Anderson-Isner, i giganti si sfidano a cannonate (Crivelli). Rafa e Nole: il "clasico" promette scintille (Bertolucci). Mamma Serena, la finale più dolce: "Olympia con me" (Rossi). Se la mamma è Serena (Azzolini). Federer ed i guai alla schiena. Nadal-Djokovic: la lunga rincorsa (Semeraro)

Rassegna stampa

Anderson-Isner, i giganti si sfidano a cannonate (Crivelli). Rafa e Nole: il “clasico” promette scintille (Bertolucci). Mamma Serena, la finale più dolce: “Olympia con me” (Rossi). Se la mamma è Serena (Azzolini). Federer ed i guai alla schiena. Nadal-Djokovic: la lunga rincorsa (Semeraro)

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Anderson-Isner, i giganti si sfidano a cannonate (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello sport)

In questo circolo c’è chi si è meritato una statua: Fred Perry. Oppure chi è stato immortalato dai versi di una poesia: Rudyard Kipling. E poi c’è lui, John Isner, onorato di una targa sul Campo 18 per celebrare la partita delle partite, quella più lunga di sempre, il 70-68 dopo 11 ore e 5 minuti (spalmate su tre giorni) con cui batté Mahut nel 2010. Un ricordo per l’eternità. Poche storie, fino a due settimane fa la relazione con Wimbledon dell’americano gentile si sostanziava tutta in quell’evento straordinario, anche perché da allora i successi su questi prati erano stati pochini, appena nove. Ma il nuovo corso del ragazzone del North Carolina, per la prima volta in una semifinale Slam al 41° tentativo e a 33 anni, chiedeva solamente un clic extratennistico che liberasse la mente dalle scorie di un paio di stagioni sotto tono. Ci hanno pensato il matrimonio e una cena. Il 2 dicembre John si è sposato con Madison (ora lei aspetta una bambina) e la luna di miele ai Caraibi è durata appena sette giorni per non sottrarre tempo alla preparazione: «Ho fatto un passo molto importante, per la carriera sarà un vantaggio». Solo che fino a marzo l’assioma sembra non funzionare: appena due vittorie. E allora coach Macpherson lo invita al ristorante e gli spiega che ormai non è più una questione tecnica, ma solo di testa quando scende in campo. Il faccia a faccia è dirompente: pochi giorni dopo Isner conquista a Miami il primo Masters 1000 in carriera, torna nei primi 10 e mette insieme la miglior stagione della vita sublimata dalla grande cavalcata ai Championships. Che oggi potrebbe proiettarlo addirittura in finale, primo statunitense da Roddick nel 2009: intanto Long John è l’unico giocatore dal 1992, anno in cui si è cominciata a conteggiare la statistica, a raggiungere il penultimo turno senza aver perso nemmeno un servizio (95 su 95). È anche il numero uno negli ace di questa edizione (161) e il più alto di sempre (2.08) arrivato così avanti. Una semifinale gigantesca, nel senso letterale del termine, e mai vista: il rivale Anderson tocca i 2.03, per un totale sul campo di 4 metri e 11. È l’avverarsi della profezia di Ferrer, che nel 2015 si spinse a ipotizzare che i giocatori come lui (è 1.75) sarebbero scomparsi nel giro di dieci anni e che anche i Federer e i Nadal (entrambi 1.85) sarebbero stati in difficoltà? Dal 1990 a oggi l’altezza media dei primi 100 è aumentata di due centimetri e i giocatori sopra l’1.96 sono quasi il 20% rispetto al 3% di allora. Da quelle vette, la battuta diventa perciò un’arma non convenzionale (Anderson a sua volta è a quota 123 ace nel torneo con appena 9 servizi su 110 persi), in particolare sull’erba dove i rimbalzi meno accentuati rendono più difficile leggere le traiettorie. Inoltre bisogna aggiungere l’estensione del braccio e della racchetta, che aumenta la rapidità di esecuzione e la probabilità di centrare comunque il rettangolo del servizio anche quando la palla non esce alla perfezione dal piatto corde. Ma sarebbe sbagliato, nonostante l’ovvia incidenza del colpo iniziale sul loro gioco, considerare Isner e Anderson due interpreti monotematici. Il sudafricano, contro Federer, ha vinto perché è salito di livello con la risposta e ha retto negli scambi da fondo, mentre l’americano contro Isner ha ottenuto 30 punti su 37 a rete… [SEGUE].


