sono indiscutibilmente una manifestazione appena sotto i major. Scontano il peccato originale di una formula iconoclasta, priva nelle fasi iniziali dell’eliminazione diretta, la morte allegorica che, unitamente alle implicazioni psicologiche, accresce notevolmente l’epica del tennis. Tanto che, fa sempre impressione vedere la coppa nelle mani di chi ha perso nel girone eliminatorio.

La seconda obiezione mossa dai detrattori mette assieme criterio di ammissione, collocazione temporale dell’evento e superficie su cui viene giocato. Oggettiva che più non si potrebbe, si badi, la Race è una sommatoria di punti accumulati nell’anno solare. La consistenza dei numeri, imperniata sul lungo arco di tempo durante il quale costruire la classifica, rappresenta al tempo stesso una debolezza. Capita che il gruppo degli 8 eletti includa fior di giocatori capaci di strepitose strisce di risultati, che cadono però in frangenti molto lontani da novembre, il mese dedicato all’ultima prova dell’anno (Davis esclusa). Non è infrequente che qualche contendente arrivi spompato al big event (Zverev, per esempio, sembra un po’ scarico). Infine, il fattore campo, inteso come superficie: è possibile che quel tesoretto venga guadagnato, come nel caso di Dominic Thiem – uno che ancora fa a pugni con il duro – in stadi dalle caratteristiche opposte a quello che ospiterà le Finals. Tanto da spingere commentatori e anche giocatori a proporre di far ruotare sede e superficie nel nome delle pari opportunità. Agli scettici viene però “sbattuto in faccia” un albo d’oro degno di Wimbledon. Una teoria di grandi campioni da sgranare con il dovuto rispetto. A riprova che i vizi della formula non ne intaccano la validità tecnica.

L’anomalo 2017, una corsa a eliminazione

Inquadrato il contenitore, passiamo al contenuto. Si potrebbe considerare, se non ingiusta, casuale la presenza a Londra di chi, alla vigilia dell’ultimo torneo dell’anno, era solo il numero 24. Ma, da un lato Sock ha pienamente meritato di vincere Bercy. Dall’altro, non è una novità la qualificazione in limine, frutto di una coda d’anno ricca di piazzamenti e punti pesanti, cosa che riuscì a Gilles Simon nel 2008. Infine, scorrendo anno per anno le line-up degli ammessi alle Finals, non troviamo solo nomi da blockbuster ma anche, fra gli altri, Puerta – peraltro squalificato per doping per la seconda volta proprio dopo l’edizione 2005 della Masters Cup -, e Schüttler. Ottimi giocatori autori di annate ben al di sopra della loro media.  La vera peculiarità della Race 2017 è il numero di aspiranti Maestri: tanti, tenuti assieme dal collante di una classifica cortissima che ha spinto chi aveva voglia e know-how a rispolverare i rudimenti del calcolo combinatorio e sviluppare tutti gli scenari mano mano che venivano resi noti i tabelloni.  Il motivo di questo sprint di massa? È racchiuso in una statistica:

A fine agosto, i primi 5 della classifica di fine 2016 sono impossibilitati, per infortunio, a disputare non solo lo US Open, ma tutti i tornei da quel momento in poi. Un dato incontrovertibile sul vuoto di potere venutosi a determinare man mano che i pezzi pregiati venivano traditi dal fisico. Cui solo pochi mesi prima avevano chiesto sforzi evidentemente eccessivi. Le assenze pesanti hanno facilitato non poco il compito dei due dominatori della stagione, tornati ai fasti del decennio precedente – dirlo non può essere considerato atto di blasfemia contro il Fedal. Figuriamoci quanto possano aver spinto i tennisti di seconda fascia a trovare un posto al sole, anche solo l’ottavo. Che in altre circostanze era stato loro negato dalla superiore capacità e ambizione dei vari Raonic, Nishikori, il purosangue da major Wawrinka e, soprattutto, gli altri due fenomeni dell’ultimo decennio, Djokovic e Murray.

Ma perché sono crollati a un passo dal traguardo? Proprio nel momento della verità sono emersi i limiti di chi non era pronto sul piano del gioco, fisico o mentale. Quasi spiazzati dall’improvvisa apertura della club house che conta, è probabile che alcuni fra loro non avessero semplicemente programmato sul piano atletico una stagione tanto lunga. Per altri, porsi in ottica Londra era semplicemente chiedere troppo alle proprie riserve nervose. Perciò non sono riusciti a far appello alla convinzione di meritarsi davvero quel posto al sole. Per altri ancora un insieme delle due condizioni. Ora la corsa è finita, il video è stato visto mille e mille volte. Incombe la diretta, il confronto fra i migliori 8 al mondo. Comunque ci siano arrivati, e a prescindere da background e peculiarità tecniche, onore al merito. Rimandato il ricorso al fido pallottoliere alle fasi finali dei gironi eliminatori, lasciamo che sia la racchetta a parlare.

Continua a leggere
Commenti
Advertisement

⚠️ Warning, la newsletter di Ubitennis

Iscriviti a WARNING ⚠️

La nostra newsletter, divertente, arriva ogni venerdì ed è scritta con tanta competenza ed ironia. Privacy Policy.

 

Advertisement
Advertisement
Advertisement