Rafa e Nole: il “clasico” promette scintille (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)

Lo scontro odierno tra Rafa Nadal e Nole Djokovic, promette autentiche scintille sotto l’aspetto fisico, tecnico e mentale. Nole, dopo un periodo nebuloso, ha risalito seppur a fatica la china mettendo la testa al centro del progetto. È tornato sui suoi passi, e riformando il vecchio team ha respirato l’aria di casa e assaporato nuovamente le antiche certezze. Adesso è tornato a rifiutare la sconfitta. Riscoperto buone sensazioni e trame di gioco interessanti. Il servizio ha ripreso a rispondere ai comandi con puntualità, la ribattuta atterra profonda, il dritto è continuo e il rovescio risolve anche i problemi più complicati. L’ingombrante presenza di Nadal dall’altra parte della rete non lo tiene al riparo da brutte sorprese, ma questa edizione di Wimbledon ha riconsegnato al tennis la versione quasi autentica del serbo. Rafa, reduce dalla vittoriosa battaglia contro Del Potro, è la furia rossa che risorge dai continui infortuni più forte di prima. Un gatto dalle mille vite che cresce, si evolve e muta a seconda delle circostanze. Un ragazzo di mare, con lo sport che scorre copioso nelle vene, un campione assoluto fornito di un buon bagaglio tecnico che nel corso delle stagioni ha ampliato con nuove soluzioni… [SEGUE].


Mamma Serena, la finale più dolce: “Olympia con me” (Paolo Rossi, Repubblica)

La maternità le ha davvero aperto un mondo nuovo. Pensieri diversi, punti di vista inimmaginabili prima. Serenità. Serena Williams non si nasconde più, non evita più gli ostacoli: ci va incontro e li salta a piè pari come ogni mamma fa tutti i giorni per i propri figli. Lei ieri lo ha fatto con Julia Goerges, regolata con un 6-2, 6-4. La sua trentesima finale di uno Slam, decima a Wimbledon, ha un gusto che però vuole rivelare solo domani, a sfida conclusa. A 36 anni e 291 giorni – conquistando l’ottavo Wimbledon – raggiungerebbe Margaret Court in cima alla classifica delle vincitrici delle prove Slam: 24, un record che si riteneva irraggiungibile. Domani, sempre ipoteticamente, Serena Williams emulerebbe Kim Clijsters, Evonne Goolagong Cawley e la stessa Margaret Court, uniche nella storia del tennis a vincere dei Major dopo il parto. Va aggiunto che negli anni Settanta l’intensità fisica del tennis femminile non era proprio quella di questi giorni, e che la Clijsters aveva dieci anni meno di Serena. Giusto per dare – sempre ipoteticamente – il valore del risultato. Ma la prima a non dare le cose scontate è proprio lei, la mamma che dieci mesi fa ha dato alla luce la piccola Alexis Olympia. «Kerber è in forma, in fiducia: l’erba le piace, giocherà al massimo». Ma il mondo crede solo nella vittoria di Serena. «Incredibile, no? Pensando a tutto quello che ho passato: ho perso il conto degli interventi chirurgici, mi pare quattro. Alla fine sapete qual è la cosa positiva? Sono perfettamente consapevole del mio corpo. So esattamente cosa sta succedendo. Ho imparato molte cose in termini di medicina e capisco come funziona il mio corpo. Prendete il caso dell’embolia polmonare: ci convivo, ed è dura soprattutto mentalmente, ma grazie alle conoscenze non vado in panico. L’altro giorno ho avuto un dolorino, e immediatamente il pensiero è andato all’embolia: poi, con calma, ho verificato e mi sono calmata». Ma questa è la parte della sua vita cui Serena risponde per professionalità, mentre il messaggio di cui ha deciso di farsi portatrice è quello della rivalutazione del ruolo della mamma: «Essere una mamma, è super figo. Io entro in campo sapendo che – qualunque cosa accada – avrò il supporto incredibile e l’amore incondizionato di mia figlia. È una così bella sensazione. Non posso davvero descriverlo, non l’ho mai saputo fino a quando è successo. Quindi, sì, mi sento meravigliosamente. Sono davvero orgogliosa di questo modello di vita. Mi piace, l’ho abbracciato. In realtà l’ho sempre abbracciato ma ora mi sento ancora più forte, e vorrei di più, farne un modello di ruolo. Penso sia importante per me. Uno degli obiettivi della mia vita»… [SEGUE].


Se la mamma è Serena (Daniele Azzolini, Tuttosport)

C’è una mamma in finale a Wimbledon, e non è una storia normale, anche se con un po’ troppa fretta si tende a derubricarla a evento comune, di tutti i giorni. Non lo è, anche se Serena Japeka Williams, a Wimbledon, ha vinto tutte le volte che ha voluto, o quasi. Ma è lei, Serenona Mammona, a non essere “normale”, come le altre. Ha condotto una vita in prima linea, sempre, dalla casa da “emigranti nigeriani” nel Ghetto di Compton, Los Angeles, al titolo di “The Queen”, regina riverita e riconosciuta negli stadi tennistici di tutto il mondo… [SEGUE]. Debuttò nel 1995, e fanno 23 anni. Nel 1998 giocò il primo Slam, l’anno dopo conquistò i primi Us Open, cui hanno fatto seguito altri 22 trofei, uno in più di Steffi Graf, uno in meno di Margaret Court, che a 24 titoli è giunta collezionando coppe australiane, quando Down Under non andava nessuna. Ha ammucchiato titoli dello Slam anche in doppio, sedici in tutto, quattordici con la sorella, due nel misto. In singolare ha solo sei finali perse nei Major, ed è la donna che ha vinto più dollari sul campo, 84 milioni 811 mila al netto di questi Championships. Ora Serena Williams vuole vincere Wimbledon per l’ottava volta, come Federer, a un solo titolo da Martina Navratilova. Ha 36 anni, e dieci mesi fa, il primo di settembre, è diventata madre della piccola Alexis Olympia Ohanian Jr che ha due occhi che incantano. Un parto difficile, con un serio rischio per la sua vita, un’embolia polmonare «di cui ho saputo solo dopo». Vi sembra normale tutto ciò? È tornata in campo a febbraio, in un doppio di Fed Cup, appena cinque mesi dopo la gravidanza, poi ha giocato Indian Wells, Miami, Parigi. Wimbledon è il quarto torneo. L’ha cominciato sbracciando, alla ricerca del feeling con la palla, con il suo corpo un po’ più pingue e voluminoso di prima. Via via si è ritrovata, come sempre ha fatto i conti con se stessa e se li è fatti tornare. Non è tipa da risparmiarsi le critiche, «per stare in questo tennis, alla mia età», dice, «devo essere molto esigente con me stessa». Ma sa di essere a buon punto, certo prima del previsto. «Una finale a Wimbledon era una speranza, anzi, meglio, mi divertiva pensarlo. Lo ritenevo possibile? In fondo al cuore, nei pensieri più reconditi, ma sapevo che sarebbe stato difficile e che se mi fossi lanciata in un pronostico, il più veritiero avrebbe messo in preventivo un’uscita rapida dal torneo, nei primi due o tre turni». E invece, eccola qua, ancora in finale, la decima nei Championships. La sola che l’abbia fatta tremare è stata Camila Giorgi, che le ha strappato l’unico set concesso da Serena in questo torneo. Le altre le ha passate a fil di racchetta: Rus, Tomova, Mladenovic, Rodina. Ieri Julia Goerges, tedesca decisamente autoreferenziale, l’unica fra le semifinaliste a non aver mai vinto nulla, ma capace di presentarsi come una star. Serena ne ha fatto polpette, alla sua maniera. E ha corso bene, stavolta, senza risparmio, recuperando palline lontane e mantenendo sempre solidi gli appoggi, utili a tirar giù le sue famose randellate. Solo un attimo di disattenzione sul 5-3 del secondo, quando ha servito per chiudere il match e forse ha fatto i conti con l’impresa che stava per compiere. Ha abbassato la guardia, solo per un attimo, la Goerges è salita a 5-4 ed è andata a servire per agganciarla, già esultando. È bastato quello a Serena. Ha risposto con quattro lampi di luce vivissima e si è ripresa il punto. Game, Set and Mom… [SEGUE].


Federer e i guai alla schiena. Nadal-Djokovic: la lunga rincorsa (Stefano Semerano, Stampa)

Mercoledì Roger Federer è uscito dal campo con addosso più delle 4 ore e un quarto che aveva speso prima dando per scontato, poi illudendosi, di poter battere Kevin Anderson e assaggiare la sua 13a semifinale a Wimbledon. «Non sono mai riuscito a sorprenderlo, questo mi fa male», ha mormorato poi, con l’aria chi è tornato a farsi domande sgradevoli. Dal suo cerchio magico – sottovoce perché il Genio non è abituato a cercare alibi – filtra l’indiscrezione che le vertebre lombari abbiano ricominciato a tormentarlo. Quanto si è visto in campo, prima e durante i Championships, confermerebbe: la fatica a trovare gli appoggi bassi, a servire con il necessario veleno, ad allungarsi sulla risposta. Del resto era parso già strano che chi veniva da tre mesi di riposo avesse giocato meglio al debutto sull’erba, a Stoccarda, che nel torneo seguente, ad Halle. Se arriveranno notizie di un riposo — più o meno prolungato — non stupiamoci troppo. In tutta la vicenda conta l’età, saranno 37 anni l’8 di agosto; di sicuro la sconfitta apre ufficialmente un nuovo capitolo, quello della caccia al suo record. Nadal e Djokovic, che si incontrano oggi in una semi finale che odora di mini-finale (nell’altra un frastuono di ace premierà Isner o Anderson) sono di 5 e 6 anni più giovani. Come Federer, ripetutamente riemerso dalla sepoltura a cui lo avevamo consegnato, anche loro erano stati dati frettolosamente per finiti, Rafa per questioni sanitarie, Nole per complicazioni dietologico-esistenziali. Rieccoli invece qui, ad affrontarsi per la 52esima volta, la più lunga rivalità di sempre nel tennis maschile (fra le donne Evert e Navratilova arrivarono a 80)… [SEGUE].

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